Evocazioni

Era arrivato con la famiglia giorni prima in quel minuscolo villaggio del Meridione italiano, issato sopra un bastione di roccia calcarea. Da quella specie di nido d’aquila si dominava a strapiombo il mare di un turchino cangiante, la costa solennemente elevata e rotta in cale e frastagli, i borghi marinari calcinati dal sole, dal vento e dalla salsedine, stretti casa contro casa, quasi a difendere la propria identità dalle secolari intrusioni esterne, amiche o nemiche che fossero.
Dal porto della cittadina piú grande, un tempo potenza marittima, una tormentata salita, prima in calesse, tra polvere, schiocchi di frusta e i grevi fraseggi dei trasportatori in un idioma colorito, e poi, allorquando la strada aveva ceduto il posto a viottoli e scale, le portantine a braccia e i muli.
Anche il paese dove sorgeva l’hotel che li ospitava, conservava tracce di antichi fasti, dalle residenze degli aristocratici romani che vi svernavano ai palazzi e ville di signorie medievali. Alcuni di questi edifici non piú di ruderi, altri, come la cattedrale, con impronte ancora visibili dei trascorsi splendori.
Proprio sfiorando il grande portale di bronzo, confuso al composto gregge dei fedeli, l’uomo era entrato, subito riconfortato dalla penombra resa fresca dai marmi e dall’arioso biancore delle volte appena segnate da stucchi e lievi cromíe di affreschi.
Si celebrava un rito antico, al quale gli avevano suggerito di assistere. Ogni anno a maggio, in occasione della Pentecoste, venivano eseguiti canti particolari accompagnati dall’organo. Il Direttore dell’albergo, in un ottimo francese, si era premurato di informarlo: «Lei è un celebre musicista. Troverà la cerimonia molto interessante».
E ora stava lí, confuso con la folla orante. Una forza ignota, era certo, congiurava perché le cose che stava vivendo accadessero.
Dall’esterno un tubare di colombi alle gronde e l’alito del vento collinare tra le chiome dei tigli sul sagrato inondato dal sole ormai quasi estivo si confondevano col bisbigliare in latino del celebrante sull’altare, con le risposte piú sonore ma incerte dei chierichetti serventi, col tinnire di patene e ampolle e, quando la cadenza liturgica lo richiedeva, l’aggregarsi a quei timidi suoni e rumori delle voci spurie ma fervorose dell’uditorio.
“Perché sono qui?” si chiedeva l’uomo, chiaramente uno straniero, non vecchio ma in là con gli anni, barbetta rada e capelli memori di essere stati un tempo biondi e folti, ma che ora, sparuti e grigi, lasciavano scoperta una vasta fronte da pensatore, da cui partiva una scriminatura appena accennata. In quella fisionomia quasi gnomesca, lisa dal tempo e dal cogitare creativo, si animavano però due occhi azzurri vivissimi: guardavano con avido stupore il mondo, alla ricerca di meraviglie da mettere in poesia e musica.
Poi la scontata ritualità cattolica si accese, fece un salto repentino indietro nei millenni, o in alto verso l’arcano. Il sacerdote prese dalla mensa l’ostensorio e, rigirandosi, lo mostrò ai fedeli. La raggiera che racchiudeva il corpo di Cristo sfolgorò per un attimo sotto le luci della navata e i riverberi del sole sui marmi e i bronzi. Erano due soli a confronto che inneggiavano all’unico Dio che li pervadeva di vibrante energia. Ed ecco levarsi la frase del solista dal coro: «Veni creator Spiritus» e l’immediato, globale, armonico responsorio di voci accordate nel sentire profondo, modulate dal flautare possente dell’organo. Tutta la chiesa era cosí divenuta un solo blocco di esaltazione mistica. Le anime, anche le piú dure, si accesero di un incontenibile ardore, invocando lo Spirito perché si rivelasse, scendesse a santificarle.
Cosima e i ragazzi erano rimasti in albergo, al fresco odoroso delle maioliche e delle aiuole fiorite.
«Voi non ci andate, Madame?» le aveva chiesto il Direttore in un garbato francese.
«Sono protestante» era stata la risposta altrettanto cortese ma perentoria. Cosima, essendosi convertita alla Riforma per poter divorziare da Hans von Bülow, teneva a dichiararlo con fermezza, in qualunque occasione e di fronte a chiunque. Una determinazione , la sua, che aveva di molto incrinato i rapporti con Liszt, suo padre, fervente cattolico al punto da vestire poi l’abito talare a Roma. Soltanto la motivazione dell’abiura fittizia, il tempo e la nascita di Siegfried avevano ricomposto il dissidio familiare e ripristinato i rapporti tra la coppia e il virtuoso autore dei preludi e delle rapsodie ungheresi, che molto si sarebbe adoperato per realizzare il Festival di Bayreuth.
«Ma si tratta di evento particolare, Madame, dal punto di vista musicale. Non è questione di appartenenza religiosa…» aveva insistito il Direttore. Un cenno deciso della testa di lei aveva messo fine alla conversazione.
Ora, seminascosto tra le colonne levigate del pulpito, lo straniero, in quella chiesa antica quanto la storia del mondo europeo e della civiltà mediterranea, si rendeva conto che le centinaia di occhi che scrutavano l’ostensorio oscillante da un lato all’altro, ora portato presso i banchi prossimi all’altare, quasi a sfiorare il suo volto, non erano parte di una realtà come cosa in sé, ma occhi che sprofondavano nel mistero e ne uscivano trasfigurati. Uomini e donne coglievano in quel simbolo una forza che annullava tempo e spazio, sottraendosi a ogni causalità materica. E non si trattava soprattutto, a smentire ancora una volta il suo amico Schopenauer, di una “transazione consolatoria”, o di una “pausa illusoria di appagamento”. Per quella fede uomini e donne avrebbero, come tante volte era avvenuto nella loro storia, affrontato disagi e persino la morte.
L’esibizione di un oggetto sacrale era un elemento catartico, faceva parte di una liturgia esistenziale, difficilmente collocabile tra le chimere speculative del suo ex discepolo ed estimatore Nietzsche, che rimandava ogni espressione umana ai soli influssi umorali e contrastanti di Apollo e Dioniso, lui sí legato al pregiudizio agnostico di non voler accettare la rivelazione del Cristo che quelle divinità aveva sostituito.
Dopo la breve epifania, l’ostensorio venne collocato in alto sopra il tabernacolo, esposto all’adorazione dei fedeli. Ed ecco levarsi ancora, con il “Gloria”, il suono dell’organo, un do maggiore che sollecitò la partecipazione dell’uditorio. Era la tonalità dell’esultanza gratificata, solenne, l’apertura fiduciosa al Divino, la festa nell’armonia dei timbri e delle vibrazioni.
Riandò con la memoria all’esecuzione in pubblico, nella Gewandhaus di Lipsia, della sua prima composizione, una sinfonia in do maggiore appunto, come quel canto corale che stava ascoltando. Aveva da poco compiuto vent’anni, allora, e il mondo gli appariva prodigo di ogni dono. Il primo fu Minna, la bella e gioiosa attrice, con la quale avrebbe iniziato il cammino nell’arte e nella mondanità, dal palcoscenico ai salotti, in un turbinio di successi e disastri, esaltazioni e tormenti. Ma era la vita piena, e Minna ne era il lievito e la Musa ispiratrice.
Uscí dalla chiesa, e subito la grande, assoluta luce del Sud lo avvolse. Aveva assistito alla celebrazione di un Mistero, nel modo in cui egli stesso concepiva una rappresentazione di arte totale: musica, parole, canto. Una scenografia capace di smuovere il pathos, di provocare catarsi, condurre per mano l’anima del pubblico a varcare la soglia dell’arcano, o semplicemente ad affacciarsi sulla vertigine di esso, contemplarlo nel rispetto e nella devozione e, nel grado estremo, alla partecipazione. L’essere umano, lui ne era certo, non poteva fare a meno della ritualità. Su questi temi c’era stata la rottura con Nietzsche, quattro anni prima, a Sorrento. Il suo amico filosofo non aveva gradito la rappresentazione dell’Anello a Bayreuth, la prima integrale della Tetralogia. Era stata, secondo lui, proprio la forzatura catartica in chiave mistica delle quattro opere eseguite, a creare una saga pangermanica fomentatrice di sentimenti e ideali nazionalistici. Non vi aveva colto il senso universale e allegorico di cui i poemi e la musica si facevano strumenti induttivi per condurre l’anima degli spettatori nel mistero e nel mito.
A Sorrento si erano ritrovati per caso, o per destino. In un pomeriggio di primo autunno avevano assistito, mentre passeggiavano, a una di quelle processioni tanto care ai cattolici: musica di banda, canti e litanie, le vergini in abiti candidi con cesti di fiori, gli aromi d’incenso, i paramenti sacri rutilanti di fregi argentati e dorati, i vessilli e gli stendardi, l’incedere ritmico della trenodía su cui procedeva la Santa celebrata, ondulando, il sorriso e il gesto benedicente.
Quella processione era un evento che si svolgeva nel 1800 dopo Cristo, in un paese del Meridione italiano, ma poteva essere, scivolando indietro nei millenni, a Delfi, a Eleusi, a File. Soltanto che lí, in quella cittadina a poche miglia da Napoli, il mistero antico si stemperava e sublimava nella realtà del Cristo, ne portava il segno e il valore spirituale. Gli antichi dèi, compreso Dioniso, tanto caro al filosofo, e quelli della mitologia dei Celti e dei Germani, cedevano il passo all’Uomo di Nazareth. Aveva esternato queste sensazioni al suo amico, che aveva reagito con veemenza:
«Ma questo, caro Maestro, è decadente idealismo che fa prostrare Lei e questa gente ai piedi della croce cristiana!».
E non meno veementi erano state le parole di contrarietà pronunciate da Nietzsche quando gli aveva esposto il suo progetto sul Parsifal, al cui poema stava lavorando in quel periodo. Albert Brenner, segretario e accompagnatore del filosofo, aveva rivelato in via confidenziale e amichevole a lui e a sua moglie i nuovi orientamenti ideali di Nietzsche. Niente piú Schopenauer: adesso leggeva Voltaire e gli eretici olandesi e, parlando della musica, si era lamentato della terribile esperienza di quell’estate a Bayreuth, costretto ad assistere all’intera Tetralogia. «Una grande opera ad ostacoli» era stato il suo commento. L’aveva giudicata suadente per la sua segreta sensualità, adatta a una società alla ricerca annoiata di nuovi plaisir, o subdolamente capace di causare l’annebbiamento metafisico che induceva a vedere miracoli e mostruosità in ogni elemento della natura e in ogni fenomeno. Il suo giovane e tormentato amico non credeva dunque ai miracoli, alla continua, paterna, risolutiva immanenza del sacro e del Divino nella sorte materiale del mondo e degli uomini. Forse non voleva crederci, per orgoglio, per non scendere al livello dei semplici e degli umili. Olimpico, titanico, il suo ingegno mai aveva cercato la prova dell’esistenza divina.
Al contrario, lui ne aveva ottenuto la conferma, perché lo aveva chiesto. Nella temerarietà della gioventú, al limite del sacrilegio, aveva voluto provocare la Provvidenza sfidandola con l’azzardo del gioco. Una sera, a Lipsia, al tavolo del “lanzichenecco”, aveva puntato e perso l’intera pensione mensile ricevuta dalla famiglia. Gli era avanzato un tallero. Puntandolo, aveva formulato l’inaudita condizione: se la sua vita doveva rimanere nella mediocrità e nell’ombra, che perdesse anche quella residua moneta. Ma se il Cielo gli riservava un destino di gloria e di successo artistico, da essa sarebbe venuta la possibilità di recuperare.
E cosí era avvenuto. Una fortuna sorprendente lo aveva baciato quella sera. Non solo aveva riguadagnato il denaro perduto, ma con il ricavato finale aveva potuto pagare tutti i debiti che aveva. Sul piano morale, invece, una specie di sacro fuoco interiore gli ribadí la certezza di essere destinato a compiere cose straordinarie, poiché la tutela divina lo proteggeva e ispirava.
Alle amare confidenze di Brenner, a Sorrento, Cosima, da saggia osservatrice dei fatti della vita, si era limitata con freddezza a chiudere il discorso:
«Io rimango fedele al Nietzsche delle visite amichevoli a Tribschen, e abbandono questo qui, che frequenta ormai Erasmo e Voltaire. Buon pro gli faccia!».
Da quel soggiorno a Sorrento, era iniziata una specie di lotta sorda tra il filosofo dionisiaco e il Parsifal. A gennaio del 1878 l’autore aveva inviato a Nietzsche una copia del poema con una dedica conciliante. Al che l’altro aveva contraccambiato con una copia del suo libro appena uscito Umano, troppo umano contrassegnato da una dedica in forma di filastrocca a dispetto. Quello scambio era stato l’ultimo tentativo di ricomporre il dissidio. Ma tutto inutile. In quello stesso anno Parsifal e Umano, troppo umano si affrontarono in un duello a distanza senza esclusione di colpi. E Nietzsche ebbe a confidare al suo editore che in quella sfida si poteva quasi cogliere «una nota ominosa. Era come se si udisse il risuonare di due spade incrociate…».
Man mano che lo scontro tra i due fenomeni, piú che culturali esoterici, si produceva, meglio si delineavano gli intenti e le posizioni dei loro fautori. Nietzsche, gettata la maschera del filosofo cultore di alte conoscenze classiche, disincantato e ribelle, si rivelava per un tipico prodotto della speculazione atomistico-atea democritea, che altro non aveva tentato di fare, in secoli di teoremi e sillogismi, se non portare l’uomo alla negazione del Divino in generale e del Cristo in particolare. Ed era stata proprio la valenza cristica del Parsifal che aveva causato lo smascheramento del febbrile adepto di Dioniso, votato a realizzare, attraverso l’autoaffermazione dominatrice, la trasmutazione di tutti i valori, fino a plasmare il Superuomo.
Ma quanta differenza tra i due modelli terminali del processo evolutivo interiore proposti da lui e dal suo ex estimatore e amico! Il Superuomo di Nietzsche, stando ai postulati del filosofo, liberato dai lacci delle debolezze fideistiche e devozionali, in possesso di un sapere scevro di ogni mistificazione e di pregiudizi religiosi e morali, del decadente misticismo, si ergeva aureolato di volontà di potenza di fronte al Nulla, reggendone la visione col freddo sguardo di chi ha risolto l’enigma dell’eterno ritorno. Un gigante dai piedi d’argilla, un funambolo in bilico sulla corda degli espedienti speculativi, ma soggetto a precipitare nell’abisso di quel niente al minimo accenno di dubbio morale, di congiura esistenziale. E, precipitando, portarsi dietro epigoni, seguaci e falsi ideali. Quanto rischio di smarrimento animico, di follia egocentrica!
Anche Parsifal era un folle, il “puro folle”, che nulla temeva, ma la sua era una veggenza mistica che si abbandonava al divino, un sofferto quanto inebriante pellegrinaggio alla ricerca dell’Io superiore. Lungo quel percorso iniziatico, il giovane, ignaro del mondo, si liberava dei vincoli di sangue, del concetto di stirpe, di tutto il retaggio della tradizione pagana. Al contrario di Sigfrido e dei Nibelunghi, legati prima al culto del clan, poi a quello del possesso di tesori e oggetti magici, e in seguito condizionati dal valore attribuito all’individuo dal nome e dal titolo, Lohengrin e piú ancora Parsifal esprimevano al piú alto grado l’essenza vera del cristianesimo: l’assoluta eguaglianza tra gli uomini. La monarchia spirituale di Artú cedeva il passo alla individualità sacralizzata di Parsifal, e il Graal altro non era che il tesoro di Fafner, custodito dal drago, spiritualizzato. E i cavalieri che lo servivano, secondo il precetto dell’eremita Trevrizent, cosí come lo aveva espresso Chrétien de Troyes: «Dieu aime, Dieu croi, Dieu aeure» [«Ama Dio, credi in Dio, adora Dio»], dovevano, al termine della loro genesi iniziatica passante attraverso la triplice formazione alla cavalleria, all’amore e alla religione, conquistare la vita dell’anima e accendere la scintilla divina latente in ogni uomo.
Seguendo i dettami dei mistici del Medioevo che ritenevano l’uomo un essere quadripartito, nell’aspetto fisico, animico, spirituale e divino, egli riteneva Parsifal la figura conclusiva e giustificativa di tutta la sua attività creativa. Sin dall’inizio egli aveva inteso riavvicinare l’arte alla religione, ricreando con le sue opere atmosfere che riportassero l’uomo al sacro e al misterico. Allo stesso tempo aveva voluto, attraverso l’espressione artistica, avvicinare il pubblico al vero spirito del Cristianesimo.
Nella piazza antistante la chiesa, il sole riverberava forte, una prodigiosa fonte di rivelazione. Aveva affascinato Goethe, quello spettro contenente il potere di fomentare nelle cose la qualità del loro colore, la loro intima essenza. O forse, e questo era la sua idea, il sole conteneva ogni colore e ogni forma, fluttuanti presenze, parvenze sfuggenti e indefinibili, entità angeliche o terrificanti. Per questo il popolino locale allestiva edicole sacre nei luoghi piú soggetti alla materializzazione di tali presenze. Tutta la mitologia mediterranea si era alimentata per millenni di quello che la luce evocava. Venendo da Napoli in battello, avevano sfiorato l’Isola delle Sirene. Qual era il canto capace di modulare seduzione e rovina per i marinai? Come la Loreley del Reno, melodia e incanto, sortilegio e leggiadria di fanciulle senza età né destino.
Ogni luogo, pensava, ha la sua luce, e dalla qualità di questa deriva la particolare suggestione. Cosí erano nati molti temi dominanti dei suoi drammi musicali. Ricordava l’estate del 1839, la partenza precipitosa da Riga insieme a Minna. Gioventú scapigliata, eccessi, debiti. I giusti ingredienti per un’avventura a bordo del veliero Thetis, da quasi clandestini. Sullo Skagerrak la burrasca tra balenii di luci verdastre, sulfuree, le spume irte contro la chiglia, il ruggire del vento tra i velacci e le sartie. Tenebrore e vampate accecanti, stridere di legni, la mano di una ignota divinità sul timone, il fato di un uomo colpito da nemesi, maledizione e riscatto, amore e redenzione. L’Olandese volante, il marinaio senza pace né speranza, finalmente sciolto dal pegno del male dato e subíto per secoli.
Ma come per Goethe, era l’Italia a offrirgli le chiavi piú sorprendenti di lettura, introspezioni e ispirazioni felici. A La Spezia, nell’estate del 1852, per L’Oro del Reno, l’accordo in mi bemolle maggiore, a Venezia per Tristano e Isotta, estate del 1858. E ora, poche settimane prima, a Siena, aveva immaginato, sotto le volte gotiche della cattedrale, il dominio del Graal, con la sala dove era custodita la sacra coppa, nella luce della terra di Toscana, tersa e al tempo stesso dolce, dai toni e colori equilibrati, senza eccessi. Ma qui, pensava l’uomo, in questo eden lussureggiante, qui non è materia di sacro raccoglimento. Qui è un luogo d’incantesimo, in cui luce e vegetazione congiurano a tentare i cavalieri di Amfortas con promesse inebrianti.
Pensava questo, mentre varcava stupito il cancello di una grande villa poco distante dalla piazza. Piante di ogni foggia e dimensione, siepi fiorite, pergolati su cui rampavano attorcigliandosi dal suolo umido vilucchi di ipomee dal calice turchino. Penombre cospiratrici, umori muschiosi, trepestii di fate e ninfe sui tappeti di foglie. La fantasia aprí il sipario sulla scena madre: fanciulle con abiti floreali circondano Parsifal, lo blandiscono carezzandolo e invitandolo a giocare. L’eroe è reduce dallo scontro vittorioso con i cavalieri soggiogati da Klingsor. Si sottrae alle blandizie, ma ecco sortire dal folto del bosco Kundri, la Senza nome, tentatrice suprema nella sua tenebrosa bellezza.
“La salute dell’anima con un bacio la bocca gli rapisce”. Parsifal resiste anche alla sua seduzione, la respinge. E lei allora, dopo aver lanciato una maledizione, invoca soccorso. Ed ecco un maestoso rudere della villa divenire il castello del mago. Un’ombra emerge dalla merlatura degli spalti. Brandisce una lancia. «Fermati! Io t’inchiodo con l’arma che ci vuole!» grida la sinistra apparizione. Attraverso l’intrico di foglie e rami, un raggio saetta. La sacra lancia si arresta sul capo dell’eroe che la ghermisce, la solleva tracciando un segno di croce nell’aria in direzione di Klingsor e della sua rocca: «Con questo segno spezzo l’incantesimo!». Al gesto e allo scongiuro del cavaliere, il giardino si inaridisce di colpo, svanendo, e cosí il castello, che rovina in macerie, come sotto i colpi di un tremendo sisma. Resta Kundri ai piedi di Parsifal, che esclama: «Tu sai dove mi potrai ritrovare». E cosí l’eroe adamantino le fa promessa di riscatto e redenzione.
Dalla chiesa un suono di campane. La cerimonia religiosa era terminata e i fedeli sciamavano all’aperto. Qualcuno si affacciò ai vialetti della villa, sbirciò nella penombra e notò lo straniero che poco prima era tra le colonne del pulpito. Adesso stava lí, immobile, presso le rovine dell’antica torre, ammaliato da un sortilegio che lui soltanto vedeva.
«Ho scoperto il dominio di Klingsor!» annunciò alla famiglia in procinto di mettersi a tavola nel fresco patio che dava sul mare, visibile in basso dopo il precipitare di terrazze, giardini e frutteti. I ragazzi lo guardarono interdetti. Cosima, assumendo un’aria complice, beatamente sorrise. Conosceva i tormenti del marito mentre cercava un’atmosfera, uno scenario e la giusta ispirazione per illuminarlo di trascendenza e prodigio. Ora scorgeva l’estasi accendersi negli occhi azzurri di lui.
Il Direttore, che non perdeva di vista e d’udito quegli ospiti molto particolari, accorse col registro delle firme. Gli chiese di trascrivere la frase che aveva appena pronunciato. «È un avvenimento storico, Maestro Wagner!» commentò eccitato mentre asciugava l’inchiostro.
Poi ripose il registro nell’armadio del ricevimento con ieratico sussiego, quasi chiudesse una miracolosa reliquia in un tabernacolo.

Leonida I. Elliot

Immagine: Cosima, Siegfried e Richard Wagner