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Occorre avere il coraggio di affermare che né il problema individuale, né quello sociale, possono trovar soluzione, se dal singolo e dalla collettività non venga ripreso contatto con quella direzione trascendente e unitaria che è la loro tradizione interiore. Questa tradizione interiore è quella che può in un secondo tempo ricondurre nella corrente della Tradizione una; ma la prima non può essere ridestata se non a condizione che si cominci a vivere completamente in ordine sia alla propria legge particolare, assumendo come materia di superamento la propria individualità, sia alla propria legge familiare e, ancora piú vastamente e lungo una intensività gerarchica, a quella razziale, a quella nazionale e a quella statale.
Non si deve poter credere che solo per aver acquisito intellettualmente la concezione di un Universale che trascende ogni limite proprio al piano della manifestazione (individuo, famiglia, razza, nazione, Stato), sia lecito non rispettare le leggi che normalmente e sia pure in senso contingente tali limiti comportano. Nulla è piú pericoloso di un intellettualismo o idealismo che creda di poter fare a meno di un’attività interiore entro il proprio limite fisio-psichico individuale, razziale e sociale, solo per aver discorsivamente concepito un universalismo.
Si verifica in tal caso una singolare confusione, tipica nel mondo moderno: universalità viene scambiata con astrazione, ossia una forma deteriore di contemplazione il cui valore è semplicemente concettuale e perciò comporta la illusione di un effettivo contatto trascendente, mentre il piano psichico, quello emotivo e quello istintivo, non essendo per nulla partecipi di tale contatto, rimangono profondamente improntati alla natura inferiore. Ne deriva una sorta di egoismo mistico che rifugge da quella lotta nel piano finito e particolare che è la migliore misura per l’evidenza di un autentico contatto della coscienza individuale con l’universale, in quanto è proprio questo che esige una capacità di perfezione entro i limiti propri al mondo formale della imperfezione e della non-coscienza.
Nella misura in cui una religione non contraddica questo senso del dovere dell’individuo agente nel complesso meccanico della vita di relazione e nei suoi rapporti con la razza e con la Patria, essa veramente può dare all’uomo quella visione spirituale della vita che è forza basilare per la sua azione entro il limite formale e per il superamento positivo di essa. La religione in questo senso, agendo secondo l’essenza imperitura che la origina, epperò non depotenziandosi con il ridursi esclusivamente all’aspetto contingente e perituro, riconduce alla Tradizione una e, come nel caso di Cristianesimo e Cattolicesimo, si identifica con essa; ma questa identificazione, che è reale nella sua assunzione metafisica, è semplicemente potenziale nella capacità interiore dell’uomo; e ciò valga per i rapporti dell’uomo con qualsiasi religione e tradizione.
Il problema fondamentale dell’uomo moderno è dunque la ricerca della propria “tradizione interiore”: questa può aprire in un primo momento al senso religioso della vita che è indubbiamente contenuto nella religione e ricondurre in un secondo momento alla Tradizione una. L’errore in cui normalmente si incorre è di credere di possedere questo senso religioso della vita, solo in quanto si professa una religione, come se si trattasse di un complesso dottrinario di tipo profano da imparare discorsivamente e da professare nello stesso senso di tante altre discipline esteriori o semi-intellettuali.
L’“eterno” che è alla base di una religione non può essere attinto, se non a condizione che l’individuo abbia destato in sé la propria tradizione interiore: allora soltanto l’aspetto dell’eterno spirituale riflesso nella religione parla alla coscienza dell’uomo. È l’uomo che deve “aprirsi”, riprendere contatto, divenire nuovamente strumento cosciente del Divino, per libera determinazione interiore: sta nella volontà e nell’ascetica devozione dell’uomo la possibilità di far fiorire sub specie interioritatis la comprensione della verità. Questa è la conoscenza.
Tale conoscenza pertanto è ancora piú accessibile all’uomo se egli la può trovare riflessa nei princípi della sua tradizione; ma qui il pericolo – come si è accennato – è di rimanere impigliati nell’aspetto dottrinario e discorsivo di essa. È innegabile che il rapporto del moderno uomo religioso con la propria tradizione è divenuto illusorio, semplicemente dialettico o astratto, perché nell’intimo lo spirito tace, non può emergere: l’individualità con le ostruzioni del suo egoismo, delle sue invidie, dei suoi attaccamenti, dei suoi orgogli, delle sue ire, ne impedisce il passo o dà l’illusione di una “spiritualità”. E ciò non significa che quell’aspetto di materialità e di inferiorità, che è uno stato particolare dell’Essere, sia piú forte dell’essere originario, ma soltanto che l’individuo non è degno, non è dignificato, il “vaso” non è puro. La sua professione religiosa è divenuta formula, automatismo, pretesto per discutere: essa investe semplicemente la superficie della sua individualità, la quale rimane nel profondo dominata dalla natura animale.
Questo distacco dall’essenza della religione, questa perdita del senso spirituale della vita, per cui ha importanza assoluta il fenomenico e viene completamente ignorata la causa prima di esso, non è colpa della religione, ma degli uomini inadeguatamente religiosi. Infatti, se l’individuo deve ridestare in sé la tradizione interiore prima di prendere contatto integrale con la religione, è pur vero che la religione gli offre la tecnica iniziale di questo atto di dignificazione, di purificazione, di “resurrezione” interna. Non si tratta di un circolo vizioso ma di un’azione spirituale che, per la sua unicità e la sua eccezionale serietà, può sembrare contraddire il buon senso o la logica comune.
La religione nella sua autentica “possibilità” (non “potenzialità”) metafisica è sempre attiva e reale nella sua funzione di richiamare e collegare l’umano al Divino: in tal senso non è responsabile della decadenza spirituale dell’uomo, il quale può ad ogni momento ritrovare attraverso essa ciò che di eterno essa in forma dottrinaria esprime.
L’individuo può trovare nella regola religiosa il segreto per risvegliare la propria tradizione interiore: una volta ritrovata, questa lo risospinge verso quella verità profonda della tradizione riguardo alla quale la regola iniziale non era che un avviamento.
Occorre effettivamente rendersi conto che vivere la verità della propria religione non equivale a imparare una qualunque disciplina nel senso profano e limitatamente intellettuale: si tratta di stabilire il contatto della propria contingente individualità con una forza o virtú trascendente, a cui quella deve dare il modo di scendere sul piano dell’ignoranza e della pseudo-coscienza: si tratta di svegliarsi da un inerte e consuetudinario costume di vita, vincere un tramortimento organico, acquisire una piú vasta coscienza di sé, realizzando un’ascesi oltre la stessa regola che, discorsivamente, attraverso la comprensione mentale, suggerisce alla nostra interiorità il primo moto per attuare questo risveglio. È tale moto di conoscenza e di amore che prepara nell’anima quella cui sopra abbiamo dato il nome di dignificazione. E non a caso parliamo di “risveglio”: È venivano chiamati, secondo la mistica tradizionale, coloro che già avevano iniziato la via della integrazione.
La regola che, come si vede, è un mezzo, rischia invece di essere continuamente ridotta ad un fine: qui avviene l’arresto, la ripetizione meccanica, il depotenziamento interiore. La regola è bensí necessaria: essa ha una ragione fondamentale di essere, in quanto comporta quella disciplina indispensabile sul piano umano fisio-psichico affinché ciò che è piú cosciente in esso possa educare il meno cosciente, perché l’individuo gradualmente si adegui alla legge spirituale superiore. Ma è propria alla inerzia e alla incoscienza della natura umana l’assuefazione, per cui la regola, dopo un determinato periodo, viene a perdere l’essenzialità di cui è aspetto dottrinario, sino a divenire movimento automatico.
Ora, chi automatizza la regola si trova nelle stesse condizioni di insufficienza spirituale di chi, credendo ad un universalismo astratto, ritiene di poter fare a meno della regola. Questa invece va continuamente vitalizzata nella sua applicazione: essa, rappresentando un’espressione di mediazione tra l’individuale e il super-individuale, deve sempre essere realizzata nello spirito di tale funzione, né mai venir ridotta al minore dei suoi due aspetti. La regola, è vero, assume il linguaggio proprio al piano della relatività e della contingenza umana, ma solo per recarvi il senso particolare della trasformazione inerente al principio superiore.
Questo valore della regola religiosa si può estendere alla regola propria a princípi gerarchicamente subordinati ma sempre potenzialmente rispondenti all’archetipo della gerarchia celeste: dall’Impero metafisico all’Impero terrestre, alla patria, alla razza, alla società, alla famiglia. La regola qui rappresenta veramente il graduale rapporto tra l’universale e il particolare, tra l’Infinito e il finito. Ecco perché è in errore chi crede di poter evadere da un atteggiamento di responsabilità (se non di osservanza) rispetto ad entità reali e non astratte come la patria, la razza, la società, solo per far mentalmente e dialetticamente professione di universalista o per aver risolto il proprio problema spirituale aderendo ad un sistema filosofico.
Ma occorre guardarsi anche dall’eccesso opposto, che consiste nel seguire la regola soltanto per una abitudine meccanica, in una forma divenuta quasi sub-conscia: in tal modo si viene meno a quell’impeto interiore di cui l’inizio della regola era stato motivo e si finisce con il pretendere da questo automatismo la conquista del regno dei Cieli, e in nome di esso, non essendo la individualità in nulla trasformata, si pretende di essere i difensori della religione e della tradizione e di essere perciò d’esempio agli altri. Questa illusione genera una sicurezza interiore che, per essere veramente priva di fondamento spirituale, degenera quasi sempre in un orgoglio settario il cui carattere pone sul piano delle altre sette e provoca sterili urti ideologici che, rispetto all’autentica spiritualità, non avrebbero alcuna ragione di esistere. Cosí, per difendere una “ortodossia” che non ha bisogno di essere difesa sul piano della profanità, si diviene eretici. È vero invece, come chiarisce Boezio, che «La fede è qualcosa di mezzo tra eresie contrarie». Ma, una volta destata nell’individuo la “tradizione interiore”, non v’è pericolo di deviazione o di cristallizzazione: la propria religione, che prima poteva sembrare reticente o dogmatica o troppo umana o troppo metafisica, parla infine direttamente allo spirito dell’uomo e gli offre in qualsiasi tempo la via ad additare la quale essa è stata creata: la via verso il Divino. Da questo momento l’uomo può comprendere pienamente il senso della propria missione sulla terra e l’attualità perenne di quel principio metafisico la cui universalità è riconoscibile dal suo poter offrire la soluzione di tutti i problemi umani, nessuno escluso, in ogni epoca.
L’uomo può allora capire che il “senso della storia”, il destino, la fatalità, non sono che limitate e contingenti interpretazioni di un gioco di forze assai piú vasto, che, per la sua obbedienza all’autentico universale, è in essenza sorretto dal Principio supremo. La Legge è la costante nella manifestazione di questo principio: in essa, con il tutto, è compreso l’uomo. Comunque egli sia ed agisca, fa parte dell’affermazione di questa Legge: sta a lui dunque agire coscientemente nel senso di essa, ossia secondo la direzione divina di cui egli è particolare espressione.
Allorché l’uomo sbaglia, devia, prevarica, egli non si sottrae alla Legge, ma crea simultaneamente le cause per riconoscere in un secondo tempo in quale misura e come egli è incapace di agire coscientemente secondo la direzione di essa. Finché, per la insufficienza di coscienza di tale principio, durerà questo agire contro la Legge, il male, la sofferenza e la relativa catarsi saranno necessari all’umanità. Ma il giorno in cui l’uomo, svegliatosi dalla immedesimazione nella natura inferiore, potesse divenire cosciente della direzione divina, allora egli spontaneamente, liberamente, si comporterebbe secondo la Legge. Egli potrebbe infine intendere che cosa significasse, secondo le antiche tradizioni, l’“ascoltare il fato”, ossia lo sforzo compiuto da esseri veramente spirituali e – nei riferimenti dell’organizzazione sociale – di collegi sacerdotali, per capire di volta in volta che cosa il Divino esigesse dall’umano. L’uomo capirebbe il senso dell’offerta cosciente: la lotta, il dolore, l’amore gli apparirebbero come aspetti di un rito mondiale di sacrificio e di dignificazione, che gli individui per lo piú compiono inconsapevolmente, come forzati da un volere fatale e provvidenziale. Ma la fatalità e la potenzialità cesserebbero di avere significato, allorché si destasse la coscienza di essere, e il sacrificio venisse offerto al Divino non piú da uomini tragicamente doloranti, ma da esseri liberi e pienamente consapevoli, animati dalla pura gioia di avere infine trovato la via verso la verità. Né alcun aspetto della lotta verrebbe rinnegato, ma ogni atto avrebbe senso, non nella sua esclusivistica contingenza, ma come motivo di offerta affinché ciò che è umano si ordini secondo il principio che gli è superiore.
Si renderebbe cosí possibile quella consacrazione di ogni azione, che sola può dare un valore assoluto alla creazione finale dell’agire umano. Ogni atto potrebbe cosí veramente rivestire un valore al tempo stesso reale e simbolico, esteriore ed interiore, e l’esterno, riflettendo sul piano finito il gioco dell’Infinito, non potrebbe non realizzare il vero sul piano umano sociale giuridico politico. Si ritornerebbe a comprendere l’autentico valore del rito, perché sarebbe ristabilito il contatto con quella Grazia che invisibilmente fluisce nel rito, in quanto la evocazione di essa risponderebbe veramente a un atto interiore di Pietas che si manifesterebbe nell’azione come pietas erga Deum, erga Patriam, parentes, homines.
Il piú umile gesto dell’uomo potrebbe cosí essere tramite di un contatto con il Divino ed anche le azioni che normalmente si presentano come espressioni dell’affermazione egoica, potrebbero divenire motivo di una vittoria sul proprio egoismo. Si giungerebbe cosí a concepire ogni azione come motivo di un’offerta, la cui dinamica sottile è amore: proprio questo senso di amore costituirebbe l’intensità del rapporto tra l’uomo che agisce e Colui al quale l’azione viene offerta, lungo un ritmo che può condurre alla assoluta identificazione.
Non si tratterebbe di un amore profano, nella depotenziata accezione moderna, intriso di sensualità o di fanatismo, svirilizzato dal sentimentalismo, ma di un amore che è forza primigenia, pura comunione con l’Alto, vasta armonia dello spirito con tutte le forze che sul piano umano realizzassero consapevolmente o inconsapevolmente la stessa consacrazione. Tale amore, mantenendo senza soluzione il contatto dello spirito con il trascendente, sarebbe al tempo stesso conoscenza super-razionale e si esprimerebbe sul piano esistenziale come gioia animatrice, attraverso ogni azione, ogni apparente contrasto, ogni lotta, recando la possibilità di continua purificazione nel pensiero, nel sentimento e nella volontà. Ne deriverebbero un retto pensare, un retto sentire, un retto volere: la vita tutta potrebbe divenire un atto di consacrazione che assumerebbe come fondamento il senso della Fides, da un canto rivolto verso l’universale e dall’altro verso la collettività, verso la patria, la razza e la famiglia. Non un aspetto di questa Fides potrebbe essere escluso senza il rischio di una snaturazione del principio, che costituirebbe il punto di minor resistenza attraverso cui l’irrazionale animalità – pur quando assumesse mentita veste di intellettualismo – potrebbe prendere la sua rivincita sull’uomo tendente all’integrazione della propria individualità.
Le deviazioni sono ad ogni punto possibili; ma quando l’impulso agisce dal profondo, in stato di purità assoluta, la Tradizione è lí a porgere l’aiuto della sua sapienza nuova ed antica. Essa può suggerire una direzione infallibile alle nostre opere, sia che esse riflettano l’attività particolare dell’intelletto o della cultura, sia che esse rivestano un valore politico e sociale, o che manifestino la volontà tradotta in azione, in combattimento. Ogni via è buona in tal senso per giungere alla coscienza del Divino, purché di tali vie vengano riconosciute la relatività e la contingenza rispetto alla “via regale” della Tradizione una e purché, lungo il cammino, sia realizzato quel rapporto con il piano metafisico, che viene suggerito dalla tradizione interiore. L’uomo integrato – i cui caratteri risponderebbero a quelli dell’ – non sarebbe un interprete piú o meno soggettivo degli avvenimenti, ma comprenderebbe ed agirebbe attraverso la “conoscenza”, divenendo un concreatore degli avvenimenti. La rettificazione iniziata dall’individuo potrebbe agire come forza interiore sull’ambiente e sulla massa: non sarebbe indispensabile per questo una propaganda, o una scuola, in quanto agirebbe essenzialmente l’influenza sottile emanata dalla capacità interiore dei pochi già dotati di “conoscenza”, la quale, peraltro, potrebbe anche avere come appoggio esteriore, in condizioni speciali, una dottrina o una scuola.
Noi siamo certi che in questi tempi che annunziano il disfacimento di una civiltà cadaverica e la nascita di un nuovo mondo, basterebbe che soltanto una esigua minoranza realizzasse, sia pure in segreto, questa religiosità positiva e giungesse al riconoscimento dell’autentica “direzione metafisica”, perché la collettività rappresentata da questa minoranza divenisse, attraverso rapidi eventi, strumento di restaurazione di un ordine mondiale.

Massimo Scaligero
(2. Fine)

Da «La via italiana» dicembre 1942, fasc. 357