Spiritualità

Sbiadito e svalutato il pedigree dei titoli di stampo materialistico, l’Europa ha ultimamente recuperato, insieme alla vaga fierezza delle sue radici umanistiche, la coscienza della propria tradizione cristiana. E lo ha fatto con lo stupore di chi ripesca dal vetusto e polveroso baule degli avi una favolosa gemma, o la portentosa ricetta con cui elaborare la panacea in grado di guarire ogni male o disagio.
La riscoperta da parte degli abitanti del Vecchio Continente delle proprie radici cristiane è stata soprattutto incentivata dalla mancata citazione di questa loro prerogativa nel preambolo alla Nuova Costituzione europea in cantiere a Bruxelles. Nel testo in questione si fa riferimento soltanto alle influenze greche, romane e illuministiche sulla storia politica, culturale e ideale europea, senza minimamente accennare al contributo basilare dato dai valori cristiani alla formazione della identità etica ed estetica di questa parte del globo che, nel bene e nel male, ha girato la ruota degli avvenimenti storici umani per secoli, prima di cedere il passo e lo scettro alla nascente civiltà atlantica.
Si è pertanto accertato e ribadito che il retaggio storico, culturale, politico, artistico e scientifico dell’Europa, con varie sfumature e connotazioni formali, è profondamente modulato sui valori che il messaggio del Cristo, attraverso l’insegnamento evangelico, anch’esso variamente interpretato e praticato, ha saputo intessere alla sostanza piú intima delle cose e vicende che gli uomini europei hanno prodotto e vissuto nel tempo.
Ma con quali ragioni possiamo tuttora ritenerci depositari dell’autentica tradizione cristiana? A voler esaminare con distacco l’esito finale della parabola storica europea, si dovrebbe affermare che a nulla o a relativamente poco sono serviti i dettami evangelici e l’etica cristiana che da essi deriva. Guerre, conflitti dinastici, colonialismo, rivoluzioni, persecuzioni, genocidi: questo è il prodotto sul piano socio-politico. Quanto a quello etico-filosofico, qui sono nati ateismo e materialismo, nichilismo e anarchia. Come si è potuta verificare una dicotomia tanto netta e inconciliabile tra la parola del Cristo e l’approdo senza fede né speranza cui la società europea, destinataria privilegiata del mandato cristico, è giunta? Nella ormai multietnica Berlino, ad esempio, un’indagine demoscopica ha rilevato che il 58% della popolazione si dichiara totalmente agnostica. Per quale distorto uso della dottrina, pur semplice ed inequivocabile, che venne stabilita sulla base della rivelazione divina dell’Uomo di Nazareth, ci troviamo a stilare un inventario di fallimenti, oltre che esteriori e palesi, profondi, nucleari, genetici, che toccano il quid spirituale dell’uomo europeo e di riflesso mondiale? Vari tradimenti o, se vogliamo piú bonariamente esprimerci, fraintendimenti, sono all’origine del mancato successo del cristianesimo europeo. Ma il piú grande è stato senza dubbio l’aver voluto ridurre il Cristo alla nostra dimensione, condizionata dai limiti di spazio, tempo e materia. Invece di innalzarci noi alla sua sfera di divinità, dove quei limiti sono inesistenti, lo abbiamo coinvolto nelle nostre aspettative messianiche, che volevano un Cristo demiurgo, condottiero di eserciti, per garantirci conquiste effimere sugli uomini e sulla natura.
Tutto è cominciato con l’imperatore Costantino e il sogno che, secondo la tradizione egli avrebbe avuto la notte precedente la battaglia di Ponte Milvio contro il suo avversario Massenzio. Una visione celeste, accompagnata da una voce arcana, gli suggeriva di coronare labari e insegne delle sue legioni con la croce del Golgotha, dicendogli che con quel segno si sarebbe assicurato la vittoria. Cosí fece Costantino e cosí avvenne.
La scelta dell’imperatore, un gesto soltanto all’apparenza tattico, trascendeva l’immediata necessità politico-militare, stabilendo una nuova etica del potere e una visione inedita della conduzione dello Stato, che dovevano influenzare le successive evenienze storiche del mondo. Da allora, infatti, implicazioni ben piú vaste e profonde hanno connotato l’emblema che rappresenta il martirio e la morte del Cristo: da un lato si legava la croce a una simbologia ferale, comunque perdente, dall’altra si enunciava che da quel momento essa avrebbe omologato e giustificato qualunque potere secolare l’avesse scelta come proprio vessillo distintivo e modello ispirativo. Questa assimilazione della croce – che già prima del Golgotha portava in sé valenze di alto contenuto esoterico-iniziatico, come l’incontro della verticalità spirituale con l’orizzontale materialità fisica – alle vicende temporali della cosiddetta civiltà occidentale europea, le conferiva, al di là della sola caratteristica di strumento di punizione ed esecuzione, una certa qual virtú magica, apotropaica, fatale, un potere d’intervento che la rendeva essenziale e determinante per qualsivoglia impresa regnanti e uomini di potere intendessero progettare e condurre a termine: crociate, missioni, spedizioni, conquiste. La croce, impugnata da cavalieri e monarchi, ma anche da avventurieri e conquistadores, finiva col fondersi nell’immaginario delle genti con la spada ad essa tanto simile nella forma materiale come nella sostanza morale.
Col tempo, l’identificazione tra il cristianesimo e il potere politico fu totale, al punto che si giunse a definirlo “religione di Stato” nella maggior parte delle nazioni europee, pur con tutte le varie dissonanze e secessioni riformistiche. Si diventava re, imperatore, kaiser e zar, per volere di Dio e sotto il segno del Cristo Redentore. La croce decorò, e tuttora contraddistingue, molte delle insegne e bandiere dinastiche e nazionali europee, magari diversamente conformate a ricordo di altri martiri, come Sant’Andrea per il vessillo anglo-scozzese. Un’assimilazione integrale che prospettava dal punto di vista politico quasi una comunanza d’intenti, di valori e destini, una specie di joint-venture morale non del tutto esente da un sospetto di complicità operativa. Lo Stato secolare per difendere i propri ordinamenti, li imponeva coercitivamente; la legge naturale diventava cosí norma giuridica, codificandosi, non tollerando trasgressioni. E la dottrina religiosa, che avallava le azioni dello Stato per solidarietà politica, si dogmatizzava, non ammettendo devianze e diversificazioni, fatte passare per eresie. Questa sodale collusione tra Stato secolare e autorità ecclesiale ebbe il suo acme repressivo nella crociata contro Catari e Albigesi, e finí con avallare inquisizioni e genocidi, come quello perpetrato contro le civiltà mesoamericane.
La contaminazione del dettato evangelico sorgivo, quello cioè predicato in parabole dall’Uomo-Cristo sotto gli ulivi della Palestina, sulle sponde dei laghi cerulei di Galilea, sulle rive del Giordano, nelle sinagoghe dei piccoli borghi, nel grande tempio di Gerusalemme, portò alla nascita di movimenti e di individui che tentarono di ritrovare l’essenza originale del Verbo cristico, di adottarne le pratiche e, se possibile, stabilire dei modelli sui quali basare la rinascita di una società fondamentalmente buona e giusta. Tali aneliti di restaurazione cristica animarono all’interno della Chiesa le vicende dei grandi mistici, come San Francesco, o come alcuni apostoli di carità che, insieme alle miserie del corpo, tentavano di sanare quelle dell’anima. Ma mentre questi slanci si configuravano quasi come atti dovuti, trattandosi di azioni svolte da personaggi che si prefiggevano di compiere opere di bene scegliendo la via religiosa, piú straordinari apparivano quegli impulsi di ripristino del messaggio evangelico presso uomini e donne di cultura laica, lontani dalla frequentazione devozionale, spesso atei, comunque non motivati fideisticamente.
Ai fermenti illuministici improntati al razionalismo pragmatico e agnostico, i romantici, a partire da Novalis che da precursore scrisse il suo Cristianità o Europa, contrapposero una procedura di recupero che seguiva con messianico fervore due filoni: quello umanitario e quello idealistico. Tolstoi, nella sua tenuta di Jasnaia Poljana, divideva con i suoi contadini le fatiche dell’aratura, si vestiva e mangiava come loro, li educava. Tentava di essere l’ultimo tra gli ultimi. Di impronta patriarcale, la sua opera egualitaria non risolveva però l’assillo interiore di quanti, dopo il pane della terra, cercavano di procacciarsi il cibo per l’anima e una risposta agli aneliti dello spirito. Contemporaneo di Tolstoi, emergeva nello scenario culturale dell’epoca Dostoevskij. Questi, pur condividendo dell’ascetico patriarca rurale di Jasnaia Poljana la sensibilità per le istanze di redenzione e riscatto, del popolo russo in particolare, e dell’uomo nella sua universalità, si distaccava dai modi e metodi paternalistici adottati da Tolstoi. Irrequieto, febbrile, Dostoevskij cercava di modellare nei suoi romanzi figure che recassero il marchio della bontà perfetta o della altrettanto radicale e profonda malvagità. Di lui, un altro erratico rabdomante dell’assoluto, Nietzsche, ebbe a dire che “aveva indovinato il Cristo”. Si riferiva forse alla figura del principe Myskin de L’Idiota. Il filosofo però, leggendo attraverso l’ottica delle sue teorie, equivocava il messaggio dello scrittore. Mentre per Dostoevskij infatti Myskin raggiunge la purezza integrale di cuore senza esitazioni e riserve, pervenendo all’amore vero con l’impronta indelebile del Cristo, Nietszsche vede nella natura del personaggio l’abbandono totale, l’amor fati che lo consegna all’ebbrezza di un divenire cosmico libero da precise definizioni e conclusioni. È il superuomo che ha risolto l’enigma mistico di Dioniso e raggiunto l’autoaffermazione dominatrice della volontà di potenza. Mentre quindi l’eroe dostoevskiano si sublima in un supremo atto sacrificale di assoluta abnegazione, quello uscito dalla forgia nichilista non solo manca l’obiettivo di carpire e realizzare la “trasmutazione di tutti i valori”, come garantito dal morboso pensatore tedesco, ma rischia anche la lucida follia autodistruttiva. Forse è qui la tabe derivata dal grande tradimento della cultura europea: al bivio dove si richiede la scelta tra il Cristo e l’Anticristo, tra la materia e lo spirito, tra la mistica e la pragmatica, l’intellettuale opta per l’immanenza realistica, privilegia la via positivistica, pur sapendo quale sia la verità. Non a caso Giuda era un intellettuale. Il suo premio per il tradimento fu la solitudine, e ancor piú la consapevolezza di aver rifiutato una chance di divinità per sé e per quelli che, pur comprendendo, non vollero accettarla.
Nietzsche si divise da Wagner perché, giunti insieme a quel bivio, il musicista, praticante di un’arte che il filosofo assegnava alla sfera dionisiaca, scelse la via mistica e compose il suo Parsifal. L’altro iniziava invece il ciclo di opere della “gaia scienza”, che doveva culminare ne L’Anticristo, come se questa fosse stata da sempre l’intenzione guida di tutto il suo fermento speculativo e creativo: replicare l’antico peccato d’orgoglio. Era un tipo di scienza che mostrava la propria gaiezza in un ghigno, e non certo in una beata estasi dionisiaca.
Di aver mancato un’occasione, piú che filosofica, misterica e iniziatica, Nietzsche, da genio qual era, lo aveva capito. La dannazione è proprio nella scelta voluta e cosciente del male, cosí come la finale redenzione deriva da uno stato di grazia concesso quale dono dalla divinità a chi totalmente si abbandoni al suo volere fino ad imitarne integralmente l’essenza.
Il principe Miskyn di Dostoevskij è in realtà la metafora vivente dei valori evangelici: ama tutto e tutti, senza dubbi e limiti, ha fiducia assoluta nel mondo e negli accadimenti, è talmente colmo di fervore altruistico da esserne “idiot”, malato nella mente, irreversibilmente. E quindi votato all’incomprensione di chi lo avvicina e alla finale crocifissione quale vittima sacrificale di tutte le passioni e aberrazioni umane contenute nella narrazione e di cui egli si fa catalizzatore. Ma sempre alla fine, l’essere sconfitti vuol dire vincere, portando col proprio sacrificio la luce di quell’assoluta imitazione cristica al cuore delle cose e degli uomini. Per contro, Stavrogin de I Dèmoni, e Ivan de I fratelli Karamazov, sono portatori dell’altrettanto assoluto male intellettualistico venuto da Occidente e che, secondo Dostoevskij, aveva già a quei tempi corrotto i valori morali del popolo russo. Il principe Miskyn è uno jurodívij, vale a dire un “folle in Cristo”, come San Francesco. Incarna, cioè, un cristianesimo “alla lettera”, arduo da portare e da condividere, ma è l’unica formula capace di agire in un’esistenza votata al materialismo utilitaristico quale è stata e tuttora rimane la nostra condizione di uomini, europei e non. Giacché la crisi morale, come quella economica, è globale, riguarda tutti gli individui del pianeta, a qualunque etnia, religione, partito o consorteria appartengano. Ecco perché è necessario liberare il messaggio evangelico dalle panie dei compromessi secolari e materiali, sottrarre l’immagine del Cristo dagli schemi angusti delle problematiche messianiche e dogmatiche, riportandola nel quotidiano al valore di modello non solo europeo ma ecumenico. Poiché tali furono la rivelazione e la promessa che l’Uomo di Nazareth fece al mondo di allora e a quello che sarebbe dovuto venire.
Cosa venne a dirci in definitiva il Maestro che moltiplicava i pani e i pesci, risvegliava Lazzaro e la figlia di Giairo dalla morte? Non certo, o non solo, a insegnarci che con la fede avremmo compiuto come lui miracoli materiali e opere taumaturgiche, che avremmo sanato storpi e ciechi, che a un nostro ordine il vento si sarebbe fermato. Prodigi, opere di potenza, miracoli. Anche quelli, ma ben altro venne a dirci e a prometterci, anzi a garantirci. In presenza di Caifa egli pronunciò una frase che non valeva solo per lo orecchie del Sommo Sacerdote, ma voleva servire da legato per gli uomini tutti, del suo tempo e piú ancora del futuro: «E io vi dico che d’ora innanzi vedrete il Figlio dell’Uomo seduto alla destra dell’Onnipotente, sulle nubi del Cielo» (Matteo 26,64). Quel titolo, Figlio dell’Uomo, che si ritrova piú di cinquanta volte nel Vangelo, assegnava ex-novo all’uomo, insieme alla facoltà della redenzione spirituale, l’assimilazione alla natura divina.
Ecco allora il lascito vero del cristianesimo: la consapevolezza che ogni individuo, ogni uomo della terra, diventa progetto sacrale, e l’opera di chi detiene il potere a tale impegno è votata: aiutare l’uomo materico a sublimarsi, a realizzare la sua potenziale divinità.
L’Europa che parla di cristianesimo e dei suoi valori reali e ideali, su questo dovrebbe meditare. E a questo dovrebbe lavorare cooperando con tutti gli uomini di buona volontà, comunque e chiunque essi siano. Ma l’essere depositari e custodi del patrimonio cristiano delle origini non conferisce agli europei privilegi e primati di sorta, semmai li carica di forti responsabilità, sia per i tradimenti e le omissioni del passato, sia per la realizzazione dei futuri destini della civiltà umana cui sono chiamatia contribuire. E nel farlo, non si lascino irretire dalle abusate sollecitazioni militaristiche, dalle esasperate pratiche del libero scambio, dallo scientismo cinico e utilitaristico. Portino invece al tavolo dove si gioca il divenire storico del mondo le collaudate carte della loro millenaria esperienza e, perché no, acquisita saggezza. Tra le quali carte primeggia, vero asso di cuori vincente, il cristianesimo, adeguato ai tempi e alle necessità specifiche dei popoli.

Ovidio Tufelli

Immagini:
– Scuola di Raffaello «La Battaglia di Ponte Milvio» (part.)  Affresco - Stanza di Costantino, Palazzi Pontifici, Vaticano
– Fedor Dostoevski
– Giotto «Il bacio di Giuda», 1306  Cappella degli Scrovegni, Padova