Titanismo

Ci sono le isole circondate dal mare, che vanno dall’estensione in miniatura di certi atolli maldiviani a quella sconfinata di un continente come l’Australia: sono le isole per antonomasia, sognate da naufraghi, misantropi e poeti. I marinai vi sostano per ritrovare il contatto rassicurante con la terra. L’acqua intorno è un fossato protettivo per chi vi cerca la solitudine, la garanzia di una minaccia esorcizzata per chi vi ripara dopo una tempesta.
Vi sono poi le isole terrestri, luoghi di piú o meno ridotta dimensione, che restano separate dalla massa piú grande del territorio cui appartengono da fiumi e canali: l’Ile-de-la-Cité a Parigi, l’Isola Tiberina a Roma, l’Island of Dogs nel Tamigi, la sacra mitica File, col santuario di Iside, emergente dal flusso maestoso e possente del Nilo. E, ripescata dall’età arcaica della storia umana, una regione vasta e ricca tra due fiumi, un’isola non troppo aliena dal paradiso terrestre: la Mesopotamia. Con un popolo mite e arcano, i Sumeri, 5.000 e forse piú anni or sono. Popolo non semita, i Sumeri venivano da lontano, da dove resta un mistero, come gli Etruschi. A differenza di questi ultimi, dediti all’agricoltura e ai banchetti nuziali o funebri, i Sumeri dedicavano molto del loro tempo alla scrittura, che avevano inventato. Paese di canneti e asfalto, la Mesopotamia, tra il Tigri e l’Eufrate, offriva loro anche la materia su cui scrivere: l’argilla. I caratteri impressi con piccoli cunei furono dapprima essenzialmente pittografici, poi ideografici, fino a indicare il valore fonetico del segno. Intere biblioteche stanno venendo alla luce su tutto il territorio che fu da loro popolato e civilizzato, la terra di Ur, che la Bibbia indebitamente assegna ai Caldei. Da questa messe inesauribile di inni, testi sapienziali e sacri, ma anche inventari, preventivi, resoconti, cronache di popolo e di Palazzo, compiti scolastici, scongiuri e divinazioni, sappiamo che i Sumeri erano un popolo mitopoietico, poco incline alla filosofia speculativa tipica dei Semiti che li sostituirono. Alla logica e alla ragione preferivano l’immaginazione e la fantasia. Pur non avendo mai creato quel ramo della filosofia che va sotto il nome di epistemologia, i Sumeri indagarono intuitivamente sulla natura dell’universo, sulla sua origine e sui meccanismi che lo regolano, elaborando, 3.000 anni prima della venuta di Cristo, una cosmologia e una cosmogonia teologica che vennero poi trasferite alle culture successive di tutta l’area mediorientale e oltre. Per meglio studiare gli astri e adorare la divinità An, innalzarono le ziqqurat, torri di sette gradoni, poiché sette erano i cieli di En Lil, lo Spirito animatore del mondo. Sette era la cifra del finito e dell’assoluta perfezione. Sulla cima era la camera nuziale, o dell’incontro, dove i sacerdoti astrologi e gli astronomi reali leggevano i responsi nel moto degli astri, ma soprattutto celebravano la discesa di An, che incontrava Ea, la Terra, in un mistico matrimonio tra la divinità e il creato. I Sumeri hanno raccontato del Diluvio Universale e della Genesi del mondo nel loro Poema della Creazione, e della ricerca incessante dell’immortalità da parte dell’uomo nell’epopea di Gilgamesh. Sapevano che l’universo ha una misura per ogni oggetto e fenomeno, un canone da rispettare in ogni forma. Le ziqqurat avevano un basamento di 70 metri per lato, ogni gradone era alto 10 metri, ottenendo un’altezza dei piani di 70 metri, e lo shauru, la cappella sulla sommità, altri 7 di altezza: 77 metri in tutto. Poi vennero dal deserto del Sud gli Accadi, un popolo semita nomade e guerriero. I Sumeri ne furono travolti, conquistati ed esautorati, fatte salve la scrittura e la cultura, che rimasero in auge per secoli. I nuovi padroni della Mesopotamia, animati da spirito megalomane, iniziarono la corsa in altezza, la gara a chi costruiva la ziqqurat piú audace.
E questo ci porta, seguendo il tracciato di tale competizione edilizia, fino ai nostri giorni, a un’altra isola terrestre, sul continente americano, il primo lembo di terra avvistato dai padri pellegrini dopo la traversata atlantica: Manhattan, un blocco di granito a mollo nel fiume Hudson. Non è solo l’antico oggetto di una transazione tra i coloni olandesi del primo approdo e i nativi autoctoni, ma ha finito col diventare, in quattro secoli di storia, il favoloso galeone che contiene tutti i fasti e i valori degli Stati Uniti egemoni del mondo: banche, istituti finanziari, broker di assicurazioni, agenti di cambio, grandi trust internazionali, studi legali. Ma non è solo questo Manhattan, cioè non solo Wall Street e il denaro che moltiplica se stesso in una viziosa partenogenesi, bensí anche il genio teatrale di Broadway, il verde di Central Park, i reclusi cortili e i loft discreti del Greenwich Village, gli studios informatici e fotografici. Il profilo dei grattacieli connota oggi “l’isola delle colline”, come veniva chiamata nella lingua degli indiani Algonquin, che nel 1626 ne cedettero i diritti territoriali a Peter Minuit, direttore della Compagnia olandese delle Indie Occidentali. Ne ricevettero in cambio una paccottiglia di collanine di vetro e vari altri ninnoli e ammennicoli per un totale valore di 60 fiorini. Fu l’inizio della storia di Nieuw Amsterdam, divenuta poi, in mano agli inglesi che la “occuparono” manu militari nel 1664, New York. Con la cifra irrisoria pagata dai parsimoniosi olandesi ai primitivi proprietari, oggi a Manhattan non si riesce a pagare neppure il posteggio dell’auto per un’ora. Eppure, chi vuol contare qualcosa nel mondo americano che vive “on the top” e guarda tutti gli altri dall’alto di un grattacielo, deve possedere un rettangolo territoriale a Manhattan, fosse anche quello esiguo di una targa di ottone sullo stipite stradale di un edificio dell’isola, attestante la domiciliazione in loco. Questa necessità rappresentativa e abitativa ha indotto negli anni una speculazione edilizia senza eguali al mondo. E poiché si era già tutto edificato in orizzontale, si è pensato di costruire in altezza, e lo spazio da vendere o da cedere in affitto si è tramutato in un oro di nuova qualità e tramutato valore: quello del metro quadro. Qui la gara del salto in alto edilizio iniziò nel 1923 con il Chrysler Building, 319 metri, terminato nel 1930 e inaugurato quasi per una sfida poco dopo il crollo di Wall Street nell’ottobre del 1929. L’edificio ricorda un enorme pesce spada che proietta verso il cielo la sua lama, emergendo in uno slancio vittorioso dal fango della Grande Depressione in atto nel Paese. La torre “pesce spada” voluta da Walter Percy Chrysler, creatore dell’omonima Corporation produttrice di autoveicoli, conservò il primato di edificio piú alto del mondo per un anno. Fino a quando cioè venne terminato e inaugurato l’Empire State Building, che con i suoi 381 metri di altezza rubò al rivale predecessore il titolo e il ruolo di fondale privilegiato in molti dei film che avevano New York come ambientazione scenica.
La sindrome che potremmo chiamare di Nemrod, il personaggio biblico di cui si narra volesse gareggiare in altezza e potenza con Dio stesso innalzando la torre di Babele e per questa sua superbia venisse fulminato, ha contagiato ormai il mondo intero. Si compete dunque oggi in metri di elevazione: 417 metri per le ex Twin Tower, 443 per la Sears Tower di Chicago, 480 per le Petronas Tower di Kwala Lumpur in Malesia, e infine, campione in carica di arrampicata celeste, il Financial Center di Shangai, con i suoi 489 metri. Ma c’è soltanto la spinta utilitaristica dietro questo assillo maniacale di costruire in verticale? Come si giustifica la necessità di sfruttare al massimo i rarefatti spazi edificabili in aree metropolitane ad alta densità abitativa? Ciò sarebbe tecnicamente giustificabile fino alla dimensione di una ziqqurat, vale a dire 90-100 metri, con 30-40 piani. Ma oltre, la resa economica viene azzerata, anzi volta al negativo, dai costi di gestione, dalle difficoltà logistiche di manutenzione e in ultimo dal rischio di ardue se non totalmente precluse vie di fuga in caso di emergenze non calcolate, come nel caso delle Twin Tower, dove chi è riuscito a raggiungere la strada e la salvezza ha impiegato tempi intollerabili in regime normale. Escluse quindi le ragioni economiche e quelle di un prestigio tecnologico da acquisire mediante realizzazioni che tanto piú prestano il fianco a imprevisti e incidenti quanto maggiore è la loro sofisticata costituzione e funzionalità, non rimane che attribuire a implicazioni metafisiche e medianiche di stampo subnaturale la foga edilizia che in varie epoche e maniere ha contagiato gli uomini, specie quelli con smanie di vertiginose impennate contro il cielo a sfidare le leggi d’equilibrio naturale e cosmico. Queste implicazioni “altre” si rivelano per segni verificabili, immanenti nella realtà fisica. Solo che l’uomo attuale, positivista, razionale e agnostico, non sa piú leggerle, oppure le annovera tra le superstizioni dell’umanità primitiva, la quale ne aveva un profondo rispetto. Mai e poi mai ad esempio un antico Sumero avrebbe abitato in una delle costosissime pent-house delle Torri Gemelle crollate l’11 settembre 2001. E ciò per due sacrosanti motivi: primo, perché l’altezza era riservata agli Dei, anzi al Dio An, supremo reggitore dell’universo, e secondo perché il segno gemellare, la dualità speculare, era di estremo malaugurio, stando alle credenze magiche del suo popolo. Cosí recita infatti una tavoletta d’argilla ritrovata negli scavi di Uruk: «Se gli abitanti di una città sono buoni, questa città conoscerà la pace. Se gli abitanti di una città sono cattivi, la mano di Dio si appesantirà sulla città, e se vi sono gemelli, questi porteranno la distruzione della città». Ma chi può prendere mai sul serio queste ingenue e scaramantiche esternazioni dal sapore lapalissiano, che fanno sorridere noi uomini tecnologici rotti a ogni occorrenza e fenomeno! Meno che mai l’architetto Liberskind. Il luminare della scienza edilizia americana ha già elaborato un progetto nemrodico che intende sostituire le Twin Tower crollate con un complesso di varie torri, forse cinque, di cui la principale raggiungerà l’altezza di 541 metri, strappando alle concorrenti nel mondo il primato e la scena. Ecco le nude cifre del ciclopico falansterio: 2.286 milioni di metri quadrati, area di sviluppo 6,4 ettari, spesa 330 milioni di dollari.
E la corsa continua, con l’uomo che sembra ormai incapace di fermarsi a prendere fiato, fare esame di coscienza e magari rilevare il punto di rottura degli equilibri statici, le condizioni geologiche del suolo, le temperie e intemperie cosmiche, naturali e meteorologiche. Sappiamo ad esempio che la prima etemenanki babilonese, quella di Ammurabi, 1800 a.C., la torre che ha ispirato con molta probabilità il racconto biblico, da recenti risultanze archeologiche pare crollasse per un cedimento del terreno alluvionale sotto il peso abnorme della massa globale dell’edificio. Non è un caso che la torre della Financial Center di Shangai stia franando, dicono, per il cedimento della falda rocciosa. È probabile quindi che questa fosse la punizione divina: perdere i superbi attraverso la loro stessa aberrazione mentale. Poiché è chiaro che qualunque mostruosità originata da meccanismi degenerativi indotti dall’uomo, a un certo punto rompe l’equilibrio di tenuta, andando incontro a un’implosione della materia costituente, quasi che questa si ribellasse a improprie e innaturali manipolazioni. E se non è la materia a volersi sottrarre a indebiti procedimenti, a violazioni delle naturali simmetrie, a un’enfasi formale e tecnica, ecco verificarsi una polarizzazione di influssi che l’oggetto attira su di sé, divenendo feticcio catalitico, totem catartico di saturazioni passionali, quasi elemento sacrificale, immolando il quale l’imponderabile divinità che impera su questa terra si senta appagata. La stessa che, al di là di ipotizzabili giochi economico-politici, sembra aver diretto gli aerei contro le Torri Gemelle.
O forse è il pendolo della giusta misura cosmica che, attivando ignari strumenti e casualità imprevedibili, ripristina armonie vituperate, elargisce moniti e segnali, entro i quali devono tenersi l’atto titanico o l’azione eroica, se non vogliono scivolare in un dominio senza leggi né freni. La sapienza sumera incisa nei caratteri cuneiformi di migliaia di tavolette si condensa nel monito all’uomo a non voler salire troppo in alto, dividendo in mille parti il proprio cuore per darlo a mille divinità materiali: ne seguono la dannazione, la confusione delle lingue, l’inimicizia tra i popoli e, piú temibile, la guerra dell’uno contro tutti. L’individuo si riduce allora a un’isola a sé stante: intorno muri, fossati, sbarre, e in ultimo i soli frantumi combusti di un’arrogante civiltà senza Dei.

Leonida I. Elliot

Immagine: Il Chrysler Building a New York