Alchimia interiore

1. Devi cercare l’oro nel letame

Il conte di Treviso ha speso quasi tutta la sua vita nello studio dei codici dove gli antichi hanno raccolto la loro misteriosa sapienza. Gli scaffali della sua biblioteca rigurgitano di papiri, palinsesti e pergamene arrotolate. Ma ora è vecchio e i suoi occhi non vedono piú. Dinanzi a lui sta la notte. Pensa ad Alessandro Magno che, entrato nella profonda caverna di Hebron ed immerso nelle tenebre, vide scintillare improvvisamente su di una parete rocciosa una scritta fiammeggiante: «Per portare a compimento le tue imprese, sappi che devi mettere sotto ciò che sta sopra, e sopra ciò che sta sotto». Anche egli, conte di Treviso, nelle tenebre della sua cecità, vede qualcosa: è come una torcia che arde senza fumo, anzi, ora vede meglio: è come un Sole tutto d’oro che si leva lentamente sull’orizzonte.
Allora comprende che gli si appressa la morte. Fa chiamare a sé il nipotino; con la mano tremula e brancolante ne cerca la testa ricciuta.
«Bernardo – dice – l’oro è tutto. Devi cercare l’oro nel letame».
Dice e si spegne. Corre l’anno di grazia 1413. Bernardo ha appena sette anni, ma le parole dell’avo gli si imprimono nell’anima. A quattordici anni sa già a mente i magistrali testi alchemici di Sciafar l’Arabo e distilla nell’alambicco le foglie macerate, la carne putrefatta e gli escrementi di giumenta. La febbre dell’oro gli fa bruciare le vene di una passione irrefrenabile. Il laboratorio diventa il cielo delle sue rapide esaltazioni e l’inferno de’ suoi lugubri sconforti, quando le prove falliscono. Non lo lascia che per intraprendere lunghi viaggi in terre remote, quando apprende che qualche nuovo testo è venuto alla luce. Cosí consuma la sua vita e la sua sostanza. Diventa la favola del suo tempo e dei secoli che seguono. Egli è forse l’unico alchimista che occupi un grande posto nella storia. Eppure l’alchimia è tanto antica ed abbraccia millenni di storia. Le sue origini vengono fatte risalire fino a Ermete Trismegisto, il Tre Volte Grande figlio di Osiride e primo faraone di Egitto. E nonostante questo lungo corso di tempo, l’alchimia è sprofondata nelle tenebre dalle quali è sorta. Oggi viene considerata la piú stolta aberrazione in cui sia caduta l’umanità. Quando si vuol dar un’idea della sua stupidità si cita il nome del conte Bernardo di Treviso che cercava l’oro nel letame e che, da ricco che era, si ridusse alla povertà piú squallida per fabbricare quell’oro di cui non aveva bisogno.
L’inutile fatica di Bernardo durò esattamente sette decenni. A ottantaquattro anni è ancora davanti alla fornace e consulta un antico papiro che aveva comperato in Egitto per diecimila zecchini d’oro. Una sera, dopo una estenuante giornata di lavoro, si addormenta sulle sue carte. Ed ecco, nel sogno, gli appare suo nonno. Porta il manto d’ermellino e la corona dei re, e si erge maestoso presso una fontana dalle acque d’argento. Tutt’intorno ardono le stelle che si vestono e si svestono.
«Non capisco – dice Bernardo con voce affannosa – non capisco. Perché le stelle mutano i loro vestiti?».
Si rivolge all’avo, che intanto ha assunto il venerando aspetto di un vescovo. Questi gli risponde:
«Dio creò l’uno e lo moltiplicò per il tutto».
«Non capisco» seguita a dire Bernardo con voce sempre piú affannosa.
«Non posso dirti di piú» gli risponde l’avo.
Bernardo si sveglia. Trema in tutte le membra e suda freddo. Fa venire il confessore e gli racconta il sogno. Questi gli porge un crocefisso d’oro. Bernardo lo bacia e muore.

2. Che cosa è l’alchimia

Era proprio stolto Bernardo se cercava l’oro nel letame? Questa espressione volgare non nasconde forse un senso piú profondo? È da notare prima di tutto che simili frasi ricorrono spessissimo nei testi alchemici. L’oro si trova nella feccia del distillato, nelle ceneri del fornello, nella scoria del vaso. L’alchimista greco Zosimo insegna che non vi è mistero piú grande di quello contenuto nella scoria della materia bruciata.
Perché dunque la “superfluità” (cioè quello che sta alla superficie delle cose come veste piú ruvida) è tanto preziosa per l’alchimista?
Per l’antico indiano il mondo delle apparenze era maya, illusione, inganno; per l’alchimista esso assume invece un’importanza sempre maggiore. L’alchimista considera come elemento prezioso il letame, la sozzura, la feccia del mondo. Perché questa inversione di giudizio? È presto detto: l’alchimista è un uomo che vuole realizzare in sé la forza dell’Io. Considera l’Io come la parte piú nobile della natura umana. Per acquisire l’Io, l’uomo ha dovuto pagare un grande tributo a Lucifero e ad Arimane, è dovuto discendere profondamente nella materia; la sua natura cosí ha perduto il divino fulgore originario ed è diventata fango, feccia, letame. Ma questo fondo tanto deteriore dell’anima umana contiene il seme della piú sublime rinascita, cela l’Oro dell’Io. Per quanto inferiore possa sembrare il regno terrestre rispetto a quello celeste dal quale siamo discesi, è per mezzo suo e soltanto per mezzo suo che possiamo acquistare la nostra umanità, cioè l’autocoscienza, l’Io. «Cercare l’oro nel letame» è un’espressione tecnicamente esatta per indicare la realtà della missione dell’uomo sulla Terra.
Ma l’alchimista aggiunge ancora: «L’oro è la semente dell’Oro». Cioè, per esprimerci in termini che ci sono famigliari, per realizzare l’Io Superiore (“l’Oro dei Filosofi” nel linguaggio alchemico) bisogna mettere in opera le forze dell’Io inferiore (“l’oro volgare”).
Ottenere l’Oro dei Filosofi è lo scopo ultimo degli alchimisti. Nella storia dell’umanità, l’alchimia segna un particolare processo d’Iniziazione, cioè quello basato sulla concentrazione spirituale nella forma e nella sostanzialità dei metalli. La tecnica relativa, valevole in senso stretto anche oggi, è stata caratterizzata dal Dottor Steiner in una delle sue opere piú alte: Coscienza d’Iniziato. Il processo iniziatico proprio degli alchimisti poteva essere facilitato dallo studio fisico dei metalli. Cosí dall’alchimia è sorta la chimica. L’uomo ha tratto quest’ultima scienza dalla sua propria natura. Nel mistico raccoglimento del Tempio, l’Adepto insegnava ai suoi discepoli: «In voi sentite operare la forza dell’Io, che non può essere smossa da alcun agente esteriore. Il vostro corpo fisico diventa vecchio, ma il vostro Io rimane inalterato. Rimanete fermi in questa forza e vi accorgerete che nemmeno i demoni del male riescono a piegarla. I demoni del male riescono ad attaccare il vostro sentimento e il vostro pensiero, non mai il vostro Io. Con la forza dell’Io riuscirete a vincerli. L’oro è il segno esteriore della forza dell’Io».
Dal tempio, i discepoli, dopo aver udito un simile ammaestramento, scendevano nei laboratori ed esperimentavano che l’oro è inossidabile e inattaccabile dagli acidi. Essi poi meditavano su questo fatto e cosí acquistavano altre forze.
L’alchimista, abbiamo detto, partiva dall’oro volgare per arrivare all’Oro di Osiride, dall’Io inferiore all’Io Superiore. Quale strada percorreva?
Quella della trasformazione dei suoi arti corporei:
il corpo astrale
il corpo eterico 
il corpo fisico
in
in
in
Manas,
Buddhi,
Atma.
Questa trasformazione avveniva mediante l’uso della “Pietra Nera”, la “Pietra Filosofale”. Per Pietra Nera, o “Piombo Nero”, come vedremo, l’alchimista intendeva il suo stesso corpo fisico arimanizzato. Poiché la trasformazione di questo arto rappresenta l’opera piú ardua, essa simboleggia tutto il lavoro alchemico. Il lavoro con la Pietra Filosofale significa pertanto in senso stretto la trasformazione del corpo fisico in Atma, in senso lato la trasformazione di un qualunque arto inferiore nel suo corrispondente arto superiore. Come l’Io inferiore s’accende al contatto con la corporeità astrale, eterica e fisica, cosí l’Io Superiore ha la sua base su Manas, Buddhi e Atma. Questo Io Superiore ha qualità regali. In tempi antichi era Re colui che incarnava l’Io del popolo. Perciò l’alchimia, che ha per fine di realizzare l’Io, veniva detta “Ars Regia”, cioè arte regale per eccellenza. Ma l’alchimista che per mezzo della sua arte diventava re, era nello stesso tempo sacerdote, sacrificatore, mago. In tale duplice veste appare l’avo a Bernardo, per significare a quest’ultimo quale sarebbe stata la giusta via. Egli si erge presso la Fontana dell’Acqua d’Argento, o Mercurio, che è il simbolo dell’etere cosmico che dà vita eterna. Le stelle che si vestono e si svestono stanno a significare la grande legge cosmica dell’evoluzione che procede attraverso successivi manvantara e pralaya dei corpi planetari. Ma Bernardo non capisce; egli è un alchimista fallito; uno di quegli stolti che gli alchimisti iniziati chiamavano con sommo disprezzo “soffiatori o bruciatori di carbone”.
Gli alchimisti per esprimersi usavano un linguaggio simbolico, o sarebbe meglio dire tecnico. Cerchiamo ora, con l’aiuto delle cognizioni che ci viene offerto dalla Scienza dello Spirito antroposofica, di penetrare il senso profondo del linguaggio tecnico degli alchimisti.

3. La Materia Prima

A base di ogni realtà, sensibile e soprasensibile, sta, secondo gli alchimisti, la Materia Prima. Vediamo di capire in concreto, che cosa si cela sotto questa espressione.
L’origine del nostro cosmo solare risale allo stato di Saturno, la prima incarnazione planetaria della Terra. I sublimi Esseri gerarchici che spiegarono la loro attività creatrice su Saturno sono però molto piú vecchi di Saturno e trascorsero la loro evoluzione in altri stati cosmici. Essi portano nel nuovo cosmo in formazione l’essenza di altri cosmi. Dodici mondi – lo Zodiaco – stanno intorno a Saturno e irraggiano in esso la propria essenza superspirituale. Questa è la Materia Prima “degli alchimisti”, la quale sta a base di tutto. Essa sorge da uno stato di pralaya supercosmico e precede – fuori del tempo e dello spazio – ogni attività su Saturno. Non è da confondersi con la sostanza di volontà emessa dai Troni al principio della quarta fase e nemmeno con la essenzialità interiore superspirituale che caratterizza le prime tre fasi di Saturno. La Materia Prima non è differenziata, non possiamo attribuire ad essa alcun carattere se non quello della infinita possibilità.
Essa è rappresentata, come ideogramma alchemico, da un cerchio con entro la leggenda: “En To Pan” (Uno il Tutto).Questo geroglifico rappresenta il caos primordiale ed è detto anche “l’Uovo della Fenice”, cioè l’uovo cosmico amorfo che partorirà la prima forma (la Fenice). Spesso per indicare questo segno, troviamo nei testi una serpe che si morde la coda. Questa serpe porta diversi nomi: il Drago Uròboros, la Vipera Velenosa, il Basilisco dei Filosofi. In alchimia, Uròboros non è soltanto il simbolo della Materia Prima, ma anche quello del “Solvente Universale” o “Aceto Filosofico”. Per comprendere questo duplice significato, dobbiamo tenere presenti i concetti alchemici di “Ascensione” e “Discensione”. Il processo creativo cosmico è una discensione (ossia evoluzione) dalla Materia Prima; in questo senso, la Materia Prima è l’Uovo della Fenice. L’alchimista, l’iniziato, percorre invece la via opposta della ascensione nei Mondi Spirituali: per lui sta alla fine ciò che nel cosmo stava al principio. La coscienza iniziatica in via ascensionale si eleva successivamente alla sfera della Luna (immaginazione), del Sole (ispirazione), di Saturno (intuizione). Ogni grado successivo d’elevazione rappresenta una prova piú ardua, perché vien chiesta all’Iniziato una sempre maggiore forza dell’Io per non essere soverchiato dalle forze cosmiche inimmaginabilmente potenti. Da ciò si capisce che la prova piú terribile si presenta all’Iniziato quando passa la soglia che dal cosmo solare lo conduce nel pluricosmo zodiacale. La sfera zodiacale non comporta nessuna differenziazione propria del cosmo solare: in essa ogni elemento fisico, eterico, astrale viene dissolto. L’Iniziato, prima di entrare in questa sfera, deve effettuare con atto proprio di volontà la “dissoluzione” della sua anima; deve cioè spegnere la sua coscienza eliminando tutte le esperienze del mondo fisico, astrale e spirituale. Non vi è nulla nel mondo dei sensi che possa pur lontanamente darci un’idea di questa terribile esperienza. La morte fisica spegne la coscienza terrestre, ma nello stesso tempo ne fa riaffiorare una piú viva dalla quale riemergono in forma mutata i ricordi della vita trascorsa. Nulla di simile avviene nell’esperienza iniziatica sulla soglia dello Zodiaco. In essa tutto il passato viene annichilito per sempre; tutto ciò che è stato acquisito dall’uomo nel regno fisico, in quello astrale e in quello spirituale viene sommerso nell’oblio. È questa un’esperienza veramente terribile. Però soltanto superando questa prova, l’iniziato trova il suo “vero Io”, l’Io Superiore come Entità ultrazodiacale. Nella tradizione Vedanta, questo gradino della esperienza iniziatica vien detto “La porta dello spavento supremo”.
Le considerazioni fatte ci permettono ora di comprendere il duplice significato attribuito dagli alchimisti al simbolo del cerchio. In senso discensionale, questo simbolo esprime “la Materia Prima”, “l’Uovo della Fenice”; in senso ascensionale, sta a significare l’esperienza iniziatica del dissolvimento sulla soglia dello Zodiaco, ed allora il cerchio diventa la serpe che si morde la coda, il Drago Uròboros, l’Aceto dei Filosofi, il Solvente Universale, il Basilisco dallo sguardo fulminante.
Si potrebbe benissimo chiamare questa esperienza e il simbolo relativo “La soglia dell’Io”.
Gli Egizi e i Greci immaginarono l’iniziazione come un viaggio pieno di peripezie e di avventure. Si può ben dire che il passaggio attraverso la soglia dell’Io rappresenta per l’iniziato l’avventura piú rischiosa e piú incerta. Superata questa, egli è fuori dello Zodiaco, in una realtà superspirituale che nessuna mente umana può concepire. Questo è lo stato del Nirvana, per il quale vien detto che non esistono concetti (metanoia).

Fortunato Pavisi
(1. continua)

Immagine: S. Trismosin «L’Oro del Sole nasce dal letame» da Splendor Solis, Londra, XVI secolo