Ritualità

Prima che il latte finisse coinvolto, di recente, in uno dei piú eclatanti collassi finanziari della storia economica italiana e mondiale, contribuendo in tal modo a impoverire schiere di incauti possessori di bond, esso era simbolo di abbondanza, fertilità e buon augurio. Nella Terra Promessa di Canaan gli Ebrei immaginarono di veder scorrere ruscelli di latte e miele, e prima ancora la tradizione vedica raccontava, nei poemi epici Maha Bharata e Ramayana, e nei Purana di ispirazione visnuita, come gli Dei avessero conquistato il liquore dell’immortalità (amrita) mediante il Frullamento dell’Oceano di Latte ottenuto utilizzando, alla stregua di un gigantesco frullino, il monte Mandara, sollevato da Vishnu nella sua manifestazione di Kurma, la Tartaruga, il secondo dei suoi dieci avatar.
Ed è ancora simbolo di vita, il latte, presso gli Egizi, che mostrano nei decori tombali la dea Iside mentre allatta il Faraone, assimilandolo alla condizione divina e quindi conferendo immortalità alla sua anima regale. La mitologia greca racconta come dal seno di Giunone che allatta Ercole si spargessero gocce di latte che andarono a formare la Via Lattea e le altre galassie.
Cosí Rudolf Steiner spiegava come in tempi primordiali l’uomo si nutrisse esclusivamente di latte: «Un tempo gli uomini potevano accogliere le sostanze nutritive dall’ambiente immediatamente circostante, cosí come oggi i polmoni accolgono l’aria. L’uomo era legato alla natura intorno a lui per mezzo di filamenti assorbenti, similmente all’odierno embrione umano che viene alimentato nel corpo della madre. Era questa l’antica forma di alimentazione presente sulla terra. Se ne ritrova un residuo nell’allattamento dei mammiferi, e il latte è simile all’alimento ricevuto dall’uomo nell’epoca pre-lemurica: è l’antico alimento divino, la prima forma di nutrizione presente sulla terra. A quel tempo la natura della terra era costituita in modo che fosse possibile assorbire questo alimento ovunque. Il latte dunque è un prodotto che deriva dalla prima forma di alimentazione umana. Quando l’uomo nel suo aspetto fisico era ancora vicino all’elemento divino, assorbiva il latte dall’ambiente circostante. …Le energie lunari presenti sulla terra rendevano possibile ciò, esse erano simili ad un sangue comune a tutta la terra. …L’occultista dà al latte la denominazione di alimento lunare. Figli della luna sono coloro i quali si nutrono di latte; fu infatti la luna a far maturare tale alimento. …Se ci volgiamo ai tempi piú antichi, non ritroviamo altro alimento se non il latte che l’uomo ricava dagli animali viventi. L’alimentazione originaria è a base di latte, ed essa lo è ancora oggi per le prime settimane di vita»(1).
L’offerta rituale con libagioni di latte era tipica dei culti di Attis e Mitra, avendo in questi casi un significato essenzialmente sacramentale. È nelle liturgie mitraiche che troviamo il latte unito al sangue della vittima sacrificale, di cui venivano irrorati gli adepti. Il latte era simbolo lunare, femminile, il sangue invece emblema solare, maschile. Valori che la simbologia alchemica capovolge, per assegnare al latte la valenza del seme procreante che feconda il sangue del mestruo. Sul piano allegorico rappresentano le due forze – sulphur e mercurius – che, sapientemente manipolate, sono in grado di creare l’oro alchemico, la suprema conoscenza iniziatica.
Nobili torrenti di speciale grazia
di bianco latte e rosso sangue
che puoi riconoscere come buoni…
Che duplice colpo quando, ben cotti,
molto pesante oro ti daranno!…
Cosí scriveva Stolzius nel suo Giardinetto chimico, un poemetto alchemico del 1624.
Scintilla divina nell’essere umano, veicolo di forze magiche, linfa pullulante dal nucleo profondo della vita, il sangue «è l’espressione dell’Io. Principio fisico, corpo eterico, corpo astrale sono l’“alto”, sangue e Io sono il “mezzo”, corpo fisico, sistema vitale, sistema nervoso, sono il “basso”. Nel sangue si esprime infatti l’Io. … Bellezza e verità domineranno l’uomo solo se domineranno il suo sangue»(2), ma perché il sangue dia esito strutturale e formale nella realtà materica, affinché dal suo dinamico tumulto origini la vita carnale, esso ha bisogno della sinergia con l’elemento ricettivo del latte. Altro mistero questo linfatico, la cui scaturigine è data da un cooperare ignoto di fattori metabolici attivati dagli impulsi animici, dai caratteri ereditari, dalla capacità di ogni individualità di carpire alle superiori essenze dell’Io le forze in grado di plasmare la natura fisica.
Sangue e latte erano simboli di forze trascendenti anche presso i Romani. Ciò è molto evidente nella particolare celebrazione dei Lupercali. La scena si svolgeva ai piedi del Palatino, in una grotta, appunto il Lupercale, dove la tradizione aveva voluto porre la tana della Lupa che aveva allattato i gemelli fondatori dell’Urbe, Romolo e Remo. La celebrazione avveniva alle Idi di febbraio, il mese che faceva da cerniera tra l’anno trascorso, finito con la frenesia dei Saturnali, e quello che sarebbe iniziato con la gemmazione di marzo. Ecco quindi il significato purificatorio del mese, essendo i “Februa” veri e propri rituali di santificazione di luoghi e persone. Il rex sacrorum addetto alla cerimonia imbeveva alcune bende di lana nel latte e nel sangue della vittima sacrificale. Ne aspergeva quindi la fronte di due adolescenti tratti a sorte in precedenza. I due ragazzi erano completamente nudi, se non per un essenziale perizoma. Sangue e latte colavano abbondanti, e i due – cosí prescriveva la liturgia risalente ai tempi arcaici di Evandro, il re protolaziale che aveva iniziato la colonizzazione – dovevano ridere e cosí, sempre atteggiati al riso aperto e gioviale, scherzoso, si davano a correre fuori dell’antro sacro, lungo il Pomerio, la linea di confine tracciata da Romolo intorno al Palatino e che delimitava l’Urbe quadrata. Percorrevano la Via Sacra, fiancheggiata da una folla strabocchevole e festante. Con le strisce di stoffa intrise di latte e sangue, i due fanciulli fustigavano gli spettatori piú vicini alla loro traiettoria. Le donne maritate erano quelle che si offrivano con maggiore slancio e azzardo ai colpi, cercando di essere macchiate dalle bende inzuppate di siero e plasma. Se ciò avveniva, si consideravano particolarmente fortunate: il loro grembo sarebbe stato fecondo per una futura prole sana, forte e devota agli Dei. Si trattava pur sempre di un gioco, “ludicrum”, ben augurante e tutelato dal crisma del celebrante. I Luperci, tali erano chiamati i due giovani, correvano “hilaritate iocantes”, con ilarità scherzosa, ed era un privilegio semplicemente toccarli, essere da loro colpiti o anche solo sfiorati.
Ai Lupercali del 44 a.C. Marco Antonio offrí a Giulio Cesare la corona regale per ben tre volte, ottenendone altrettanti rifiuti, chi dice sdegnati chi, come insinuava Cassio nella tragedia di Shakespeare, con molta riluttanza e fatica. Benché egli stesso membro di una Sodalitas di Luperci, quella Iuliana, Marco Antonio, piú familiare con le strategie militari, di Palazzo e di alcova che con le ottemperanze rituali, ignorava forse che i Lupercali erano contraddistinti, nell’antica epigrafia calendariale, dalla sigla NP indicante un evento nefastus publicus, e quindi, per la sua solennità, rigorosamente interdetto a ogni atto che non fosse sacro e devozionale. Il suo gesto era quindi essenzialmente politico, oltre che profano, e non fu per nulla gradito né al popolo né agli indecisi come Bruto che, da quel momento, si rese disponibile a integrare il gruppo dei congiurati, dai quali un mese piú tardi, alle Idi di marzo, sarebbe stato compiuto uno dei piú illustri omicidi della storia in assoluto.
Ma già Roma non era piú la stessa. In ogni caso non piú quella pastorale, agreste, votata al culto degli Dèi boschivi che venerava Fauno e Luperco, Diana Trivia e Saturno, e ascoltava la ninfa Carmenta vaticinare cantando. Schiavitù, divisioni sociali, guerre civili, materialismo epicureo avevano portato la naturale disposizione animica del popolo romano al sacro e al misterico, se non proprio verso il determinismo agnostico predicato da Lucrezio, filosofia per la verità mai del tutto accettata dai Romani, verso la pratica di una tiepida religiosità formale, molto piú simile allo spirito giuridico che ispirava le istituzioni pubbliche della società quirite. Si giunse cosí a investire l’imperatore di poteri soprannaturali, accordando alla sua figura istituzionale attribuzioni e funzioni proprie alle massime divinità olimpiche.
Si forzava in tal modo l’ipostasi del divino nell’umano, quasi avvertendone l’esigenza a livello inconscio, e presagendo al contempo, in obbedienza a una fatale ispirazione, un uguale evento che i tempi andavano maturando. Di lí a pochi anni infatti, il Cristo con il suo sacrificio di incarnazione nella creatura mortale, sarebbe venuto a sostituire agli antichi Misteri il patto di nuova alleanza tra gli uomini e la divinità.
Incapaci di evolvere e adeguarsi alla rivelazione cristica, al pari di altre cerimonie appartenute al passato sistema religioso, i Lupercali tradirono i valori esoterici che li avevano connotati, trasformandosi in evento profano e riducendo alla lettera il loro originale significato simbolico. Latte e sangue vollero pertanto indicare soltanto animale fecondità, ferinità lupesca, liberazione degli istinti. La giocosa allegrezza dei riti di purificazione divenne cosí sfrenata disinibizione e smodata esuberanza. Dalla Via Sacra la folla che aveva osannato i fanciulli Luperci si trasferì nella Via Lata, divenuta poi il Corso. Sposando i Saturnali ai Lupercali nella loro forma degradata inventò il Carnevale, illudendosi cosí di esorcizzare, folleggiando almeno una volta l’anno (semel in anno licet insanire) le prevaricazioni e costrizioni del privato e del pubblico, eliminando le differenze sociali, gli abusi e i soprusi dell’autorità, i torti e i tradimenti dei propri simili abituali e casuali. Insomma, una catarsi violenta che, nulla togliendo alle miserie del vivere e nulla aggiungendo alle speranze, tra confetti, coriandoli, maschere, moccoletti e carri festonati, trasportava, e ancora trasporta, uomini e donne presi da logorante frenesia e recidivi nel negarsi al sublime.

Ovidio Tufelli

(1)R. Steiner, Alimentazione e coscienza, Conf. Berlino 4.XI.1905, Basaia Editore, Roma 1989
(2)R. Steiner, Il sangue è un succo molto peculiare, O.O. n° 55, Editrice Antroposofica, Milano 1989

Immagine: Tintoretto «Origini della Via Lattea» Giunone allatta Ercole, 1575 circa, Londra, National Gallery