- La prima
rappresentazione della Natività, non ancora presepe, ossia
recinto per greggi, risale alle catacombe romane (Domitilla,
Pietro e Marcellino): sbiadite pitture parietali venate di
muffa e salnitro mostrano la Vergine col Bambino, San Giuseppe
in disparte, alcune con il bue e l’asino. Si tratta di
illustrazioni rievocative, promemoria di fede, didascalie
espressive a integrazione e supporto di racconti e sermoni.
Quelle stinte figure non contenevano ancora la valenza
misterica e devozionale che ebbero in seguito, a partire cioè
da quella notte di dicembre del 1223. Era la vigilia di
Natale, e Francesco si trovava in ritiro spirituale nell’eremo
di Greccio, un paesino dell’Alto Lazio. Ad un certo punto,
lo colse un’ispirazione: volle celebrare l’evento in
maniera insolita. Chiese perciò ai contadini del luogo di
condurre un asino e un bue in una grotta non lontana dallo
speco. Tra i due animali una lettiera di paglia, la
mangiatoia, sulla quale il Serafico pose un Bambinello di
creta, una statuina male abbozzata, senza pretese di artistica
avvenenza. Ma come il celebrante impartí la benedizione che
concludeva il rito, Francesco si chinò a sollevare il pupo di
coccio con tale rapita amorevolezza che alla rustica
congregazione dei fedeli parve stringesse e cullasse un
infante in carne e ossa, atteggiato al sorriso ed emanante
mistica luce e prodigiosa serenità. Fra’ Tommaso da Celano,
primo biografo del Poverello d’Assisi, riferisce che la
folla, sciamando via dal luogo della celebrazione, portò via
chi un pezzo chi un altro della sacra rappresentazione, e
persino la paglia della mangiatoia, alla stregua di miracolose
reliquie. E pare che di miracoli ce ne furono veramente, in
quella contrada di montanari, pastori e rusticani, dopo quell’evento.
- Era nato
il presepe, nella sua forma scarna e provvisoria, rimaneggiata
in seguito, elaborata e variata ad libitum. Il Mistero
vero e proprio lo si deve a Santa Brigida, la sovrana svedese
vissuta tra il 1303 e il 1373, che ebbe frequenti esperienze
mistiche, durante le quali vedeva scene della vita di Gesú.
Fu in una di queste visioni che le si presentò chiara alla
mente la Sacra Famiglia nella grotta di Betlemme, con il bue e
l’asinello: cliché da cui si trassero da allora tutti i
modelli del Mistero consacrati dalla tradizione presepiale.
Mutavano soltanto le scene di contorno, con figure, oggetti,
personaggi, ruoli e situazioni adeguati all’epoca, al luogo,
alle temperie storiche e politiche di chi realizzava la
scenografia. Il Presepe veniva pertanto aggiornato, ferme
restando le figurazioni canoniche di angeli nunzianti,
suonatori di ciaramelle e zampogne, pastori in estasi all’apparizione
della stella. Si adeguavano anche gli attributi, i vestimenti,
i modi. Figure canoniche eccellenti del presepe nella
tradizione classica erano i tre Re Magi: Gaspare, Melchiorre e
Baldassarre. Nei giorni precedenti il Natale, in ossequio alla
sceneggiatura ispirata al Vangelo di Matteo, i tre apparivano
lontani sullo sfondo, tra dune di sabbia-segatura,
occhieggianti da finti palmizi, con le cavalcature impennate
su asperità di sughero e licheni, in bilico su vertiginose
passerelle di tronchetti oscillanti sopra l’abisso, tra
scoscese pareti di carta mimetica, sfidando l’attrazione
vertiginosa del baratro terminante in un brillío di carta
stagnola e specchio. Poi, man mano che si avvicinavano alla
meta, eccoli procedere ingranditi, con le fattezze e i
dettagli della loro carovana ben definiti, un piano medio in
cui già si delineavano l’esotismo delle turqueries,
le fogge degli abiti sontuosi, le esuberanti acconciature
guarnite di pietre brillanti, le bardature di cavalli e
dromedari arricchite con frange, galloni e gualdrappe. E
finalmente, all’Epifania, li si vedeva appiedati in
adorazione davanti al Bambino, con il loro fastoso corteo di
servi, segretari e guardie a rispettosa distanza, le mani
protese a offrire i doni simbolici e preziosi per tanto
nascituro che essi sapevano per certo essere un grande re
disceso dal cielo, un Messia salvatore degli uomini. La stella
cometa è lí ferma, a indicare che quello è il luogo per
trovare il quale molto hanno viaggiato e penato.
- Chi ha
bisogno di vedere e calcolare per credere, parla di quella
prodigiosa apparizione in termini puramente astronomici, e
chiama in causa Keplero. Il 17 dicembre del 1603, il celebre
matematico e astronomo, che svolgeva anche funzioni di
astrologo alla corte di Rodolfo II d’Asburgo, stava
osservando con un telescopio, dagli spalti del castello di
Praga affacciato sulla Moldava, uno strano fenomeno
astronomico: la congiunzione di Giove e Saturno nella
Costellazione dei Pesci. Grande conoscitore delle Sacre
Scritture e dei Vangeli, rammentò l’episodio riportato da
Matteo [2,1-10]. Facendo dei calcoli, appurò che una simile
congiunzione astrale si era verificata intorno all’epoca in
cui veniva tradizionalmente datata la nascita di Gesú. La
congiunzione di quel tempo si era verificata tre volte nello
stesso anno: a maggio, settembre e dicembre. Facile fu quindi
per lo scienziato stabilire il collegamento tra i due
avvenimenti astrali, il primo di gran lungo piú unico di
quello da lui osservato.
La rilevazione del matematico astronomo venne presto
dimenticata, anche perché mancava di riscontri oggettivi
verificabili, data la sua eccezionalità. Fu però riproposta,
e con evidenza, da un archeologo tedesco, Paul Schnabel, che
aveva decifrato una tavoletta d’argilla con caratteri
cuneiformi ritrovata nel 1925 durante gli scavi degli archivi
del Tempio del Sole a Sippar, città dell’antica Mesopotamia
dove sorgeva una famosa scuola di astrologia. La tavoletta,
ora al Museo di Berlino, riferiva appunto della straordinaria
triplice congiunzione dei due pianeti Giove e Saturno nella
Costellazione dei Pesci, avvenimento che annunciava senza
dubbio la nascita di una grande figura regale, sacerdotale e
messianica nella terra di Palestina, come già vaticinato dai
profeti di Ur e dagli astrologi babilonesi. Il tragitto della
carovana dei Re Magi dovette snodarsi all’incirca lungo la
cosiddetta Via della Seta, che dal Mediterraneo attraversava
la terra dei Sumeri, la Persia e la Bactriana, valicava il
Pamir, toccava Samarcanda raggiungendo infine il Catai,
misterioso e remoto. Ora quel percorso fascinoso è diventato
Via del petrolio, e la illuminano i tristi bagliori dei
conflitti senza fine per assicurarsi il possesso dei pozzi,
degli oleodotti e dei porti di rifornimento. In quel tempo
però – ci riferiamo all’Anno Zero della nostra epoca – nelle regioni che andavano dall’India al Mediterraneo, il
petrolio, affiorante in superficie da condotti geotermici in
rigurgiti spontanei effusivi, era in forma di bitume oleoso,e
veniva utilizzato per illuminare i tracciati delle carovaniere
in prossimità delle città di argilla e malta affogate nella
sabbia, con i caravanserragli concitati di mercanti avidi,
sospettosi, stanchi, promiscui alle bestie da soma e da
cavalcatura. Marco Polo ne dà una suggestiva descrizione nel
suo Milione, attribuendo a quelle fiamme inesauribili
un che di ambiguamente misterioso: aliti ctoni, forze
demoniache in azione, vampate annuncianti bibliche catastrofi.
Quei magici fuochi erano ancora visibili dagli aerei in rotta
per l’Oriente fino a tempi recenti, fin quando cioè le
operazioni belliche quasi ininterrotte che hanno flagellato la
regione mediorientale non li hanno confusi alle parabole
incandescenti di missili e obici, agli incendi seguiti ai
bombardamenti a tappeto, soffocandoli sotto coltri di polvere
e fumo. Come le stelle, anch’esse annullate, cancellate con
un colpo di spugna dai cieli notturni tra i piú fascinosi
della terra: diamanti incastonati in un parterre di
lapislazzuli, le notti delle mille e una notte, odorose di
spezie e vibranti di arcani sortilegi.
- In una
notte cosí, nell’Anno Zero della nostra èra, che qualcuno
definisce non appropriatamente volgare, una stella inedita,
mai veduta prima, emise un brillare sconosciuto agli occhi
abituati a scandagliare i quadranti celesti dall’alto dei
mantar persiani e delle ziqqurat mesopotamiche. Un astro che
confermava profezie remote nel tempo che parlavano di un
evento portentoso, annunciando la nascita di un Messia ad
Occidente. E lí si dirigeva quel grumo astrale dal palpitante
strascico iridescente. In uno di quei serragli animati di
caotica umanità avventurosa e di animali servizievoli, in una
notte di quel tempo fatale, si fermarono a riposare i tre
sacerdoti maghi, che traevano dalle stelle direttive di vita,
materia di pensiero e di fede. Si avverava la profezia di
Balaam [Numeri 24-17] “Orietur Stella”: sarebbe
sorta una Stella dalla stirpe di Giacobbe, una luce che
avrebbe rischiarato il mondo e rinnovato le epoche. Per quell’essere
potente e sacro, il rampollo divino in carne umana, l’immortale
che avrebbe reso imperitura la sorte degli uomini
affrancandoli dalla colpa originale, recavano oro, incenso e
mirra: potestà incorruttibile sul tempo e la materia,
divinità palesata agli uomini, promessa d’immortalità. La
filosofia greca aveva portato gli uomini alla negazione del
divino: l’essere cogitante credeva soltanto in ciò che
poteva vedere, calcolare e riprodurre dalla e con la materia.
Altro non vi era se non il vuoto, l’annichilimento, dopo la
fine dell’esistenza fisica. Ma una parte dell’umanità, i“poveri
di spirito”, gli umili, i credenti, non avevano perduto la
speranza di sublimazione. Attraverso la fede, essi si
ricollegavano all’ultraterreno, interpretavano simboli,
segni e sogni, attendevano oscuramente un redentore, qualcuno
che venisse a ripristinare l’armonia primigenia, a rimettere
i peccati, a guarire i mali, scendere alle Madri, sanare l’imo
della Terra, riscattarla e purificarla. Sciogliere i lacci
dell’Averno pagano, liberare le anime dei giusti, esaltarle
nell’Empireo dei santi. Questo videro i tre Re Magi nella
Parusia celeste: finalmente uniti Sole e Luna, Iside e
Osiride, Apollo e Diana, Madre e Figlio. La promessa si
compiva e nulla di quanto era stato nei culti, nei riti e nei
Misteri sarebbe rimasto uguale. Era il principio di un’èra
nuova e l’uomo prendeva il folgorante cammino verso la sua
realizzazione divina, garante il Bambino che sorrideva
benedicente dal fondo di una grotta di pastori. Dopo aver
adorato il Re dei Re, i tre Magi, avvertiti in sogno dagli
Angeli, evitarono il regno di Erode, facendo ritorno in
Mesopotamia. Sulle loro vicende esistenziali successive
fiorirono molte leggende. Una di queste narra che,
convertitisi, diffusero il Verbo del Cristo tra i pagani.
Ancor piú avventurosa è la storia che riguarda il destino
dei loro corpi mummificati. Vennero donati quali sacre
reliquie a Costantino Imperatore. Sua madre, Sant’Elena – alla quale era attribuita anche “l’invenzione della Croce”,
ovvero il ritrovamento del legno del supplizio di Cristo – li
consegnò a Eustorgio, cappellano e vicario dell’Imperatore,
perché li portasse a Milano. Era l’anno 313. Il Santo
fondò la Basilica che porta il suo nome e vi depose le sante
spoglie. Passarono molti anni, anzi secoli. Nel 1162 arrivò a
Milano il Barbarossa. Avido come tanti di reliquie, che in
quell’epoca venivano tesaurizzate e commercializzate al pari
dell’oro e delle gemme piú rare, l’imperatore tedesco s’impossessò,
insieme alle reliquie dei santi Gervasio e Protasio, Nobore e
Felice, anche delle mummie dei tre Magi, e trasferí tutto in
Germania, facendole sistemare in varie chiese. Ai tre Re che
avevano goduto del privilegio di essere stati al cospetto del
Redentore, toccò la cattedrale di Santo Stefano a Colonia, a
pochi passi dal fiume Reno.
- Ultimamente
in Italia l’annosa competizione tra il nordico albero di
Natale e il meridionale presepe sembra essersi risolta con una
leggera predominanza di quest’ultima tradizione natalizia, o
almeno si è attestata su una condizione di parità. Merito
forse del collezionismo sofisticato, che ha inserito fra i
suoi oggetti di scelta anche i pastori di varia provenienza e
fattura, in particolare quelli napoletani e provenzali. E
insieme alle figurine, che toccano ormai quotazioni d’alta
stima, anche i componenti le “scene” dell’impianto
presepiale, dalle pecore alle pagnotte del fornaio, dal
castello di Erode al mulino con la ruota che gira azionata da
una vivace cascatella a motore elettronico. Sarà una moda, un
esibire facoltà economiche e culturali, gusti estetici,
questa ritrovata passione per l’ambiente in cui duemila anni
fa si verificò uno degli eventi piú portentosi della storia
umana. Che importa il mezzo materiale? Tutto serve alla causa
di spiritualizzazione dell’uomo. Reliquie e pastori possono
venir contestati quali stampelle di una fede barcollante. Ma l’uomo
in definitiva non è altro che un pastore addetto a
sorvegliare l’inquieto gregge della civiltà, per condurlo
dove Dio vuole. Capita che perda il filo lungo i duri giorni
della vita, e che dimentichi lo scopo del suo compito. Allora
attende, spera, prega, che gli venga dato un segno, un
annuncio.
- Come quei
pastori di Betlemme, anche noi attendiamo al freddo dello
stazzo, lungo le carovaniere insicure, che vengano Angeli a
confortare la veglia, e sulla cima delle montagne lontane la
prodigiosa stella. L’ipostasi divina è sempre lí, nell’abbraccio
protettivo della Madre. Scruta la notte con occhi adamantini.
Ogni anno la nostra dura vita si fa presepe, da cui sono
banditi pena e odio. Per quel sorriso benedicente, per quella
viva luce. Anche il Dio incarnato spera. È in attesa che i
nostri passi malcerti ci conducano alla sua misericordia, al
suo Amore senza fine.
Leonida I. Elliot
Jean Bourdichon «Annuncio ai pastori»
miniatura dal
manoscritto Les Grandes
Heures d’Anne de Bretagne (1500-1508)
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