Conoscenza

Abbiamo ricevuto alcuni messaggi da ricercatori diversi, i quali sostengono un comune quesito: «Poiché nella vita tutto è fondato sul corpo, anche la coscienza, è davvero sbagliato cominciare dal corpo?». Poi uno di questi amici aggiunge: «Anche Rudolf Steiner parla dell’importanza del corpo» (le parole usate sono un po’ diverse, e ci scusiamo preventivamente con chi ci ha scritto per la sintesi semplificatoria operata sulle domande).
Ora procediamo in ordine inverso: il Dottore non parla mai di una corporeità fisico sensibile a sé stante: essa è sempre connessa ad attività metafisiche di cui il corpo percepito è la riduzione ad immagine-simbolo. Qualora il pensiero giunga ad una certa capacità di automovimento, constata che proprio nessuno potrebbe affermare di avere visto, durante la vita, corpi fisici a sé stanti, ma individualità espresse attraverso un veicolo astrale, eterico e fisico, farcito di sostanza minerale. Nessuno ha visto mai un corpo fisico, fuorché gli Dei, l’Iniziato e il defunto. Ad ogni buon conto preferiamo utilizzare il meno possibile quello che il Dottore ha detto o non ha detto: il decadente uso di strappare dai testi canonici e dalle tante conferenze l’arsenale necessario per affermare le nostre ragioni o la nostra ortodossia con l’insegnamento, quasi sempre indirizzate contro gli errori o l’eterodossia di qualcun altro, è pura mancanza di rispetto verso Rudolf Steiner, e rimane quello che in realtà è: un banale dibattito astratto perfettamente identico a quelli che hanno finito per ammazzare quanto restava di buono nella cultura “profana”.
Neppure va dimenticato che le tantissime comunicazioni del Dottore si rivolgevano, nel tempo, ad ambienti e personalità diversissime: se c’è qualcuno che nell’antroposofia mai ha fatto questione di termini, dando loro significati secondo necessità, è proprio Rudolf Steiner.
Persino figure illustri tra i discepoli del Dottore, come il patriarcale Adolf Arenson (autore tra l’altro di un poderoso dizionario ragionato d’antroposofia) incontrano notevoli difficoltà in merito. Nella primavera del ’28, sulla rivista tedesca Anthroposophie, Arenson scrive: «Una volta Rudolf Steiner designa il Cristo come uno Spirito del fuoco, come un Arcangelo, un’altra volta come uno dei tre Logos; poi come il complesso dei sei Elohim, oppure come la Parola Creatrice. Nel 18° ciclo si trova: “Egli è la Guida di tutte le Entità delle Gerarchie superiori”. Da queste citazioni, che potremmo ancora molto aumentare, è possibile trarre la conclusione che nel corso dell’evoluzione il Cristo agisce quale Arcangelo o Spirito della Forma e, a seconda della Sua azione, viene designato da Rudolf Steiner con il nome corrispondente, dunque il suo vero Essere non può venir limitato in parole o concepito in pensieri terreni».
Un punto ancora: nel contesto espresso, Arenson certamente non sbaglia, ma il problema ha radici piú profonde. Il linguaggio moderno (e occidentale) non s’apparenta al soprasensibile che, qualora non venga ridotto ad un informe panteismo, è già per proprio conto infinitamente complesso e diverso, per cui vero sacrificio per l’Iniziato dei Nuovi Tempi è stato quello di articolare un linguaggio spirituale nel modo dei nessi tra le parole, immagini e frasi del tutto comuni. Si provi a pronunciare le seguenti lettere: u, o, emme, o; poi, con un piccolo sforzo d’immaginazione si realizzi che con l’intelletto legato ai sensi sia possibile soltanto conoscere e ripetere i singoli suoni e basta. Si immagini ora che questo è il rapporto che si ha di solito con l’Opera di Steiner mentre occorrerebbe volgere a questi scritti l’impersonale moto sintetico dell’idea per giungere a pronunciare la parola completa come superiore atto conoscitivo. Questo sarebbe il vero linguaggio (spirituale) dell’Anima Cosciente, incompreso perché inquinato dal razionalismo. Razionalismo inavvertito persino in alcuni tra i piú diretti discepoli, stravolto verso il basso da tutti coloro che vogliono ricostruire la loro antroposofia con un modello meccanico di pensiero e per i quali essa diventa un edificio accettabile per fede o per inconscia selezione e rimozione di alcune sue parti. Su costoro grava il karma piú tragico: quello di trasferire l’antroposofia ad Ahrimane.
Spiacenti di dare dispiacere a quelli cui il pensiero non piace, ma per l’uomo è solo il pensiero l’unica attività capace di moto e di sintesi, anche quando s’impegna a fare i conti della spesa.
Per capirci, proviamo a descrivere una possibile (istruttiva) esperienza. Nell’esercizio della liberazione della Forza-Pensiero dal suo ordinario flusso condizionato da corpo e psiche, possono essere molti i gradi di disincantamento e, accanto a questi, esistono pure tanti gradi d’arresto, di paralisi. Ora cerchiamo di caratterizzare uno di questi ultimi. Si parla spesso, correttamente, del caos percettivo che verrebbe sperimentato in assenza di pensiero. Esistono però ulteriori situazioni, modestamente intermedie. È possibile che l’ordinario pensiero s’arresti senza che una piú elevata circolazione si attivi a sostituirlo. In questo caso non c’è il vuoto o il confuso caleidoscopio percettivo: siamo seduti al tavolo, circondati da svariati oggetti: lampada, portapenne ecc. Lo sfondo è visibile con libri, quadri e tendaggi. Tutto al suo posto, ben stagliato con le sue forme e colori. Ma non sappiamo piú che cosa sia! Non sappiamo che il rosso è rosso, che il portacenere è il portacenere, che i libri sono libri. Vediamo tutto, udiamo, tastiamo tutto, con chiarezza, e non sappiamo assolutamente nulla di quel tutto. Beninteso non v’è danno organico o carenza sensoriale, la coscienza permane, ma è in sciopero bianco: pur presente, non può fare nulla.
È solo l’arresto dell’ordinario pensiero riflesso: perfetta eclisse del conosciuto soltanto perché il “pensiero da due soldi” per un attimo si è fermato (un “attimo” a posteriori, poiché anche della somma di impressioni che ci dà il senso del passare del tempo non ne sapevamo piú niente).
Le esperienze spiacevoli (viene detto) sono le piú istruttive perché, a farla breve, quella descritta ci mostra, inequivocabile e all’insegna del puro empirismo, che per l’uomo la piú semplice relazione di pensiero è di una forza immensa, nemmeno confrontabile con quel niente, apparentemente certo, massiccio e perdurante che chiamiamo corpo, che c’è, pesa e permane poiché sostenuto e contessuto continuamente da pensieri. Scriveva Fabio Tombari: “è un re ma non regge”, infatti toglimi per un attimo il pensiero e crollo inerte come un sacco di patate!
Il problema posto dagli amici (e dai tanti che non lo dicono) è, in fondo, un problema rappresentativo, alimentato forse dalle troppe cose che girano impunite per le librerie.
Ossia perché e quanto sia in essi primaria la rappresentazione del corpo fisico: occorrerebbe illuminare con ripetuta attenzione pensante questa rappresentazione. Per percepire quanto sia forte e ossessivo il pensiero che l’alimenta. Se questo pensiero è dominante, urge che venga dominato da un pensiero piú forte. Serve un deciso mutamento di rapporti, poiché una Scienza che cerchi lo Spirito non può partire dal corpo, che significa partire dalla psiche, dall’astrale. Partire dal corpo, dall’astrale, senza tanti giri di parole, significa scegliere la via dei molli, dei lumaconi che non sanno reggersi su se stessi, che scelgono l’istinto che rifugge dall’Io e cerca la psiche in cui trova tutti gli appoggi spiritualizzanti: è un fatto tutt’altro che raro. Il giusto rapporto esoterico per l’organizzazione umana è Io-psiche-corpo, ed è il piú faticoso perché subentra subito la sensazione di dover cominciare sempre tutto daccapo, senza poter poggiare su qualcosa. Ad essere precisi è possibile iniziare dal corpo a condizione di giungere all’annientamento del pensiero che pensa di iniziare dal corpo, ma allora il culmine di tale pensiero è pensiero operante sul pensiero del corpo che elimina il pensiero vincolato al corpo.
La premessa per operare sul corpo passa per la forza che si libera dal corpo, che può iniziare a possederlo perché ne è indipendente. Come affermò un tempo un potente mago (e poeta) partenopeo: “mens agitat molem” e non il contrario. Tale forza si accende attraverso una ferrea ascesi del pensiero, una concentrazione di pensiero portata a totale intensità: difficile ma non impossibile. La vera spada di Michael. Allora anche l’esercizio fisico, atletico o ginnico entra nell’esperienza esoterica, perché diventa uno straordinario tuffo del corpo nella luminosa spontaneità del movimento nell’articolata illimitatezza dello Spazio. Non come antecedente agli esercizi interiori, mai come esercizio interiore o interiorizzato.
Qualcuno avrà notato che l’euritmia, vera arte magica, non è stata menzionata. Sperando di non offendere nessuno, crediamo soltanto che per ricercatori isolati siano dubbie e rare le occasioni di incontrare non tanto insegnanti quanto individualità dotate dell’altissima moralità necessaria e vocate a comunicare veracemente armonia e volontà creatrice nella corporeità.
Qualcosa potrà certo essere indicato, in un prossimo numero di questa rivista, sulla linea data dal Dottore nel capitolo “Condizioni necessarie per l’educazione occulta” del suo libro L’Iniziazione (Ed. Antroposofica, Milano 1971, pp. 85-87). Esercitandosi nel frattempo a separarsi dalle troppe domande che non fanno altro che aumentare il cosmo della dialettica.

Franco Giovi