- Si avvicina giustamente all’antroposofia
colui che, nel chiedere una spiegazione del mondo elimina
tutte le domande che non si basano sulla diretta esperienza,
che non poggiano sull’immediato dato percepito. Le
questioni sull’esistenza di Dio, sul valore della vita,
sulla causa e sul fine dell’universo, sulla missione dell’umanità
appaiono all’antroposofo vuote enunciazioni dell’intelletto
astratto, e perciò egli le pone provvisoriamente in
disparte. Per l’antroposofo vi sono due unici dati
immediati: l’uomo e il mondo. Tra questi due dati egli
vuol stabilire una relazione e fondare con ciò tutto l’edificio
della conoscenza.
- L’uomo esperimenta il mondo in
modo unitario attraverso la percezione. Una pietra, una
pianta, un animale, un altro uomo, gli appaiono unicamente
come percezione, non sono per lui altro che percezione. A
ciò che si esaurisce nella percezione egli dà il nome di
natura.
- L’uomo esperimenta se stesso in
un duplice modo. Una parte del suo essere, il suo corpo, gli
appare come percezione. Sa che questo arto gli appartiene
per mezzo della sensazione, ma d’altra parte esso non
rientra nella sua coscienza e perciò egli lo deve
considerare come natura. Un’altra parte del suo essere, la
sua interiorità, viene esperimentata dall’uomo come
autocoscienza. Qui egli sente veramente se stesso: vive nei
suoi pensieri, sentimenti e atti volitivi in modo immediato
che è piú che autopercezione, è autocoscienza.
- Tale fatto scava un incalcolabile
abisso, apre un immenso divario tra l’uomo e il mondo.
- Il mondo è pura natura
(percezione). La parte esteriore dell’uomo è bensí
immersa nella natura, ma è molto piú che natura: è vita e
sensazione.
- Qui sorge il primo grande problema
antroposofico: la vita e la sensazione degli arti corporei
non possono venir spiegati restando nell’ambito della
natura. Dove va dunque ricercata la loro origine?
- La parte interiore dell’uomo
rivela un’essenza completamente diversa da quella della
natura. Si può anzi dire che rappresenta un’opposizione
alla natura perché nessuna delle leggi che vigono in questa
può venire applicata alla vita interiore dell’uomo. La
natura è percepibile e ponderabile, l’essenza interiore
dell’uomo è invece impercepibile e imponderabile. Per
avere un’immagine del grandioso contrasto tra la natura e
lo spirito, paragoniamo un sasso con un pensiero. Che cosa
hanno essi in comune? Assolutamente nulla. Appartengono a
due ordini della realtà completamente diversi.
- Eppure l’uomo esperimenta giorno
per giorno, ora per ora, che la sua essenza interiore, il
suo spirito, benché diverso dalla realtà esterna in senso
assoluto, per il fatto di essere immerso in quella
semi-natura che è la corporeità, dipenda del tutto dalle
condizioni che dominano negli arti esteriori. Questa
dipendenza nell’uomo tra spirito e materia è ben poco
reciproca. Lo spirito è incapace di dominare la materia,
mentre la materia soggioga completamente lo spirito. Un
semplice mal di capo può impedire di pensare.
- Una volta, da un giovane amico, ho
udito fare questo ragionamento: «Se ricevo una percossa
sulla testa in modo che qualche centro cerebrale venga leso,
cado in svenimento. Ciò dimostra la stretta dipendenza
della mia coscienza dal mio cervello. La morte distruggerà
il mio cervello. Pertanto dopo la morte non avrò piú
nemmeno un barlume di coscienza, non esisterò piú».
- Contro questo ragionamento non si
può obiettare nulla in senso logico. Esso nasce dalla
diretta esperienza. Certo è che siffatti pensieri possono
portare lo sgomento nella vita dell’anima. Questo sgomento
può portare all’antroposofia, perché costringe l’anima
a formulare con tutta chiarezza e crudezza il secondo grande
problema antroposofico: l’esperienza dimostra che l’essere
interiore dell’uomo dipende completamente dal corpo. Vi è
per l’uomo la possibilità di una cosciente e reale
esistenza indipendente da qualsiasi condizione esteriore?
- A questo problema l’antroposofia
risponde in due modi: uno puramente teorico e un altro
fondato sull’esperienza. Tra le opere del Dottor Steiner
troviamo una serie di otto meditazioni per il progresso
interiore. La prima di queste meditazioni ha per titolo:
Colui che medita cerca di acquistarsi una giusta
rappresentazione del proprio corpo fisico. Questa
meditazione dimostra per l’appunto come in modo puramente
conoscitivo, congiungendo cioè la giusta percezione con l’esatto
concetto del corpo fisico, l’uomo giunge alla persuasione
della sua sopravvivenza.
- Noi cercheremo qui ora di indicare
l’altra via che conduce non solo alla conoscenza ma all’esperienza
diretta dell’anatomia spirituale dell’entità umana.
Come prima cosa cerchiamo di renderci conto che la coscienza
dipende dalla percezione. L’uomo acquista coscienza quando
in qualunque modo s’accorge che c’è una realtà al di
fuori di lui. Se camminando distratti per la via andiamo a
dar di cozzo contro un lampione abbiamo l’impressione che
il colpo ricevuto ci abbia ridestati. Possiamo immaginare
ogni percezione, di qualunque genere essa sia, come una
specie di piccola scossa psichica che desta la nostra
coscienza. Per ritornare al ragionamento dianzi esposto dal
mio giovane amico, ora possiamo comprendere perché una
lesione cerebrale tolga la coscienza. Quando il cervello è
leso non percepiamo piú, quindi non abbiamo piú coscienza.
- L’uomo vive in due mondi: nel
mondo dei sensi e nel mondo dei pensieri. Ha la percezione
del sasso e anche il concetto del sasso. Il secondo dipende
dal primo: non posso pensare sul sasso se prima non l’ho
visto. Perciò Tommaso d’Aquino dice: «Non vi è nulla
nell’intelletto che non vi sia giunto per via dei sensi».
Anche da ciò si vede che il senso è essenziale per la
coscienza.
- Ora dobbiamo cogliere l’essenza
della diversità delle esperienze che l’uomo fa nei due
mondi nei quali vive. Diciamo subito che ciascuno di questi
due mondi gli nasconde metà della realtà.
- Il mondo dei sensi gli appare come
percezione della materia e gli nasconde il suo contenuto di
pensiero. Davanti a un orologio, riesco a vedere soltanto il
suo aspetto esterno e non i pensieri che vi ha messo dentro
l’orologiaio. Nel mondo dei pensieri avviene l’opposto.
Qui ho tutto come idea e niente come percezione.
- Per avere il pensiero nel mondo
dei sensi, devo toglierlo a prestito dal mondo interiore
delle idee, e per avere la percezione nel mondo dei pensieri
devo assumerla dal mondo dei sensi. Nella mia mente esiste
il concetto di triangolo; se voglio avere anche la
percezione di un triangolo devo tracciare un corrispondente
disegno su un foglio di carta. Il mondo dei sensi è il
mondo della coscienza perché ci dà la percezione. In che
caso il mondo interiore dello spirito potrebbe anche esso
diventare mondo della coscienza? Nel caso che anche il mondo
dello spirito appaia come percezione. Con ciò abbiamo già
indicata la via per giungere all’esperienza della
coscienza al di fuori del corpo fisico. Si tratta di
acquistare nuovi sensi per percepire quel mondo nel quale
viviamo solo come esseri pensanti. Per fare tanto è
necessario in un certo qual modo rovesciare il comune
rapporto tra la vita dei sensi e la vita del pensiero.
Questo comune rapporto è indicato dalle già citate parole
di Tommaso d’Aquino: «Non vi è nulla nell’intelletto
che non vi sia giunto per la via dei sensi». Orbene, per lo
scopo sopra indicato, è necessario mettere nell’intelletto
proprio qualcosa che non sia stato prima nel senso. A ciò
giovano immagini simboliche costruite per intima necessità
e non in modo di essere una semplice riproduzione di quanto
esiste nel mondo dei sensi.
- Prendiamo in mano un seme
qualunque. Da questo seme si svilupperà una pianta. Il
pensiero ce lo attesta in modo irrefutabile; la percezione
in seguito ce lo confermerà. Noi però non aspettiamo di
avere la percezione. Guardiamo il seme e ci immaginiamo la
pianta. Che cosa è veramente questa pianta-immagine che
abbiamo in tal modo nella mente? È niente altro che un
concetto reso percepibile. In tal modo si percorre la strada
dell’esperienza quotidiana alla rovescia. Di solito
abbiamo prima la percezione e poi il concetto. Con il
processo seguito sopra si ottiene prima il concetto e poi si
passa alla percezione. Si potrà obiettare che questa
percezione è una pura illusione. Sí, dapprincipio lo è;
essa ha soltanto lo scopo di sviluppare nuovi sensi. Una
volta che questi entrino in attività, la percezione da
illusoria diventa reale. Questa percezione però non è piú
una percezione del mondo dei sensi ottenuta per il tramite
del corpo fisico. È una percezione del mondo delle idee
ottenuta per mezzo di sensi interiori.
- Ne risulta una nuova coscienza.
Questa non dipende piú in alcun modo dalle condizioni
corporee. Facciamoci una domanda: un uomo che possiede
questa coscienza soprasensibile, se ricevesse un colpo in
testa, andrebbe ancora in svenimento? Egli perderebbe
naturalmente la percezione del mondo fisico, ma avrebbe
tuttavia la percezione del mondo interiore delle idee. Ciò
sosterrebbe la sua coscienza.
- Per la via che qui abbiamo
indicata, l’antroposofia conduce l’uomo alla reale e
cosciente esperienza del proprio essere in una sfera che
trascende la realtà fisica.
- La duplice coscienza – quella
che deriva dalla percezione nel mondo dei sensi e quella che
nasce dalla percezione nel mondo dello spirito – è
propria dell’Iniziato. Quando si trova nel mondo dei
sensi, l’Iniziato come un qualunque uomo vivo, trae la
percezione dal mondo fisico e il concetto dal mondo
spirituale; quando si trova invece nel mondo superiore, come
un qualunque uomo cosiddetto morto, riceve la percezione dal
mondo spirituale e il concetto dal mondo fisico.
- Il rapporto è invertito. Per
comprendere ciò, immaginiamo un uomo disincarnato, cioè
morto, davanti a un orologio. Il morto non percepisce
naturalmente l’orologio, ma vede l’idea. Quando dico
vede l’idea, non intendo significare che egli l’abbia
sotto forma di concetto come l’abbiamo noi; no, egli la percepisce. Che cosa deve mettere al posto della concretezza
fisica dell’orologio che non percepisce? Deve mettere un
concetto. Ecco in che senso il morto – e anche l’Iniziato
quando si trova nei mondi superiori – deve trarre i
concetti per le sue percezioni dal mondo fisico.
- A questo punto si può rilevare
che non è troppo comodo entrare nei mondi spirituali con
una disposizione d’anima materialistica. Si dirà che
entrando nei mondi spirituali il materialista ha modo di
correggere la sua opinione. Cosí però non è.
Materialista, abbiamo detto, è colui che dà maggior valore
alla percezione che ai concetti. Nel mondo spirituale il
mondo dei concetti è il mondo fisico. Il materialista
perciò, appena entrato nei mondi superiori, comincerà a
parlare dei limiti della conoscenza e dirà che il mondo
fisico è un’invenzione di menti fantasiose.
- Da ciò si vede come sia
importante assumere un giusto atteggiamento di fronte alla
realtà proprio nel mondo fisico. Se la nostra disposizione
animica di fronte alla realtà è errata nel mondo dei
sensi, lo sarà anche, o assai di piú, nel mondo spirituale
in cui entreremo dopo varcata la soglia della morte. L’antroposofia
vuol servire all’uomo di orientamento sia nel mondo fisico
che in quello spirituale.
- Dannosa, forse ancora piú del
materialista, è quella disposizione animica che abbiamo
definita idealismo. Si potrebbe pensare che il soggiorno nei
mondi spirituali riesce di grande soddisfazione all’idealista.
Cosí invece non è. Nei mondi spirituali l’idealista
esperimenta quel medesimo senso di vuoto che prova qui in
Terra. Rimane un idealista. Cioè non dà valore al mondo
dello spirito e pone i suoi ideali nel mondo dei sensi, che
ora gli appare come mondo delle idee.
- Si conosce l’antroposofo dall’intensità
con la quale sente e dal modo con cui pone i problemi. Con
pochi cenni abbiamo cercato di caratterizzare questo modo
sulla base della teoria della conoscenza. Se non si pone
giustamente un problema non si arriva mai alla realtà. L’essenza
dell’antroposofia sta tutta nel suo positivismo sensibile
ideale, nell’uguale valore che essa dà alla percezione e
al concetto, nell’accettazione paritetica della materia e
dello spirito.
- Spesso accade che uomini delle
piú varie tendenze religiose ed esoteriche vengono a
contatto con l’antroposofia. Essi trovano ingiustificata
l’intransigenza dell’antroposofia rispetto le sue
proprie basi concettuali. Di solito ragionano cosí: «In
fondo anche noi crediamo in Dio, nei mondi spirituali, nelle
Gerarchie angeliche, nella redenzione per opera del Cristo,
nella reincarnazione e nel karma; perciò sarebbe facile
metterci d’accordo ed unire i nostri sforzi. Invece gli
antroposofi sono intransigenti e credono di essere gli unici
possessori della verità».
- Naturalmente non è cosí. Gli
antroposofi non pretendono di essere i depositari della
sapienza. Essi non danno speciale valore al fatto di credere
nello spirito e di possedere la verità. Nel campo
spirituale possedere la verità è come possedere in Terra
un pezzo di carbone. Ciò non basta. Bisogna saper
utilizzare il proprio possesso. Chi in Terra sa trasformare
un pezzo di carbone in energia motrice, compie un passo
avanti perché trasforma anche il suo essere. Lo stesso
avviene di chi sa assumere un giusto atteggiamento di fronte
alla verità. La verità deve produrre un cambiamento nell’essere
umano, deve penetrare nella sua volontà e darle un nuovo
contenuto. Perciò il Cristo Gesú ha detto: «Non chi mi
chiama Maestro è mio discepolo, ma chi fa la volontà del
Padre mio che è nei Cieli».
- Chi ha compreso ciò, non trova
piú irragionevole l’intransigenza dell’antroposofia non
per le sue idee, ma per la sua metodologia spirituale.
- Che cosa è veramente l’antroposofia?
L’antroposofia è la scienza dell’uomo evoluto il quale
ha lo spirito come percezione e la materia come concetto.
Completando la scienza naturale che ha la materia come
percezione e lo spirito come concetto, l’antroposofia, o
scienza dello spirito, conduce a una conoscenza integrale,
senza limiti, tanto nel mondo dei sensi che nel mondo dello
spirito.