Personaggi

Michele Danza esprimeva le sue doti di eclettico scultore e pittore, utilizzando le tecniche tradizionali ampliate da attento studio e meditazione sulla teoria dei colori di Goethe e dalle vaste e precise indicazioni in materia d’arte di Rudolf Steiner.
Tanto era abile nell’esecuzione delle sue opere, quanto nel trasmettere ai molti frequentatori del suo studio non solo i princípi espressivi suoi personali, ma soprattutto i contenuti piú alti della Scienza dello Spirito che attraverso tali opere si manifestavano.
Dodici anni fa, nel pieno del mezzogiorno, bagnato dall’acqua del mare, gli occhi fissi allo scintillio delle onde, seduto “come un antico samurai”, è scivolato silenzioso nella Casa del Padre, al termine di quel cammino «in cui si può vedere la differenza tra il terrestre-fisico, che domina in ciò che è senza vita, e l’extraterrestre-eterico che corrobora il vivente»(1).
Come ho incontrato Michele? E come abbiamo insieme incontrato l’Antroposofia? Dopo un periodo di rapporto cordiale, nel gruppo di vari altri amici, non privo di un certo interesse reciproco, una sera “Qualcuno” si deve essere stancato di quella perdita di tempo e ci “sollecitò” in modo che ci trovassimo, per caso, noi due soli. Parlammo fuori del “gergo del gruppo” e scoprimmo la possibilità di aprire con naturalezza i nostri pensieri piú intimi. A quel tempo egli era arrivato a quel punto in cui, lo spirito deluso dal mondo, la mente inappagata da un intellettualismo sempre piú arido e astratto, si è indotti ad un azzeramento di tutti i princípi fondamentali in cui si è cresciuti. Io stessa, pur avendo già conosciuto Massimo Scaligero (ma non lo frequentavo ancora), avevo dubbi, incertezze.
Il gruppo dei nostri amici era vario e vivo, portato ad interessi artistici, politici, aperto alle sollecitazioni esterne con allegria e con uno humour che spesso rasentava l’irriverenza. Michele in questo primeggiava, non tanto per il fuoco di fila delle sue frasi ironiche, ma per quelle battute icastiche che, rimanendo poi nel lessico comune, venivano utilizzate da tutti gli altri. Per fare un esempio, il nostro luogo d’appuntamento era il baretto della Biblioteca Nazionale, dove il caffè costava 25 lire (la metà del costo normale), ma noi a volte non avevamo nemmeno quelle; ebbene, lui un giorno ordinò: «Due moka e tre cannucce!» e l’espressione rimase. Un’altra volta, in cui si commentava certa cinematografia americana, aveva concluso: «Nei film americani si comincia con la bomba atomica e si arriva invariabilmente alla scazzottatura finale», frase anche questa divenuta proverbiale.
La compagnia era scissa tra chi, come lui, era giunto ad uno scetticismo globale e chi, come Argo Villella, aveva già incontrato la Scienza dello Spirito e si batteva – con l’impeto dei suoi venticinque anni – per diffondere le proprie idee. Accanto a Michele ricordo altri discepoli del nostro Maestro, tuttora attivi nella Via, come Enzo Erra e Nicola Bellia, mentre di altri da tempo ho perso le tracce. Si aggiunga il particolare che, per il solito gioco delle coincidenze, Romolo Benvenuti lavorava all’INPS nella stessa stanza di Michele, e quindi ogni pensiero o dubbio poteva continuare ad essere discusso tra una scartoffia e l’altra.
Fu comunque merito di Argo se, in un momento in cui la ricerca interiore era arrivata ad un punto morto, Michele ed io prendemmo un appuntamento con Massimo, che allora riceveva nel suo appartamento di via Innocenzo X. Mano nella mano, salimmo quelle scale trepidanti e curiosi. Fin dal primo incontro, lo scettico ed ironico Michele, di solida cultura materialista, fu convertito e offrí la sua venerazione e la sua libertà spirituale a Massimo. Fu di una fedeltà assoluta, silenziosa ma costante, attraverso le prove, fino alla fine.
Contemporaneamente alla conoscenza di Massimo, e attraverso di lui quella di Rudolf Steiner, sbocciò nella sua anima in modo determinato l’amore per l’arte figurativa e il mare, la vela. Aveva circa trent’anni e non aveva la minima idea di come “si tenesse una matita in mano”. Quanto al mare… si reggeva a malapena a galla.
Partí quindi da zero, mosso da un’istanza interiore: affrontò i vari problemi, di pittura e di scultura, con disciplina, fatica, mai scoraggiato dagli inevitabili insuccessi. Questi erano solo prove per capire l’errore e andare avanti. La severità da lui in seguito dimostrata ai suoi amici-discepoli non fu dunque il principio astratto dal quale proporre il suo insegnamento, ma semplicemente il passare agli altri il suo modo d’essere e di affrontare le cose: i caldi e i freddi, lo stare in piedi davanti al cavalletto con il pennello tenuto in un certo modo ecc. erano la storia della sua ascesa faticosa verso il fine che si era proposto.
Cosí fu per quanto concerneva il mare: frequentò la piscina, la scuola di vela, ma soprattutto affrontò il mare in un contatto personale e diretto, nulla lasciando all’improvvisazione velleitaria del diportista della domenica. Si commosse quando un vecchio marinaio di Messina gli disse: «Siete un marino». Per quanto rimanesse toccato da un elogio che gli veniva fatto in circostanze speciali, da persone speciali, altrettanto era tollerante di fronte alle critiche, agli sgarbi, alle indifferenze e alle omissioni.
Naturalmente, in particolare all’inizio, non fu risparmiato dai giudizi e dalle facili ironie: come poteva essere considerato chi aveva abbracciato un’utopia stranissima e maneggiava i colori e gli scalpelli senza essere stato mai un artista? Dissero perfino che aveva accantonato l’intelligenza, non sentendolo piú impegnato in discussioni colte e ricche di dialettica. Ma lui, pur sapendo e vedendo, pur soffrendoci talvolta, non criticava né giudicava nessuno. In quarant’anni non pronunciò mai un pensiero negativo su nessuno, anche quando sarebbe stato naturale farlo.
Particolarmente fecondo è stato il suo rapporto con i figli, soprattutto con colei che il destino volle si distaccasse presto da questa vita: Maria Francesca. Ho qui davanti una fotografia che li ritrae al mare: lui nell’acqua tiene stretta al collo quella figlietta, e riconducendola a riva sembra dirle: «Vedi, non c’è da aver paura...».
Io conoscevo quale fosse il suo dolore per quella perdita, e lo penetravo particolarmente nelle nostre conversazioni private, solitarie, quando il nostro cuore si poteva aprire alla confidenza di sempre. Fu in uno di questi momenti speciali che mi rivelò di aver avuto colloqui importanti con Maria Francesca, mentre lei era in clinica. Il contenuto di quegli incontri (solo cosí si possono definire) non mi fu mai rivelato, giustamente, ma compresi il loro valore, la loro altezza, dall’ulteriore cambiamento che si operò in lui. Per un settennio ha vissuto la grandezza e la tragicità di quell’esperienza, portando celata in sé la sua prova, superando la propria natura, ampliando in una nuova comprensione la vita intorno a lui, acquisendo una nuova maturità “a tutto tondo”.
Alcuni episodi possono essere narrati. Poco tempo dopo il 5 dicembre 1985, i media parlarono del miracoloso ritrovamento di un neonato gettato in un cassonetto: laconico, ma serio, Michele disse sottovoce: «È stata Maria Francesca ad intervenire». E quando una sera in cui il mio cuore era particolarmente gonfio di dolore e nostalgia, gli dissi che avevo l’impressione che una stella lampeggiasse per consolarmi, trovò l’affermazione tutt’altro che inverosimile e restò con me a fissare il cielo. Ma sapeva anche essere giustamente severo. Ad una mia esitazione nel prendere una decisione delicata, in contrasto con un sentimento troppo materno, esclamò: «Dov’è il tuo spirito cristico a trecentosessanta gradi?».
Ecco a cosa tendeva la sua anima: allo spirito cristico, conquistato attraverso le dure prove superate. Il dolore gli aveva donato la possibilità di riversare tutto il suo amore e la sua comprensione nel prossimo, e al contempo di percepire lo scintillio della luce sulle onde. Di scivolare nella Casa del Padre contemplando lo splendore del mare.

Maria Grazia Moscardelli Danza

(1)R. Steiner, Massime Antroposofiche, Ed. antroposofica, Milano 1969, p. 18.