Il racconto

Anni fa, dopo molto vagare per i boschi, mi trovai inaspettatamente in uno spazioso prato di forma concava, dove numerose pietre sporgevano dal suolo. Attratto dal luogo mi sedetti su una di esse. Spirava ancora la brezza dell’alba: il cielo splendeva piú d’amore che di luce. Alcunché di vivo mi toccò una mano e mi voltai: era un agnellino che mi guardava supplichevole. Non sapendo che fare di meglio, gli posai una mano sul capo e cominciai a carezzarlo lungo il dorso, fermandomi a un ciuffo di lana celeste. Me l’avvicinai per rendermi conto se lo avesse tinto il pastore: appoggiò, mansuetissimo, la testa sulle mie gambe. Guardai con molta attenzione quel ciuffo celeste e mi parve, dalla bianchezza del vello, dalla unità del colore, un segno nativo.
Mi alzai e l’agnello mi venne dietro. Girai tutt’intorno al prato aspettando di vedere apparire dal bosco il pastore. Gli avrei domandato della pecora che aveva figliato l’agnellino e se era essa del branco. Ma se il ciuffo celeste non era un segno nativo, gli avrei chiesto come e quando fosse avvenuto il cambiamento; se per lenta mutazione del colore o improvvisamente, e in questo caso in quale stagione e mese, se di notte o di giorno, all’ombra o al sole. Ma non vidi nessuno ed entrai nel bosco per tornare a casa, mentre l’agnellino continuava a seguirmi. Gli feci cenno di restare nel prato e subito piegò le zampette guardandomi come al momento dell’incontro e belando fitto fitto. Lasciai che venisse con me.
Facemmo la discesa quasi di corsa. Sulla strada maestra e poi nel borgo, le poche persone che incontrai mi chiedevano se avevo comprato l’agnellino. Io rispondevo di sí e costoro sostavano sorpresi; ma non volevo dire di piú, perché non mi venissero dietro.
Aprii la porta di casa e l’agnellino non si peritò a entrare, anzi se ne rallegrò saltellandomi intorno. La mattina al buio, prima di andare in montagna, sicuro di tornare a casa di buon appetito, mi ero apparecchiato la tavola; nella madia avevo pane, frutta e formaggio. Mi misi a sedere e cominciai a mangiare; l’agnello, dall’altra parte della tavola, riprese a guardarmi supplichevole.
«Certamente – pensai – ha fame ed è ancora abituato a poppare».
Mi ricordai che durante il tragitto dal prato a casa non gli avevo mai visto brucare un filo d’erba. Lasciai il desinare a mezzo, presi una bottiglia e andai dalla lattaia. L’agnello mi venne dietro. La donna, dopo avere versato il latte, si accorse del ciuffo celeste e disse:
«I pastori contrassegnano il gregge di rosso; lei ha preferito un altro colore».
La lattaia, come tutti nel borgo, mi tenevano in conto di uomo lunatico, buono di carattere sí, ma da non doversi troppo considerare. Salutai la donna con affabilità e ritornai a casa.
L’agnello bevve il latte e io finii di mangiare. Uscimmo fuori. Mi sedetti sullo scalino. L’agnello corse al piede dell’olivo, di faccia alla finestra della camera e, alzandosi sulle zampe posteriori, mi chiedeva nel suo modo evidente che ve lo mettessi sopra, dove, mi accorsi, poteva benissimo stare in piedi o sdraiato. Mi pareva guardasse la montagna da cui era venuto. Calmo, chiaro pomeriggio! Col cuore in quella pace ed esercitato alla tenerezza, potevo partecipare, come partecipavo, alla gioia diffusa per l’orizzonte collinoso e alpestre.
Quando vidi apparire una stella, levai l’agnello di sull’olivo e lo portai in casa. Mi sedetti, tenendolo in collo, sotto la finestra. E io stavo a guardare il ciuffo di lana celeste.
Cosí venne la notte. Accesi la candela e mi sdraiai su un tappeto con l’agnellino racchiuso tra le mie braccia. Attesi che si addormentasse. Allorché chiuse gli occhi e abbassò il muso sino a toccare con la bocca il tappeto, presi la candela di sulla tavola e andai nella stanza accanto, che era la camera mia.
Stavo per chiudere l’uscio; l’agnellino venne di corsa e voleva entrare; lo presi per le zampe davanti e garbatamente lo respinsi.
Appena desto, andai in cucina e poi nelle altre stanze: l’agnellino era scomparso. Notai la porta di casa semiaperta, ma ricordavo di essere rientrato la sera avanti con l’agnellino in collo: non avevo pensato piú a chiuderla. Come sperai di rivederlo al piede dell’olivo, nell’atto di voler salire tra i rami oppure già salito chi sa come tra i rami stessi!
Sulla porta di casa, guardando quella che fino allora era stata la mia pianta prediletta, persi la speranza che mi restava. Girai per i campi vicini, mi recai alla fonte, ritornai in quello stesso giorno al prato concavo, dove mi sedetti, credo, su ciascuna delle numerose pietre.
Aspettai sin dopo il tramonto e avrei aspettato sino all’alba e oltre, se una qualche speranza fosse rimasta in me. Invece ero sicuro di aver perduto il mio agnellino per sempre, forse già comparso a un’altra creatura piú fedele di me.

Nicola Lisi

Da L’arca dei semplici, Editore Vallecchi, Firenze 1951.