- Nel
mese di gennaio del 1889, il Nordamerica fu interessato da
un’eclissi totale di Sole. Ai primi accenni di oscuramento
dell’astro, Jack Wilson cadde in un sonno profondo. Restò
per tre giorni in quella che sembrava una forma di
catalessi, o morte apparente. Quando si risvegliò,
raccontò di aver compiuto un viaggio nel regno
ultraterreno, in una dimensione dove aveva incontrato
entità superiori che lo avevano scortato fino al trono dell’Essere
Supremo. Questi lo aveva incaricato di svolgere un’importante
missione tra la sua gente. Jack Wilson era in realtà un
indiano della tribú Delaware, insediata nelle pianure
nordoccidentali americane. Da pellerossa aveva portato il
nome di Wovoka, “il tagliatore”, cambiato allorché il
pastore presbiteriano David Wilson lo aveva adottato.
- Nel
corso del suo lungo viaggio nel mondo iperuranio, Wovoka, o
Jack, ricevette dall’Essere Supremo, oltre a potenti
facoltà taumaturgiche e di veggenza, un dono particolare:
una danza sacra da diffondere tra le popolazioni indiane.
Nacque in tal modo la Danza degli Spiriti, che costituí il
credo e la dottrina delle varie tribú di amerindi che
vivevano ancora liberi nelle Pianure dell’Ovest. Una in
particolare si distinse nell’accettare la rivelazione
introdotta da Jack Wilson: quella di Sioux. Il loro capo,
Toro Seduto, ovvero Tatanka Yotanka, divenne una specie di
sacerdote del culto di Wovoka, e fu lui a guidare la lotta
degli indiani delle praterie contro i bianchi dai lunghi
coltelli. Tatanka, che era riuscito a sconfiggere Custer a
Little Big Horn nel 1876, dovette capitolare a Wounded Knee
nel 1890, dove incontrò la morte. I residui manipoli
indiani si arresero poi al generale Miles il 16 gennaio del
1891, pur conservando il legato ideale dei due profeti della
danza sacra.
- Il
contenuto escatologico della Danza degli Spiriti tendeva a
ripristinare nelle tribú pellirosse la consapevolezza del
valore sacrale della loro esistenza e il rapporto con gli
dèi e con gli antenati. Se ben eseguita, la danza aveva il
potere di evocarne gli spiriti, che sarebbero cosí discesi
a sostenerli nelle battaglie contro i soldati blu. La
coreografia era guidata da uno sciamano addetto ai rituali
collettivi. L’uomo di religione si poneva al centro della
trenodia danzante, reggendo in mano una piuma d’aquila o
di condor, con la testa fasciata con una benda bianca. I
danzatori erano anch’essi coperti da tuniche immacolate –
le Vesti degli Spiriti – sulle quali erano impresse
figurazioni di animali, uccelli e vari altri simboli sacri e
misterici come il Sole, la Luna e le Pleiadi.
- La
piuma d’aquila, o di condor, si rapportava al culto
solare, alla simbologia del fuoco originario da cui la vita
era nata per volontà dello Spirito del Tuono; essendo la
sonorità assimilata alla luce, esibendo un segno solare il
celebrante auspicava l’intervento dell’Essere Supremo
per fugare le tenebre e le minacce del male contro la
comunità.
- I
molti film hollywoodiani ci hanno consegnato le immagini,
non certo benevole, anzi per lo piú deliberatamente
denigratorie, degli indiani pellirosse, ora di questa ora di
quella etnia o comunità tribale, impegnati ad eseguire
danze scomposte al rullare o percuotere ossessivo dei
tamburi, emettendo versi e ululati al limite dell’umano.
- Forse
a causa delle condizioni di estrema durezza in cui si era
svolta la loro epopea di conquista, mancava ai pionieri
americani, tutti oriundi del Vecchio Continente, la
capacità di accostarsi ai popoli “da scoprire e
colonizzare”, con la fraterna cristiana umiltà e un sano
liberalismo intellettuale che il loro retaggio culturale,
etico e religioso avrebbe dovuto consentire. Se l’avessero
fatto, avrebbero potuto leggere nella Danza degli Spiriti di
Jack Wovoka Wilson un giustificato e onorevole anelito di
tutto un popolo, quello dei pellirosse, alla conservazione
della propria identità etnica e culturale, oltre,
beninteso, al giusto mantenimento del loro patrimonio
territoriale. E avrebbero altresí potuto cogliere nella
danza non semplicemente una primitiva espressione di
sensazioni elementari, bensí una vera e propria liturgia
collettiva dalle implicazioni magico-misteriche. Oppure,
come nel caso di altre forme di danza, ad esempio quella “della
pioggia” o quella “del fuoco”, con finalità
propiziatorie.

- In
ogni caso il rito coreutico, accompagnato da sonorità
appropriate, induceva i praticanti a un’intima comunione
con la natura e le sue forze, quasi che uomini e cosmici
elementi formassero un tutt’uno con l’essenza del Grande
Spirito evocata, la cadenza motoria dei passi intonata al
suo vasto respiro.
- Avrebbero
forse in tal modo colto anche la primigenia necessità umana
dell’estasi, vale a dire il bisogno archetipico dell’uomo
di sciogliere i legami che lo tengono avvinto ai sensi e
alla materia, consentendogli di accedere alla sfera
soprannaturale nella quale incontrare la divinità,
variamente connotata e sostanziata a seconda del credo e
della dottrina professati. Provocare il distacco, scavare il
vuoto, alleviare il peso materico fino ad annullarlo,
liberarsi di ogni oggetto fisico e mentale, per offrire al
Divino una pagina bianca, un marmo levigato, un grumo
vergine di argilla, affinché Esso, comunque venga
denominato – Essere Supremo, Brahma, Dio, Grande Spirito –
con mano sublime vi scriva una sempre nuova storia, vi
incida i segni d’una perenne metamorfosi, i tratti che
rivelano l’immagine di Sé, gradatamente identificantesi
con quella dell’uomo divinizzato. Ovverosia l’unione
dell’uomo con l’Assoluto, la Yab-Yum tantrica, il
connubio mistico della suprema ascesi.
- La
tradizione vedica assegna a Shiva due appellativi: “Maha
Yogi”, il grande yogin, e “Nataraja”, il Signore della
Danza, ponendo in stretto rapporto cioè disciplina yoga ed
espressione coreutica, poiché entrambe mirano, attraverso
la padronanza totale dei sensi, l’armonizzazione delle
attività mentali e delle energie fisiche, allo
svincolamento liberatorio, all’annullamento di ogni
dualismo, alla trance estatica, in un totale abbandono alla
corrente del divenire. E non casualmente il dio danzante è
avvolto da un cerchio di fuoco e regge nella mano destra il damaru,
il doppio tamburo a forma di clessidra, che scandisce il
passare del tempo e il ritmo segreto del cosmo, in cadenza
reiterata, simile a quella ricavata dai tamburi con i quali
gli Amerindi ossessivamente invocavano l’intervento divino
per ogni loro evenienza esistenziale.
- Ritroviamo
la danza, maieutico veicolo di trascendenza, nella ridda
multicolore dei Dervishi del sufismo islamico. Unita a un
tipo di musica dalle valenze ultrasoniche, il vorticare
rapido e incessante dovrebbe portare il praticante all’estasi
(dhikr) e quindi alla finale unione mistica con Allah
(tauhid). E fu sempre la danza, in tempi piú remoti,
a procurare a menadi e baccanti quella esaltazione capace di
scavare il vuoto psichico favorendo l’unione mistica col
dio. Fiaccole e strumenti a percussione di cui si munivano i
partecipanti ai cortei coribantici in onore di Dioniso,
riproponevano echi del suono che risveglia la vita e del
fuoco che purifica rinnovando. Ballando al ritmo veloce del
ditirambo e lanciando il grido «Evohè», gli adepti
venivano alla fine posseduti dal dio, diventando “entusiasti”
(enthusiasmein), cioè invasati.
- Che
la danza abbia da sempre rappresentato presso le varie
culture un mezzo liberatorio e uno strumento di liturgia
salvifica, lo prova un rituale praticato fino a tempi
recenti dai Tupi Guarani dell’Uruguay. Questo popolo,
custode di antiche dottrine millenaristiche, era in attesa
della catastrofe universale per fuoco. In una specie di ecpyrosis
neopitagorica, una grande fiamma purificatrice avrebbe
consumato la realtà cosmica, incluso l’uomo. Per
sottrarsi a questa nemesi apocalittica, i Tupi Guarani
eseguivano la “Danza del Mare” in una grande casa all’uopo
costruita in riva all’oceano. Era un edificio sacro eretto
seguendo i canoni stabiliti dal dio Nanderuvuku, “il
nostro Grande Padre”, in una epoca e in un luogo “senza
male”. La danza incessante, eseguita secondo precisi
movimenti e figurazioni, in maniera progressivamente piú
rapida e vorticosa, avrebbe creato un campo di forze
magnetiche all’interno dell’edificio, fino a farlo
levitare nello spazio e raggiungere cosí, in balía delle
onde eteree, la “terra senza male” di Nanderuvuku.
- Il
rapimento estatico, ottenuto anche attraverso la danza,
rappresenta lo slancio dell’umano a ricongiungersi con il
Divino attraverso l’attivazione della particella
spirituale che arde al nucleo della identità animica di
ciascun uomo. Oltre alle forme antiche già specificate,
essa si concretizza nell’identificazione con l’Uno di
Plotino e l’annullarsi in Cristo dei mistici cristiani,
come Caterina da Siena, Teresa d’Avila, Benedetto,
Bernardo di Chiaravalle e Francesco d’Assisi.
- Per
quanto è alta la posta in gioco per chi tenta la via della
partecipazione al Divino, tanto è grave il rischio che nel
vuoto creato dall’ascesi e dalla contemplazione s’insinuino
forze ed entità che possano viziare, quando non
capovolgere, l’esperienza estatica, facendola scivolare
verso forme di possessione messe in atto dagli Ostacolatori.
Ecco allora l’omofagia delle baccanti, la necrofilia dei
riti shivaiti (con la frequentazione di luoghi di
cremazione, l’esibizione di collane di ossa umane, la
consumazione di pasti e bevande in ciotole ricavate da
teschi), o come alcune tribú pellirosse che sacrificavano
vittime umane alla Dea del Mattino. E sino ad arrivare all’annientamento
dell’Io (fana) temuto dai praticanti sufi qualora
il procedimento per l’acquisizione dell’estasi suprema
non seguisse i dettami (tarika) voluti dalla prassi
stabilita a Konya, in Turchia, dal poeta mistico Din Rumi
nel XIII secolo.
- E
quando non bastavano le pratiche di disciplina ascetica,
ecco le droghe: il cactus peyote per gli Aztechi, passato
poi nel tempo alle tribú indiane del Nord (peyotismo), il
betel dei fedeli di Shiva, l’edera masticata dalle
baccanti, il vino dei sufi. E oggi, per lo sballo estatico
dei giovani (e meno giovani), tutta una serie variegata di
sostanze in grado di “far uscire” – tale il
significato di estasi – dall’Io tante identità
desiderose di trascendenza ma incapaci di sviluppare le
necessarie forze di autocoscienza elaborando un’autonoma road
map con la quale orientarsi lungo le vie di una giusta
ascesi.
- E
non sono esenti dal ricorso agli allucinogeni, personalità
intellettualmente mature come artisti e pensatori, che per
giungere alle sublimazioni ispirative e speculative
ricorrono a sofisticate sostanze stupefacenti – ormai
lontane dalla rudimentalità dell’assenzio dei poeti maudit
francesi – capaci di indurre il transfert verso luoghi
ignoti popolati da mostri, dai quali ritornano ogni volta
con una diminuita identità animico-spirituale.
- La
Via è unica e non ammette scorciatoie o deviazioni di
sorta. Segue l’itinerario tracciato dai Maestri
michaeliti, il solo che protegga l’Io desideroso di
realizzarsi nel divino, vale a dire trovare la propria vera
essenza: fiamma pilota pronta ad accendere l’umana realtà
interiore e fonderla con quella che illumina i Giardini di
Luce promessi da Mani ai seguaci della Verità.