- Dodici
anni fa, nel pieno del mezzogiorno, bagnato dall’acqua
del mare, gli occhi fissi allo scintillio delle onde,
seduto “come un antico samurai”, è scivolato
silenzioso nella Casa del Padre, al termine di quel
cammino «in cui si può vedere la differenza tra il
terrestre-fisico, che domina in ciò che è senza
vita, e l’extraterrestre-eterico che corrobora il
vivente»(1).
- Come
ho incontrato Michele? E come abbiamo insieme
incontrato l’Antroposofia? Dopo un periodo di
rapporto cordiale, nel gruppo di vari altri amici, non
privo di un certo interesse reciproco, una sera “Qualcuno”
si deve essere stancato di quella perdita di tempo e
ci “sollecitò” in modo che ci trovassimo, per
caso, noi due soli. Parlammo fuori del “gergo
del gruppo” e scoprimmo la possibilità di aprire
con naturalezza i nostri pensieri piú intimi. A quel
tempo egli era arrivato a quel punto in cui, lo
spirito deluso dal mondo, la mente inappagata da un
intellettualismo sempre piú arido e astratto, si è
indotti ad un azzeramento di tutti i princípi
fondamentali in cui si è cresciuti. Io stessa, pur
avendo già conosciuto Massimo Scaligero (ma non lo
frequentavo ancora), avevo dubbi, incertezze.
- Il
gruppo dei nostri amici era vario e vivo, portato ad
interessi artistici, politici, aperto alle
sollecitazioni esterne con allegria e con uno humour
che spesso rasentava l’irriverenza. Michele in
questo primeggiava, non tanto per il fuoco di fila
delle sue frasi ironiche, ma per quelle battute
icastiche che, rimanendo poi nel lessico comune,
venivano utilizzate da tutti gli altri. Per fare un
esempio, il nostro luogo d’appuntamento era il
baretto della Biblioteca Nazionale, dove il caffè
costava 25 lire (la metà del costo normale), ma noi a
volte non avevamo nemmeno quelle; ebbene, lui un
giorno ordinò: «Due moka e tre cannucce!» e l’espressione
rimase. Un’altra volta, in cui si commentava certa
cinematografia americana, aveva concluso: «Nei film
americani si comincia con la bomba atomica e si arriva
invariabilmente alla scazzottatura finale», frase
anche questa divenuta proverbiale.
- La
compagnia era scissa tra chi, come lui, era giunto ad
uno scetticismo globale e chi, come Argo Villella,
aveva già incontrato la Scienza dello Spirito e si
batteva – con l’impeto dei suoi venticinque anni
– per diffondere le proprie idee. Accanto a Michele
ricordo altri discepoli del nostro Maestro, tuttora
attivi nella Via, come Enzo Erra e Nicola Bellia,
mentre di altri da tempo ho perso le tracce. Si
aggiunga il particolare che, per il solito gioco delle
coincidenze, Romolo Benvenuti lavorava all’INPS
nella stessa stanza di Michele, e quindi ogni pensiero
o dubbio poteva continuare ad essere discusso tra una
scartoffia e l’altra.
- Fu
comunque merito di Argo se, in un momento in cui la
ricerca interiore era arrivata ad un punto morto,
Michele ed io prendemmo un appuntamento con Massimo,
che allora riceveva nel suo appartamento di via
Innocenzo X. Mano nella mano, salimmo quelle scale
trepidanti e curiosi. Fin dal primo incontro, lo
scettico ed ironico Michele, di solida cultura
materialista, fu convertito e offrí la sua
venerazione e la sua libertà spirituale a Massimo. Fu
di una fedeltà assoluta, silenziosa ma costante,
attraverso le prove, fino alla fine.
- Contemporaneamente
alla conoscenza di Massimo, e attraverso di lui quella
di Rudolf Steiner, sbocciò nella sua anima in modo
determinato l’amore per l’arte figurativa e il
mare, la vela. Aveva circa trent’anni e non aveva la
minima idea di come “si tenesse una matita in mano”.
Quanto al mare… si reggeva a malapena a galla.
- Partí
quindi da zero, mosso da un’istanza interiore:
affrontò i vari problemi, di pittura e di scultura,
con disciplina, fatica, mai scoraggiato dagli
inevitabili insuccessi. Questi erano solo prove per
capire l’errore e andare avanti. La severità da lui
in seguito dimostrata ai suoi amici-discepoli non fu
dunque il principio astratto dal quale proporre il suo
insegnamento, ma semplicemente il passare agli altri
il suo modo d’essere e di affrontare le cose: i
caldi e i freddi, lo stare in piedi davanti al
cavalletto con il pennello tenuto in un certo modo
ecc. erano la storia della sua ascesa faticosa verso
il fine che si era proposto.
- Cosí
fu per quanto concerneva il mare: frequentò la
piscina, la scuola di vela, ma soprattutto affrontò
il mare in un contatto personale e diretto, nulla
lasciando all’improvvisazione velleitaria del
diportista della domenica. Si commosse quando un
vecchio marinaio di Messina gli disse: «Siete un marino».
Per quanto rimanesse toccato da un elogio che gli
veniva fatto in circostanze speciali, da persone
speciali, altrettanto era tollerante di fronte alle
critiche, agli sgarbi, alle indifferenze e alle
omissioni.

- Naturalmente,
in particolare all’inizio, non fu risparmiato dai
giudizi e dalle facili ironie: come poteva essere
considerato chi aveva abbracciato un’utopia
stranissima e maneggiava i colori e gli scalpelli
senza essere stato mai un artista? Dissero perfino che
aveva accantonato l’intelligenza, non sentendolo
piú impegnato in discussioni colte e ricche di
dialettica. Ma lui, pur sapendo e vedendo, pur
soffrendoci talvolta, non criticava né giudicava
nessuno. In quarant’anni non pronunciò mai un
pensiero negativo su nessuno, anche quando sarebbe
stato naturale farlo.
Particolarmente
fecondo è stato il suo rapporto con i figli,
soprattutto con colei che il destino volle si
distaccasse presto da questa vita: Maria Francesca. Ho
qui davanti una fotografia che li ritrae al mare: lui
nell’acqua tiene stretta al collo quella figlietta,
e riconducendola a riva sembra dirle: «Vedi, non c’è
da aver paura...».
- Io
conoscevo quale fosse il suo dolore per quella
perdita, e lo penetravo particolarmente nelle nostre
conversazioni private, solitarie, quando il nostro
cuore si poteva aprire alla confidenza di sempre. Fu
in uno di questi momenti speciali che mi rivelò di
aver avuto colloqui importanti con Maria Francesca,
mentre lei era in clinica. Il contenuto di quegli
incontri (solo cosí si possono definire) non mi fu
mai rivelato, giustamente, ma compresi il loro valore,
la loro altezza, dall’ulteriore cambiamento che si
operò in lui. Per un settennio ha vissuto la
grandezza e la tragicità di quell’esperienza,
portando celata in sé la sua prova, superando la
propria natura, ampliando in una nuova comprensione la
vita intorno a lui, acquisendo una nuova maturità “a
tutto tondo”.
- Alcuni
episodi possono essere narrati. Poco tempo dopo il 5
dicembre 1985, i media parlarono del miracoloso
ritrovamento di un neonato gettato in un cassonetto:
laconico, ma serio, Michele disse sottovoce: «È
stata Maria Francesca ad intervenire». E quando una
sera in cui il mio cuore era particolarmente gonfio di
dolore e nostalgia, gli dissi che avevo l’impressione
che una stella lampeggiasse per consolarmi, trovò l’affermazione
tutt’altro che inverosimile e restò con me a
fissare il cielo. Ma sapeva anche essere giustamente
severo. Ad una mia esitazione nel prendere una
decisione delicata, in contrasto con un sentimento
troppo materno, esclamò: «Dov’è il tuo spirito
cristico a trecentosessanta gradi?».
- Ecco
a cosa tendeva la sua anima: allo spirito cristico,
conquistato attraverso le dure prove superate. Il
dolore gli aveva donato la possibilità di riversare
tutto il suo amore e la sua comprensione nel prossimo,
e al contempo di percepire lo scintillio della
luce sulle onde. Di scivolare nella Casa del Padre
contemplando lo splendore del mare.