Sociologia

Chi invoca la pena di morte, si prefigge due risultati: da una parte desidera pareggiare un debito di giustizia rimasto in sospeso, e dall’altra, eliminando il reo del delitto, garantirsi che questi non reiteri il crimine a danno della società, e quindi utilitaristicamente anche di chi invoca l’estrema punizione.
La realtà è ben diversa. Innanzitutto l’eliminazione di una vita umana non pareggia un conto, semmai aggiunge una perdita all’altra. E inoltre, e soprattutto, non raggiunge lo scopo di creare un deterrente esemplare per chi volesse commettere lo stesso reato in seguito. La cronaca ci dice che al mostro di Boston seguono quelli di Rostov e di Marcinelle. La linea rossa del delitto non viene spezzata dal timore che un assassino ha di pagare con un ergastolo, o peggio con un’esecuzione capitale, la propria criminosa condotta. Galera e forca spaventano la gente per bene e timorata di Dio, non certo il pirata o il sadomasochista, i quali mettono in conto anche la propria rovina pur di poter concludere un’azione delittuosa che procuri i vantaggi materiali di un bottino o il raggiungimento di un piacere depravato a soddisfazione di una patologica devianza mentale e psichica.
Ma c’è una ulteriore e piú sottile motivazione da rilevare: l’esecuzione di un colpevole, la sua cancellazione fisica dal consesso sociale, vogliono in qualche modo, velato, sottinteso e non dichiarato, scindere l’entità umana di chi condanna e commina la punizione esiziale da quella del condannato, affermando cioè al cospetto della storia che nulla collega, sia in termini morali sia in termini civili, il soggetto comminante la pena all’oggetto vittima che la subisce. Nessun legame di affinità, correità o connivenza con il colpevole da segregare o con il condannato da giustiziare: entrambi sono mostri che si sono fatti da sé, sono nati da una sorta di oscurità animica, da torbide, ignote e inqualificabili sostanze ideali e sentimentali, specifiche di quel tipo umano. Niente a che vedere e spartire con l’adamantina natura e coscienza di chi si erge a giudice e carnefice. La morte stessa del soggetto criminale attesta e certifica tale principio: una dicotomia totale e irreversibile dal contesto sociale dal quale il reo stesso si è alienato perché incapace di assimilarvisi accettandone le regole. Glielo ha impedito la costituzione non solo fisiologica, ma anche intellettiva, morale e spirituale. Eliminandolo, si vuole risolvere l’incongrua promiscuità, l’avulsa individualità ribelle e spuria. Peraltro, s’intende, come si potrebbe recuperare il reo a una convivenza virtuosa col resto di una comunità che ha subíto un danno irreparabile e atroce dalla sua azione delittuosa?
È proprio questo voler prendere le distanze, distinguersi moralmente e fisiologicamente da un soggetto criminale, che rende l’azione punitiva – prigione o pena di morte – in qualche modo egoistica e di comodo, quasi autoassolutoria. Eh sí, perché, in definitiva, il reo è un prodotto della società che lo condanna e lo elimina. Magari ciò non risulta dai dati del momento, forse la sua inclinazione al male e alla trasgressione parte da lontananze ancestrali, si annida nella rete del corredo cromosomico in forma latente, ha raccolto lungo la linea ereditaria impulsi animici, gravami karmici in grado di viziare la tenuta cerebrale e neurologica, fino a diventare carattere peculiare. E come non collegare quell’apparato fisiologico, animico e neurotico all’elica molecolare di tutta l’umanità, che si mescola, s’interconnette, si condiziona per osmosi? Come poter affermare in tutta onestà che il Minotauro non sia in poca o grande misura il risultato di tante, innumeri, innominate cadute fisiche e morali di tutta l’umanità dai primordi al presente? Come non sentirsi in qualche modo correi, sodali, autori magari inconsci di un prodotto che sentí la brutalità degli istinti propri dell’uomo nella sua universale tipicità e identità?
Di fronte all’uomo terminale di un atavico processo degenerativo psicosomatico, non possiamo tirarci fuori da una chiamata di correo: siamo persone informate dei fatti, testimoni renitenti e reticenti della scaturigine primeva del male, di cui il condannato è portatore. Giustiziandolo o recludendolo a vita, noi mutiliamo e segreghiamo noi stessi. Non sciogliamo alcun nodo. L’uomo che sbaglia e cade non è un’entità semplice, ma un enigma gordiano; non lo si può tagliare per superficialità o impazienza. Lo si deve semmai capire, sceverando magari il grumo di complicazioni storiche che lo hanno plasmato e che vanno annotate a sua discarica come alibi e attenuanti. Dobbiamo, e non solo cristianamente ma anche pragmaticamente, assumere su di noi il rischio vitale della reiterazione, che è sí l’estremo sacrificio gratuito cui ci sottoponiamo, ma costituisce la chance che la natura accorda a ogni suo componente affinché evolva attraverso la riparazione degli errori, avendone capito la non convenienza. Ecco, bisogna convincere, illuminare, non precipitare nel buio definitivo chi ha necessità di luce.
Questa preziosità insostituibile della persona umana, da cui scaturisce l’esigenza di conservarla al meglio della dignità di ruoli e funzioni, e di recuperarla se fallisce, ci porta ad aprire il discorso delle risorse umane. Termine questo che oggi viene usato in senso rovesciato da chi gestisce il potere economico e politico, vale a dire che sta ad indicare l’individuo inteso come risorsa da adoperare, vuoi per fini militari vuoi, ma piú di recente, quale forza di lavoro da impiegare secondo le strategie di massimo utilizzo elaborate dai guru del budget, del target, del low cost, del turn-over, del co.co.co, del multifunzionale, in uno spirito globale di usa-e-getta, o al meglio di usa-e-ricicla. E tutto ciò non in una lungimirante, liberistica previsione di benessere erga omnes, di miglioramenti duraturi e a largo raggio, ma piú egoisticamente per accumulare colossali e tentacolari fortune, personali o familiari.
La legge del mercato, con la sua forte connotazione di competitività e al tempo stesso di erratica precarietà, ha portato le pratiche capitalistiche a invischiarsi sempre piú nella palude dell’aggiotaggio e della cinica quanto ottusa speculazione monetaria che ha finito col danneggiare, dopo i risparmiatori, i consumatori e i lavoratori dipendenti, gli stessi operatori e manager, che hanno sostituito l’intraprendenza spregiudicata ma positiva con una furbizia di basso profilo e di ben miopi visioni socioeconomiche. I tristi frutti di tali procedure sono corruzione, protezionismo e sfiducia verso le forze produttive, e verso le istituzioni che riguardo a queste dovrebbero vigilare, controllare e, in caso, sanzionare.
L’etica deontologica che Platone riconosceva alla natura intrinseca dell’uomo e che lo porterebbe sempre e comunque a compiere il proprio dovere nel migliore e piú funzionale dei modi, è stata, come molti altri princípi basilari del decalogo morale, asservita al profitto a breve scadenza, alle pratiche speculative, al carpe diem dei giochi monetari e finanziari in cui politica ed economia celebrano fasti e alleanze comuni, a scapito delle garanzie per i risparmiatori o i semplici uomini della strada. Un umore di precarietà e di insicurezza serpeggia ormai nelle pieghe delle comunità a livello locale, nazionale e mondiale. La globalizzazione, oltre a trasferire da un continente all’altro la zanzara tigre e altre piaghe infestanti, ha diffuso e continua a farlo, a un ritmo che sembra incontenibile, la tabe dell’emigrazione di massa, collassando le economie già debilitate, erodendo, quando non sottoponendo a totale obliterazione, i patrimoni etnici e culturali, stravolgendo i costumi e allo stesso tempo inflazionando il tessuto sociale dei popoli riceventi i flussi migratori, creando di fatto processi ricattatori a danno delle forze di lavoro autoctone.
E tutto questo, perché a monte e alla radice di qualsivoglia progetto economico e politico dei governi e delle istituzioni risiede la scarsa o inesistente considerazione per l’entità sacrale della persona umana, vera e unica risorsa da rispettare e aiutare ad evolvere in senso civile, intellettuale e spirituale.
Questo è il mandato inderogabile assegnato ai governi del mondo. Poiché se un uomo fallisce o muore, non potremo chiederci “per chi suona la campana”. Il monito e l’avviso saranno per tutti noi. Detenzioni, pene capitali, divieti, sanzioni, punizioni e costrizioni, vale a dire il codice al posto del vangelo, ecco i segnali del nostro fallimento etico, filosofico, economico, teologico e politico. Abbiamo finito col non volerli mettere nel novero delle globali inadempienze della nostra civiltà, li rimuoviamo con eccessiva autoindulgenza. Eppure è qui il nodo da sciogliere, non da recidere in un raptus di insofferenza, o peggio di sacrilega vituperazione.
La vittoria finale sarà, se cosí vorremo, la redenzione e la sublimazione, dalla prima all’ultima creatura.

Leonida I. Elliot