Botanima

 

Non è il titolo storpiato di una celebre canzone napoletana, bensí vuole indicare uno dei termini che qualificano il piú straordinario meccanismo di riproduzione che la natura mette in atto con l’inizio della primavera: l’anemofilia o anemogamia. Per propagarsi, semi, pollini e spore si affidano al vento, lasciandosi trasportare alla ricerca di zolle, calici e pistilli da fecondare, e perpetuare cosí la specie. Un fenomeno paragonabile per eccezionalità a quelli già trattati da queste pagine riguardanti le migrazioni dei salmoni e delle tartarughe atlantiche.
Mentre però è l’acqua a far da veicolo agli irrefrenabili istinti riproduttivi di pesci e testuggini, quello che permette a piante, alberi e arbusti di riprodurre la propria specie è soprattutto il vento, che diventa cosí il grande seminatore. Spore, semi e pollini si affidano alle sue correnti che li spargono alla cieca, senza discriminazioni. Possono cadere ovunque e, se dove termina il loro volo c’è un minimo accenno di terra, un follicolo o uno stimma, ecco allora che la vita attecchisce, l’aridità mette fiori, la sterilità fruttifica.
In campagna, la fecondazione anemonica è un fatto scontato. Nel ciclo delle stagioni chi vive in natura può toccare con mano, essere testimone diretto dei fenomeni della riproduzione vegetale, e spesso non li registra neppure, essendo egli stesso parte dello scenario agreste, villico o residente che sia. Non avverte perciò il cambiamento con la stessa meraviglia di chi in un ambiente avulso della natura assiste ai prodigi della vita che prepotentemente e con finissimi stratagemmi si perpetua in forme, colori e profumi.
In città tale stupore è possibile a chi sa guardare, scoprire e capire il sofisticato meccanismo grazie al quale, e a dispetto di ogni congiura avversa, la vicenda cosmica snoda il suo divenire e realizza miracoli.
Varie sono le astuzie che le creature vegetali mettono in atto per la fecondazione e la riproduzione. Ispirate dalla stessa forza imponderabile, approntano ad esempio vere e proprie seduzioni visive e olfattive, come i fiori che per attirare all’interno dei loro calici gli insetti pronubi che trasporteranno i granuli pollinici agglutinati alle loro zampe, esibiscono corolle e petali smaglianti e variegati, emanano aromi inebrianti dai pistilli e offrono nettari squisiti.
Il polline vagante partito da un remoto stame florale si fonde alle secrezioni amorose dello stigma, innestando la sua volontà di perpetuazione in ogni ovario, dove ferve l’embrione del frutto in divenire.
Nel tempo, quando mancavano le occasioni di incontro tra gameti fecondanti di un fiore e il gineceo riproduttivo di un altro distante, si sono elaborati meccanismi ancora piú misteriosi di autofecondazione: il miracolo genetico della partenogenesi. Ne sono protagonisti, tra i piú celebri, il tarassaco, o dente di leone, e il cipresso algerino del Tassili, unico esempio di apomissia paterna, in cui è solo il gamete maschile a passare l’eredità genetica all’embrione: una strategia riproduttiva adottata da questa specie per evitare l’estinzione a causa dell’isolamento geografico in cui l’albero viene a trovarsi.
Il vento semina, il sole nutre, la luna dinamizza i flussi linfatici. E cosí la pianta dalle radici attinge l’humus che alleva il frutto. Un celebre adagio recita che il vento non sa leggere. Forse per questo conduce pollini e semi dove meno lo si aspetta. E ancor piú illetterati del vento sono gli insetti, che pascolano nei luoghi piú impensati recandovi pollini in cambio del nettare che suggono dai calici dei fiori. Può capitare nel pieno centro di una frenetica metropoli come Parigi. Da anni ormai uno dei custodi dell’Opera Garnier produce un miele squisito e raro con le api che bazzicano le fioriture spontanee di cui sono ricoperti i tetti del noto teatro lirico e tersicoreo, e dei palazzi adiacenti. Chi si reca a Parigi potrà acquistare il miele dell’Opera prodotto dalle api musicofile di Monsieur Jean Paucton presso il rinomato negozio di Delikatessen Fauchon a Place de la Madeleine. Partito da un esiguo raccolto iniziale, è arrivato a mettere in barattolo piú di 200 chili di miele in un anno.
A Roma, senza che gli uomini lo volessero e pianificassero, anzi forse in opposizione alle loro smanie di sterminio e oltraggio, la natura ha creato un autentico santuario faunistico e botanico tra i ruderi scarnificati dei vari complessi archeologici. Scampati alle reti, ai fucili e alle tagliole, falchi, poiane e taccole, oltre a miriadi di altri uccelli comuni, volteggiano e nidificano sotto archi e trabeazioni, mentre dagli spacchi delle opere murarie sopravvissute al tempo e alle offese meteoriche e umane occhieggiano capolini e corimbi, steli e corolle, amenti e grappoli pencolano su vertigini aeree, tra l’erba folta dei prativi spontanei violacciocche, orchidee e lilium confortano le nobili vestigia insieme a spadici immacolati, petali fiammeggianti, verdure commestibili e malve medicamentose, in una varietà sconosciuta nella stessa campagna dell’agro esterno all’Urbe. Tanto che sono sorte associazioni botaniche, professionali e amatoriali, che danno lezioni letteralmente “sul campo” dei precinti archeologici dove il materiale didattico è talmente vasto da raccogliere in spazi ristretti un campionario pressoché completo delle specie vegetali e floreali presenti nelle regioni mediterranee, con a volte sorprendenti scoperte di piante e arbusti approdati qui da regioni alpine, balcaniche e africane. Quando non accade persino di imbattersi in veri e propri rompicapi botanici la cui provenienza risulta ignota, essendo con molta probabilità il risultato di ibridi autoctoni tra specie immigrate.
Ma non solo tra le rovine del passato avvengono i miracoli botanici. Sempre a Roma, all’angolo tra Via XX Settembre e Largo Santa Susanna, si apre il cancello di servizio del Grand Hotel, ora rietichettato St. Regis. All’interno del cortiletto che si estende dopo il cancello, a ridosso dello stabile che ospita il sontuoso hotel, alligna una vite annosa, che dà un’uva dorata da cui gli addetti al catering dell’albergo sono riusciti a spremere per anni un vinello tipo passito da donare, imbottigliato ed etichettato, agli ospiti di riguardo.
Restando nell’ambito dei prodigi vegetali, per non essere da meno di Roma, Milano ha voluto fregiarsi di un altro miracolo oltre quello immortalato dall’omonimo film di De Sica e Zavattini: in Piazza Duomo, nello sterro che ingombrava la Piazza per i lavori della linea «tre» iniziati nel 1981, uno sbuffo di vento eccentrico depositò i semi di due specie arboree nordico-padane: un platano e una betulla. Nell’agosto del 1987, un fotografo dilettante riprese il monumento a Vittorio Emanuele, ancora impedito dai residui del cantiere, ma con la nota gentile e sensazionale di un platano e di una betulla che, ignorati per sette anni, avevano allignato e prosperato fino a lambire gli zoccoli della reale cavalcatura.
Si deve quindi al mistero della propagazione anemonica dei pollini come all’opera solerte di insetti e anche a quella di uccelli migratori che depositano i noccioli dei frutti ingeriti e digeriti, se i tetti di Parigi fervono del brusio delle api, i cortili ombrosi del centro di Roma producono Malvasia, il sagrato del Duomo di Milano emula le barene del Po e a Londra allignano i fichi. Eh sí, proprio i solari ultramediterranei fichi! A St. James’ Park un giorno i giardinieri addetti alla cura del parco pubblico a un tiro di schioppo da Buckingham Palace, scoprirono una colonia di questi tenaci e provvidi alberelli. Il prodigio era unico e verdeggiante. Uno degli addetti, italiano del Sud, venne preso da acuta nostalgia alla vista di quelle piante, vessilli di una precipua e inconfondibile mediterraneità. L’uomo tranciò una breve talea dal cespo di fico del parco e la trapiantò nel giardino della sua casetta di Islington. Ma il suo sogno di riprodurre un angolo della sua terra natía sotto il cielo di Albione, tale restò. Il fico non si decideva a fruttificare, nonostante tutte le cure protettive che gli dedicava: serra riscaldata in inverno, soleggiamento in estate, tempo permettendo, concimi adatti, terriccio rinforzato. Dopo tre anni l’alberello venuto su dalla talea dette piccoli siconi scuri e coriacei, che emanavano un timido e vago odore che appena rimembrava quelli penetranti degli orti meridionali e delle macchie selvatiche dove regnava, insieme ai mirti, ai lentischi, ai carrubi e agli aneti, il caprifico, parente selvatico del fico domestico, l’unico in grado di favorire l’impollinazione della pianta stenterella per mezzo di un moscerino, la Blastofaga, che uscendo al volo dai suoi frutti acri e ricchi di pollini maschili, avrebbe potuto fecondare le frigide bacche del cagionevole alberello col quale l’emigrato aveva tentato di esorcizzare la propria nostalgia. Ma l’uomo non si arrese, continuò nella sua mania riproduttiva. Sperava che, come il vento aveva portato un giorno per miracolo bizzarro quel seme a germinare nel boschetto posticcio di un parco metropolitano di Londra, venendo chissà da dove, in una corrente aerea o sulle ali dei migratori, cosí avrebbe potuto spingere al volo un piccolo insetto nel suo backyard di una periferia brumosa e fecondare il suo fico, omologarlo, attribuendogli il diritto e la capacità di produrre anche i fioroni di giugno. E perché no?
Il vento, in realtà, può questo ed altro. Oltre a essere il grande seminatore, è anche un incontenibile scorridore, capace di portare la vita vegetale, da cui ogni altra prende avvio, fino alle isole piú remote, diventando cosí colonizzatore e pioniere del verde. Terre emerse dal fondo dell’oceano in seguito a eruzioni vulcaniche, e quindi vergini, intonse, mai collegate ad altre masse continentali, come le Hawaii, sono la testimonianza di quanto possa il vento nel ruolo di disseminatore di realtà fitobiologiche.
Le isole oceaniche, come le Galapagos e le Hawaii, emerse dall’eruzione di grandi vulcani sottomarini, annoverano una grande quantità di specie uniche per il fatto che sono al contempo terre antiche e separate dai continenti. L’isolamento, nei millenni, ha consentito un’evoluzione particolare da cui sono derivate specie uniche e rare. Rispetto alle Galapagos, però, le Hawaii presentano esempi di sviluppo diversificato partendo da un unico capostipite. Come poi la colonizzazione si sia realizzata attraverso le ere geologiche, costituisce un punto oscuro. O forse soltanto rischiarabile con la luce del meccanismo imponderabile e misterioso che presiede a tanti fenomeni della natura e che la scienza positivistica non potrebbe chiarire. Come spiegare ad esempio la proprietà ignifuga dell’albero Ohia lehua, o albero del ferro, in grado di resistere alle temperature delle colate laviche che discendono dai crateri del Mauna Loa, dell’Hualalai e del Kileauea: mentre si brucia da un lato della corteccia, germoglia dall’altra, nutrendo i nuovi polloni delle sue stesse ceneri.
Ma la pianta piú sorprendente delle Hawaii, endemica di questi atolli vulcanici, in particolare di Maui e non riscontrabile in alcun altro luogo del pianeta, è la “Spada d’argento”, che ha un complicato e arido nome scientifico Argyroxiphium sandwicense che i nativi addolciscono in un cantilenante “Ahinahina”. Gli esemplari piú belli e forti della pianta crescono nel cratere del vulcano spento Haleakala, colmandone la rugginosa caldera con la lucentezza delle loro sottili e acuminate foglie color argento vivo. Il cratere dove le spade d’argento allignano è un ambiente infernale: ceneri vulcaniche e lava rappresa diventano roventi con l’insolazione diurna, e la notte un gelo polare discende, esasperato dai forti venti. Data l’altezza del vulcano, oltre 3mila metri, d’inverno non è rara la neve. Nonostante tali difficoltà, l’Ahinahina ha messo a punto una perfetta strategia di adattamento che le consente di vivere fino a 20 anni. Durante questo lungo periodo, essa cova al suo interno l’embrione di un unico fiore straordinario, che sboccia improvvisamente durante la notte, l’ultima vissuta dalla pianta. All’alba infatti si vede la spada coronata da un fiore alto due metri, composto da innumerevoli boccioli purpurei. Con questo alzabandiera di fierezza vegetale la pianta si arrende e muore. Il cratere di Haleakala è soprattutto un luogo sacro. Anticamente gli hawaiani vi seppellivano i loro re, scavando nicchie nel basalto lavico. Al centro della caldera è ancora visibile un pozzo profondissimo che, secondo le credenze locali, collegava il mondo dei vivi con quello dello spirito universale, creatore e distruttore allo stesso tempo. Per questo vi gettavano dentro i cordoni ombelicali dei neonati, perché entrassero in contatto con quello spirito, acquisendo forze sovrumane e grandezza d’animo. Gli indigeni dicono che l’Ahinahina è stata portata nel cratere dell’Haleakala dal soffio di quello spirito onnipossente, piú forte degli Alisei che spirano dall’oceano. Nelle sue correnti misteriose navigarono i semi di tutte le piante rare che popolano l’arcipelago nato dal magma. Insieme all’uccello “nene”, che abita le selve di Paliku, sui fianchi lussureggianti del vulcano, e che grida, articolando quasi suoni di voce umana, ogni volta che l’Ahinahina fiorisce e muore. Quel verso scandisce il passaggio della pianta, attraverso la consunzione del suo involucro vegetale, alla sfera insondabile della rinascita sotto forma di seme.
Cosí è per ogni granulo affidato al vento: esso vagherà leggero, imponderabile minima arca, contenente al suo interno il prototipo della specie, la sua identità genetica, l’essenza tipica e indissolubile. Valicherà indenne gli spazi, vincerà le tempeste e le siccità, supererà secoli e millenni, conservando intatta la sua capacità di perpetuare la vita.
All’Università Yamaguchi, 800 km a Sud di Tokio, un ricercatore, il prof. Hiroshi Utsunomiya, ha eseguito nel 1982 uno strano esperimento. Ha messo a macerare in acqua alcuni semi rinvenuti in una tomba risalente al I secolo d.C. Dopo alcuni giorni, una di quelle sementi ha germogliato. Interrata, la plantula si è sviluppata rivelandosi, a crescita ultimata, come una magnolia molto rara, dai fiori bianchi a otto petali.
Nel calice dell’anima, sopisce il seme dell’Io, archetipo di divinità. Anelante a realizzarla, rimane in continua attesa del soffio arcano, lo stesso che feconda la misteriosa Ahinahina, che custodisce inalterata la vita di una magnolia oltre il tempo e la dissoluzione materica. Lo stimma ostenta fervori iridescenti, elabora strategie di richiami, secerne il nettare della sua identità. Finché, in un giorno di una luminosa primavera, quel vento recherà i suoi pollini, e noi li cattureremo, feconderemo la nostra lunga attesa. Daremo frutti.

Leonida I. Elliot