Siti e Miti

Haiti brucia nel fuoco della rivolta di popolo. È la trentatreesima dal lontano 1791, quando uno schiavo nero, Toussaint Louverture, animò la prima, guidando la colonia di neri africani a ribellarsi ai piantatori bianchi di zucchero e cotone, che riducevano i lavoranti a zombie senza identità.
Poi la Convenzione di Parigi, nella temperie della Rivoluzione, sancí nel 1794 l’abolizione della schiavitú nelle colonie d’Oltremare. Ma ormai Haiti aveva assaporato il gusto della libertà, e la lotta si protrasse fino all’indipendenza, ottenuta nel 1804, e infine, dopo alterne vicissitudini, tra cui anche l’esperienza di un re, alla creazione della prima repubblica interamente nera nel 1822.
Forse gli haitiani hanno pagato e stanno tuttora pagando alla storia un duro e sanguinoso tributo per quel sogno di libertà. Haiti, nella lingua aruachi, significa “luogo di montagne”. Quando Colombo la scoprí, il 6 dicembre 1492, ultima isola toccata dalla sua flottiglia di gusci di noce prima del ritorno in patria, l’aspetto montagnoso di quella terra, la rigogliosa vegetazione con grandi alberi, il colore e la natura delle rocce, fecero sí che ricordasse a lui e ai suoi compagni d’avventura la Castiglia. Cosí l’isola ebbe nome Hispaniola e lí il Genovese lasciò il primo insediamento europeo alla Navidad, oggi Cap-Haïtien, a Nord, costituito dall’intero equipaggio della Santa Maria che aveva fatto naufragio proprio a largo di quella costa la notte di Natale.
Hispaniola, o Española, cosí viene descritta nel diario di bordo dell’Ammiraglio: «Tutti gli alberi sono verdi e carichi di frutti. Le piante e le erbe alte e fiorite: le strade larghe e ben tenute, la temperatura come d’aprile in Castiglia e l’usignolo e altri uccelli cantano come in Spagna». E Las Casas aggiungeva nei suoi resoconti: «L’Ammiraglio esplorò poi la regione, e la trovò tutta coltivata, con alberi dei quali molti sono delle specie di Spagna, come lecci, querce e corbezzoli».
Quanto agli indigeni, Colombo cosí li descrive: «Appaiono piú forti, piú sani e vi sono donne dal corpo bellissimo». C’era anche l’oro, il primo trovato dopo lo sbarco a San Salvador. I cacicchi, i nobili del posto, regalarono a Colombo e agli altri capitani cinture con borchie d’oro, maschere e piastre d’oro finemente lavorate.
I nuovi arrivati, gli “scopritori”, si resero conto di trovarsi di fronte a una società ben organizzata, con gerarchie di comando e codici di comportamento, dotata di conoscenze anche tecniche. Produceva ceramiche, tessuti, strumenti da lavoro, oggetti decorativi. Il “luogo delle montagne” possedeva dunque una sua civiltà, a differenza delle altre isole incontrate lungo l’itinerario fino ad allora percorso. Quando poi gli indigeni, alla domanda degli Spagnoli su cosa ci fosse oltre le cime che si levavano a Sud, rispondevano «Cibao», per dire altre montagne, equivocando Colombo ritenne si trattasse del Cipango, il Giappone, l’Oriente estremo, meta della sua ricerca.
Ma per quanto animato da ideali umanistici e da spirito cristiano, Colombo era figlio del suo tempo e della morale corrente nella sfera del potere. Egli scopriva per conto e su richiesta dei sovrani di Spagna, che si aspettavano dalle sue scoperte un tornaconto in termini territoriali, finanziari e politici. La parola “scoperta” per noi europei ha avuto nella storia delle colonizzazioni una sola valenza: chi veniva “scoperto” era di fatto conquistato, e pertanto la sua civiltà, essendo inferiore perché perdente, andava sottomessa, se non obliterata, per far posto ai valori, ovviamente ritenuti superiori, di quello che gli scopritori portavano agli scoperti: religione, costumi, leggi, arte, cultura, attività lavorative, procedimenti tecnici, sistemi economici e finanziari quali moneta, scambi e remunerazioni. Parlando dei Taino di Haiti, cosí annotava Colombo in una lettera diretta ai reali di Spagna: «Giuro alle Altezze Vostre che nel mondo non v’è miglior gente, né miglior terra. Amano il prossimo come se stessi; e hanno la parola piú dolce e mansueta del mondo, sempre accompagnata dal sorriso. Qualunque cosa si domandi loro di quello che hanno, non la rifiutano mai, anzi, la offrono e mostrano tanto affetto che sembra vogliano dare il cuore… Hanno ottimi costumi …Spero che le Vostre Altezze li vorranno fare tutti cristiani, ché cosí diventeranno loro sudditi, come già anch’io li considero».
La Navidad fu quindi il primo insediamento europeo nel Nuovo Mondo. E come ogni colonizzazione europea, nacque da un pregiudizio: che la popolazione “scoperta”, benché mite, generosa e remissiva, fosse per questo anche stupida e incapace di idee, sentimenti e potenzialità intellettuali, quindi inferiore, passibile di ogni prevaricazione in quanto poco piú che selvaggia. Dal canto loro gli indigeni, condizionati da remote credenze che preconizzavano l’arrivo di esseri soprannaturali dalla pelle chiara dall’Est attraverso il grande Oceano, attribuirono una natura divina agli uomini sbarcati dai prodigiosi velieri, armati di strani marchingegni che sputavano fuoco e ricoperti di metallo lucente impenetrabile alle frecce e zagaglie.
Poi, passando i mesi, questi presunti dèi manifestarono inclinazioni piú che umane: cupidigia sfrenata per l’oro, atteggiamento di dominio sprezzante e soprattutto, antica défaillance, il desiderio di possesso esclusivo delle donne. E gli Spagnoli della Santa Maria erano tutti uomini. Fatto sta che, pregiudizio da un lato e superstizione dall’altro, finirono con l’incontrarsi, anzi con lo scontrarsi alla Navidad. E quando Colombo ritornò nel suo secondo viaggio, undici mesi dopo, nel novembre 1494, trovò che l’insediamento era stato distrutto da un incendio e i suoi occupanti trucidati.
La storia di Haiti parte da quel seme d’incomprensione, da quel primo attrito, e tale stigma ha conservato nei secoli. La scoperta delle immense risorse del nuovo continente, che presto si rivelò essere non il Cipango e l’Asia ma una terra a sé, scatenò lotte feroci tra i vari Stati europei: Spagna, Portogallo, Francia e Inghilterra si contesero da subito le isole felici dei Caribi, conquistandole col ferro e col fuoco, perdendole in sanguinose battaglie, riconquistandole con ogni mezzo lecito o illecito, persino con la pirateria.
In questo grande gioco all’arrembaggio, i nativi finirono con l’essere comprati e venduti, oltraggiati o adulati e sedotti, ma sempre come pedine deboli sulla scacchiera, quelle che vengono presto sacrificate affinché re e regine sopravvivano in gloria e potenza. Gli Arawak, Taino e Caribi, che popolavano le isole prima dell’arrivo di Colombo, vennero infatti presto sacrificati al dio vorace della conquista. Chi non moriva dei mali sconosciuti portati dai conquistatori veniva schiavizzato nelle miniere, a estrarre l’oro e l’argento, di cui i galeoni trasportavano verso i Paesi europei carichi favolosi. Molti indigeni però scelsero la via della rivolta, e quando nulla potevano contro i cannoni e gli archibugi di Francesi e Spagnoli, si suicidavano in massa. Cosí avvenne a Grenada, nel 1650, quando i guerrieri locali, sconfitti, lanciarono in mare dalla rupe piú alta dell’isola prima donne, vecchi e bambini e poi li seguirono cantando i loro inni di battaglia.
Estinti gli autoctoni, o sopravvissuti in riserve minime, come alla Guadalupa, dove fino agli inizi del ’900 erano chiamati “les habitants”, vennero gli schiavi africani. I piantatori di caffè, cotone e canna da zucchero, la cui coltura importata finí con l’isterilire del tutto il suolo, specie quello di Haiti, servendosi di bucanieri e marinai di pochi scrupoli, cominciarono ad importare schiavi dal centro Africa: Nigeria, Costa d’Avorio, Guinea, Sierra Leone, Togo e Benin.
Ad Haiti toccarono gli schiavi di Nigeria e Benin, fautori questi ultimi di una portentosa civiltà artistica, il cui retaggio creativo è giunto fino agli abitanti attuali. L’isola è infatti ricca di pittori, scultori e compositori di ogni estrazione sociale. Questa indole volta alla magnificenza espressiva raggiunse il suo acme allorché l’ex-schiavo Henri Christophe, riunificata e resa indipendente sotto un unico potere nero l’isola divisa prima tra Francesi e Spagnoli, volle costruire nelle montagne alle spalle di Cap-Haïtien una reggia sfarzosa cui diede il nome fascinoso e mitico di “Sans Souci”, rievocando il palazzo che il re di Prussia, Federico II, di cui Cristophe era un ammiratore, aveva fatto costruire a Potsdam.
Al “Sans Souci” di Haiti una corte riccamente vestita e ingioiellata si muoveva, danzava e teneva salotto nelle grandi sale affrescate e festonate di stucchi e arabeschi. L’acqua, incanalata in condotte dalla montagna, scorreva sotto l’impiantito, mantenendo gradevole la temperatura degli ambienti.
Da allora gli haitiani sanno di essere un regno, e tendono a farsi governare da personaggi che, nel bene e nel male, da re si comportano, magari servendosi di pretoriani imperiali, come François Duvalier, detto “Papa Doc”, che usava i suoi tonton macoute per garantire l’ordine e la sua sicurezza personale.
E in obbedienza a tali sentimenti di unicità e autonomia, gli haitiani si sono creati anche una propria religione, il voodoo, con i sacerdoti houngan, e le sacerdotesse mambos. Durante i riti celebrati in radure isolate tra i boschi, invocano i Loa, gli spiriti della natura, e Gran Met, creatore del cielo e della terra, Loko Atisu, lo scaccia-dèmoni, Ezili Freda, la dea madre della fertilità, Zaka Mede, dio tutelare dei campi. In presenza di corsi d’acqua onorano Aida Wedo, divinità fluviale, e allorquando l’estasi della danza giunge al suo parossismo, ecco discendere Danbala, il dio serpente, che prende possesso del corpo dei danzatori.
I turisti, affascinati e turbati da queste cerimonie, parlano di possessione, di scatenamento degli istinti tribali, di magia nera e di follia. Ma sí, certo, c’è tanta follia nel torcersi di un corpo nel fango delle piscine iniziatiche del voodoo, nelle grida primitive che si levano dai fedeli, nelle invocazioni degli houngan officianti. Ma forse, piú verosimilmente, in tutte le celebrazioni degli haitiani c’è il rimpianto dell’anima sradicata dalle sue origini e costretta a delirare per tale insanabile perdita. Quando i grandi tamburi suonano dalle foreste, tutti, uomini e donne, silenziosamente si avviano ai luoghi del culto: Lan Ginen, l’Africa dei primordi, li chiama.
La festa piú grande si tiene il 16 luglio, quando insieme alle divinità africane si venera Vyèj Mirak, la Vergine dei Miracoli, una fanciulla radiosa vestita di bianco e di azzurro, che apparve in cima a una palma a un contadino, tale Fortuné, nell’estate del 1915, durante l’occupazione, una delle tante, dei “protettori” americani venuti a riportare l’ordine nell’isola. L’apparizione ebbe luogo presso la cascata Saut-d’Eau, oggi meta di pellegrinaggi. Il parroco francese della chiesa locale, chiamato dai contadini, si recò sul posto insieme a due marines. Veduta la figura sull’albero, chiese ai soldati americani di far fuoco su di essa. Ma i proiettili non ebbero effetto. La figura luminosa si spostò in volo su una palma vicina, e da lí, sotto le raffiche delle gun-machine, sopra un’altra palma. Finché il prete, irritato da quello che riteneva essere un sortilegio demoniaco, fece abbattere tutte le palme del boschetto. Quando l’ultimo albero cadde al suolo, la visione si tramutò in una colomba e volò via, senza mai piú tornare.
Questa è Haiti, e il fuoco di cui brucia ancora oggi è il sogno di libertà e dignità umane non realizzate. Ne prendano atto coloro che ordiscono inedite conquiste, progettano le nuove schiavitú, usando senza scrupolo né pietà i desideri umani. Come ben dice Scaligero, riferendosi alle inadempienze morali e spirituali che sono alla radice di tutte le rivolte che hanno sconvolto e continuano a sconvolgere l’assetto della società mondiale:
«Con i mezzi della razionalità e della tecnologia estraniati allo Spirito da cui originano, l’uomo bianco ha riattizzato gradi di coscienza spiritualmente esauriti nei Popoli di colore. I quali, mentre giustamente respingono ogni disuguaglianza formale, appellandosi all’ideologia ugualitaria, non possono non sentire la forza di profondità del proprio ethnos: come una unità mistica epperò come un elemento di superiorità rispetto alla compagine bianca, priva della propria unità: che non potrebbe essere di razza, bensí di Spirito. Solo una simile unità potrebbe erigersi come elemento ordinatore percepibile e perciò accettabile dall’uomo di colore: la cui tensione etnico-mistica è in realtà segno della privazione di un tale elemento ordinatore: è il segno di un regresso del quale è responsabile il bianco, e con il quale il bianco non potrà non fare i conti»(1).

Leonida I. Elliot

____________________________________________________________________________

(1)M. Scaligero, Lotta di classe e karma, Perseo, Roma 1970, p. 183.

Immagini:
– «Incontro tra gli abitanti del Vecchio e del Nuovo Mondo» incisione conservata alla Biblioteca Nazionale di Madrid
– Arte del Benin «Un dignitario e il suo seguito» altorilievo in bronzo del XVII secolo,
Nelson Gallery of Art di Kansas City, USA
– Un pittore naïf per le strade di Haiti
– Immersione rituale voodoo in una piscina di fanghi miracolosi presso Plaine du Nord, Haiti