Storia

Nell’immaginario folklorico del mondo, Napoli è una città canora, e i napoletani, quando non si travestono da giocondi Pulcinella per reclamizzare mozzarelle e passate di pomodori, devono cantare e suonare un qualunque strumento a plettro, accompagnato dal bordone di putitpú e triccheballacche. Può capitare però che la storia li costringa a uscire da questo colorito cliché piedigrottesco per calzare il berretto frigio dei rivoltosi. Ma lo fanno malvolentieri e devono esserci proprio costretti da cause di forza maggiore.
Quella volta di tre secoli e mezzo fa la causa fu la forza vessatoria dei balzelli imposti dal Viceré spagnolo, Don Rodrigo Ponz de León, duca d’Arcos. Uno in particolare risultò odioso e ingiusto al popolo napoletano: quello sui prodotti ortofrutticoli, che costituivano la materia prima del piccolo commercio e l’alimento base sulla mensa del popolo minuto e dei pezzenti diseredati. In un’economia di bassissimo profilo qual era quella che animava gli scambi di Piazza Mercato, la gabella sui frutti della terra fu la goccia che fece traboccare il vaso.
La domenica 7 luglio dell’anno 1647 Masaniello e gli altri congiurati si erano dati appuntamento proprio su quella piazza. Ma senza vistosi assembramenti, cosí, in ordine sparso, qua e là a gruppetti tra i tavolilli dei venditori di frutta, tra le spase di pescivendoli e suggici e tra i banchi dei salmatari e grascini. Troppi, per la verità, in una giornata festiva e non di mercato, che cadeva di martedí e venerdí. Ma chi ci badava? Le guardie del Portolano erano ridotte e camminavano in ronde svogliate, oppresse dal caldo fumigante della marina.
Il giorno prima, il Decreto di Sua Eccellenza il Viceré aveva introdotto la nuova gabella. Occorreva agire. E la domenica era il giorno piú adatto. La legge appariva piú distratta e rilassata, il popolo piú disponibile. Alla consacrazione dell’ostia, la campana di Santa Maria della Neve avvertí che il sacerdote stava celebrando il sacrificio. Aperta da ogni lato, l’antica cappella consentiva di seguire la messa da qualunque angolo del mercato. Tutti smisero di contrattare e discutere, molti si inginocchiarono segnandosi. Su tutta la vasta superficie di terra battuta della piazza si fece silenzio e immobilità. Persino gli animali, che liberamente razzolavano e grufolavano nella fanghiglia del Lavinaro, zittirono Per molti, quella messa era forse l’ultima, e la benedizione che il prete impartí alla fine fu come un viatico e un segnale. Masaniello e il fratello Giovanni si portarono presso la cappella della Croce, dove era custodito il cippo di Corradino di Svevia, si tolsero il berretto rosso e lo agitarono piú volte in aria.
«Serra, serra!». Il grido sedizioso salí per il Carmine e il Pendino, attraversò Porta Nova, l’Orto del Conte e il groviglio di vicoli di Scannasorici. Gli alarbi e i lazzari strapparono dalle porte delle botteghe e osterie le assise che segnavano i prezzi aumentati dalla nuova gabella e le sostituirono con quelle piú economiche rifatte da Masaniello in accordo con il Principe della Rocca, con l’Eletto dal popolo Francesco Arpaia, consigliati dal vecchio Giulio Genoino, sacerdote e giurista, che era stato rivoluzionario già sotto il Duca di Ossuna nel 1620.
Insieme alle assise con l’infame balzello, le masnade di rivoltosi strapparono dalle taverne insegne e fraschette, picche e alabarde di cui si fregiavano i commerci piú redditizi. Con queste armi e vessilli improvvisati, la marea di popolo con a capo Masaniello si diresse al palazzo vicereale, vi irruppe fiaccando la debole resistenza delle guardie, stanò Don Rodrigo dai suoi appartamenti costringendolo ad abolire la gabella sulla frutta.
Il regno di Masaniello durò otto giorni, dal 7 al 16 luglio. Per strana coincidenza, la rivolta del popolo di Napoli ebbe luogo nello stesso periodo di una rivoluzione, quella francese, che sarebbe avvenuta oltre un secolo dopo: la Bastiglia venne infatti espugnata il 14 luglio del 1789. Anche le motivazioni furono le stesse: la fame e la miseria della classe plebea, che pagava sulla propria pelle gli eccessi e le incapacità di governi del tutto alienati dalle necessità dei sudditi, sia amministrativamente sia, ancora peggio, sentimentalmente. E come in ogni rivoluzione, le istanze sacrosante e legittime delle masse affamate e cenciose diventano il trampolino di lancio di individui senza scrupoli che, demagogicamente, sfruttano il furor di popolo quale testa d’ariete per demolire senza danno personale il potere in carica e rimpiazzarlo non appena la bestia popolare, decimata e tradita, lo abbia fatto cadere.
Napoli però non ebbe i Marat, i Danton e i Robespierre. Giulio Genoino, l’anziano ideologo rivoltoso, non possedeva né la forza fisica, data l’età avanzata, né quella politica per far nascere un Direttorio, scalzare una monarchia e produrre infine un dittatore assoluto come Napoleone Bonaparte. A parte le vendette personali e gli abusi iniziali, come l’esecuzione di Domenico Perrone e Antimo Grasso, due banditi che avevano tentato il 10 luglio di uccidere il “generalissimo del popolo napoletano”, i veri destinatari del risentimento popolare, vale a dire i nobili, i funzionari di corte, gli ufficiali di polizia e gli arrendatori di tasse e gabelle, non subirono le atrocità e i soprusi che vennero inflitti a Maria Antonietta, al re Luigi e a personaggi della cultura come Andrea Chénier. Rinchiusi da Masaniello nella Dogana della Farina, vennero tutti liberati su intervento del cardinale Filomarino.
Chi pagò con la vita fu lo stesso Masaniello. Il 16 luglio, ormai in preda a una folle esaltazione – indotta, si disse, per avvelenamento architettato dal Duca di Maddaloni – mentre nella chiesa del Carmine arringava la folla dal pulpito, venne prima raggiunto da colpi di archibugio e poi decapitato. Il suo corpo, gettato nello scarico del Lavinaro, venne ripescato due giorni dopo dal popolo pentito. Rivestito sontuosamente, ricomposto alla meglio con la testa riattaccata al busto, con scettro e spada tra le mani, a quello che era stato per una settimana il re del ventre di Napoli vennero tributate esequie regali. Le cronache parlano di una moltitudine di oltre quarantamila persone che seguí il feretro, poi sepolto con tutti gli onori nella chiesa del Carmine.
Varia fu la sorte che toccò agli altri personaggi che avevano partecipato all’avventura del povero pescatore originario di Amalfi: carcere, confische o esilio, come il Genoino, che morí al largo delle Baleari sulla nave che lo riportava alle prigioni spagnole di cui aveva già patito la durezza. Bernardina Pisa, la giovane moglie di Masaniello, ricevuta a corte come una regina durante la sommossa, finí al Borgo, uno dei quartieri piú malfamati di Napoli. Disonorata, in miseria, ispirò canzoni e poemi.
Quanto al piccolo grande scenario dal quale Masaniello non si era mai distaccato, neppure nei pochi giorni del fasto e della gloria, dove era nato, vissuto e passato alla storia, la Piazza del Mercato, rimase uguale fino al 1781. In quell’anno, per strana coincidenza proprio durante la festa della Vergine del Carmine, un incendio causato dai fuochi d’artificio distrusse tutte le case, baracche e botteghe dei tempi di Masaniello. Venne pertanto totalmente rifatta nell’aspetto che ha tuttora. In quale altro modo sarebbe potuto finire il palcoscenico che aveva fornito quinte, luci, umori e suoni a un dramma tutto napoletano? Dissolvendosi nella magia crepitante e fantasmagorica di razzi e mortaretti.

Toniello Ideali

Immagini:
– Michelangelo Cerquozzi «La rivolta di Masaniello» Olio su tela, 1648, Galleria Spada, Roma
– «Masaniello» statuetta in terracotta, Museo di San Martino, Napoli