Siti e Miti

Tito Lucrezio Caro, poeta e letterato, autore dell’opera De rerum natura, non fece in tempo ad assistere alla eruzione del Vesuvio avvenuta il 24 agosto del 79 d.C., regnando l’imperatore Tito Flavio Vespasiano, a detta di Svetonio “amore e delizia del genere umano”. Lucrezio, filosofo messianico epicureo, era nato a Pompei il 98 a.C. e vi era con molta probabilità anche morto intorno al 55 a.C. Gli venne perciò risparmiata la visione della sua amata città divorata da cenere e lapilli e asfissiata dai gas venefici emanati dal vulcano. Ma se vi avesse assistito, dato il suo credo meccanicistico razionale, le sensazioni trasmesse al suo animus dai simulacra rerum – le sottilissime membrane capaci di veicolare le esperienze sensorie – avrebbero forse, per istinto, attivato, e con urgenza, la sua anima – ovvero, sempre secondo la sua concezione speculativa, la forza vitale di cui ogni uomo dispone – per imprimere alle sue gambe quel moto accelerato che gli avrebbe consentito di scampare alla triste e miserrima sorte che toccò purtroppo a buona parte dei suoi concittadini. Ma il fenomeno eruttivo e le rovine che esso provocò nella natura e nella società umana, non lo avrebbero interessato piú di tanto. In definitiva essi confermavano quello che egli andava predicando da sempre, e che cioè in natura nihil ex nihilo, nulla nasce da nulla, e perciò morte e vita altro non sono che processi di aggregazione e disgregazione di atomi liberi di agitarsi e roteare nel vasto spazio vuoto, il vacuum che tutto contiene e tutto assorbe. I cataclismi, i fenomeni disastrosi della natura non si verificano per volere di trascendenza né per fatalità, ma per una pura e semplice coincidenza, ovverosia per cause ed origini eminentemente fisiche. Non certo avvengono, secondo Lucrezio, per opera e volere degli Dei, i quali si disinteressano bellamente delle vicende umane. Reclusi a regime dorato negli spazi eterei, gli intermundia, essi trascorrono un’esistenza beata tra canti, suoni e balli, ignorando totalmente le miserie e le passioni umane. Dal canto loro, gli uomini soggiacciono alla casualità delle occorrenze cosmiche e naturali senza nulla potervi opporre, a meno che uno spiraglio occasionale, accidentale e del tutto fortuito, il clinamen, ovvero il caso, non conceda loro una chance di libero arbitrio.
Lo spettacolo terrificante che il Vesuvio mise in atto quel 24 agosto del 79 d.C., annunciato per la verità con un grande battage di tremori, scosse, boati e fumi già da parecchi giorni prima, attrasse invece il celebre naturalista, scienziato e storico Plinio il Vecchio. Questi era anche autore, tra le varie sue attività, della ponderosa Naturalis historia, un’opera enciclopedica composta di ben 37 libri, contenenti tutto lo scibile dei Romani riguardo a cosmografia, geografia, etnologia, zoologia, medicina e mineralogia.
Fu proprio per voler soddisfare la sua curiosità scientifica, e in particolare il suo interesse per la mineralogia, che Plinio, a quell’epoca comandante della flotta romana dislocata a Capo Miseno, allestí una galea e, dopo aver attraversato il golfo di Napoli, puntò dritto verso l’infuocato scenario dell’eruzione. Voleva raccogliere dati sullo svolgimento del fenomeno, ma soprattutto intendeva aggiungere alla sua collezione di pietre rare uno di quei proietti lavici, e magari piú di uno. La nave si avvicinò troppo alla riva di Stabia, oggi Castellammare, e cosí Plinio venne gratificato in eccesso dalla dea Fortuna, che gli inviò uno di quei sassi roventi proprio sulla testa. Lo scienziato, vittima della propria passione e sete di conoscenza, morí sulla tolda del bastimento, portandosi dietro la visione unica e irripetibile di una dimostrazione di potenza della natura. E chissà, per lui, piú credente di Lucrezio, forse quell’evento poteva anche rappresentare un segnale dell’interferenza dei Numi nello svolgersi diacronico dei cicli cosmici ed esistenziali umani e terrestri.
Dopo secoli da quella fatidica giornata, in cui vennero cancellate dalla storia e dalla geografia del territorio tutte le città, borgate e ville da Napoli a Nocera, altri naviganti si avvicinavano al Vesuvio in eruzione mentre correva l’aprile 1944. Erano gli equipaggi dei B17 e B29, le superfortezze volanti americane, e quelli dei bombardieri Lancaster inglesi, che, decollati dalle portaerei alla fonda nel golfo di Salerno, dalle basi in Sicilia e nel Tavoliere foggiano, si dirigevano a scaricare il loro letale fardello di bombe su Napoli.
Dinanzi ai loro velivoli si ergeva una terrificante barriera: dalla montagna a levante della città, una gigantesca colonna di denso fumo grigio invadeva il cielo. Una diavoleria delle truppe tedesche, attestate sulla linea Gustav, in un estremo disperato tentativo di contrastare l’avanzata della Quinta armata del generale Clark e dell’Ottava comandata dal britannico Montgomery? O forse un’arma segreta di Hitler di cui le intelligence anglo-americane non erano riuscite a registrare l’esistenza e la portata strategica?
Nessuna delle due fantasiose ipotesi! Era il Vesuvio che dava al mondo il suo passo d’addio, l’uscita di scena. E come tutti i napoletani che si rispettino, lo faceva con piglio esuberante, estroso e alquanto teatrale. Anche allora aveva preannunciato la sua andata in quiescenza con tremori e scosse durante tutto il mese di marzo, ma soltanto nei primi giorni di aprile aveva sollevato il sipario, dando vita a un’esecuzione di verace stampo partenopeo, un’esibizione pirica di raro effetto. Questa volta però a salve: niente lava e neppure un filo di gas velenoso asfissiante. Sí, lapilli ne caddero, anzi alcuni arrivarono fino al lontano Cilento. Le cronache riportarono gustose macchiette di abitanti delle zone colpite costretti a uscire dalle loro case riparandosi da quella festosa gragnola con tegami e bagnarole sulla testa. Il grande vulcano riteneva inutile prendersela con una popolazione che troppe ne stava passando e troppe ancora ne avrebbe passate nei mesi e anni a venire. Per riedire le rovine di Pompei, Ercolano e Stabia, questa volta gli uomini non avevano piú bisogno della sua azione deterrente, bastavano a se stessi con la furia bellica.
Moriva uno dei piú possenti Numi tutelari di Napoli e dintorni. Tutela da intendersi non solo come elargizione di una copiosa fertilità del suolo, di acque e malte risanatrici, ma altresí, all’occorrenza, come paterno rigore capace di ammonire e persino di castigare gli uomini deviati dal sentiero di consonanza con le leggi morali e naturali.
In quell’aprile di tanti anni fa moriva anche Napoli, che dalla guerra sarebbe entrata nella nuttata dell’abbandono e dello smarrimento sociale, nel tunnel buio delle promesse e aspettative disilluse. Dicono però gli esperti che il Vesuvio non sia veramente e del tutto morto, o come essi dottamente specificano “spento”. Sostengono che prima o poi si risveglierà, e il suo pennacchio tornerà ad abbellire le cartoline riproducente il golfo della splendida città fondata da una sirena, quella Partenope che si bagnava nelle acque un tempo smeraldine e incontaminate della baia.
Qualche spirito romantico, superstite alla temperie prosaica dei nostri giorni, insinua invece che questa città è come la corte della Bella Addormentata: un arcano sortilegio ha fatto scivolare tutti in un sonno profondo, dal re e la regina fino all’ultimo dei servi. Ma verrà, essi dicono, il principe che bacerà la Bella inerte nel suo freddo giaciglio, e tutto allora riprenderà a vivere: umani, animali e cose. Sarà stato come un brutto sogno, dal quale era tempo di ridestarsi. Intanto lo “sterminator Vesevo”, che faceva trepidare Leopardi, ancora dorme. Tarda il principe, e malefíci di ogni genere tuttora rendono fitte di rovi, e malsicure con trappole mortali, strade, piazze e contrade, insidiando le dimore di tanto buona gente. Ma i Numi, se richiesti, torneranno, e la nuttata, si spera, passerà.

Ovidio Tufelli

Immagini:
– «Il Vesuvio quale divinità tutelare dispensatrice di vita» Pittura pompeiana, Napoli, Museo Nazionale
– Panorama di Napoli durante l’ultima eruzione del Vesuvio del 1944