La
stella diana, sorgendo tra il Colle Oppio e l’Esquilino,
annunciava l’alba invernale. Dalle caserme dei vigili, dai
cortili dei castra pretoriani le trombe squillavano per
dare la sveglia ai militi. Giú in basso, ai piedi del
Palatino, la Casa delle Vestali si animava, e l’Imperatore,
loro Pontefice, immaginava tutto il fervido brulicare di anime
devote, il fruscío dei veli e dei passi nei vasti ambulacri,
lo sciamare verso il tempio della Dea per le preghiere
mattutine e il culto del fuoco. Si udivano infatti i vaghi
accenni di un canto, come una litania. Non gli giungevano le
fragranze degli incensi bruciati, ma se ne figurava l’effondersi
nell’aria brumosa del Foro, insieme agli odori piú forti
della legna bruciata nei forni dei panifici e nelle cucine dei
termopòli che aprivano ai clienti mattinieri. L’astro
lucifero si librava, ora piú evidente, proprio al di sopra
degli Orti di Mecenate. Osservando quel punto luminoso che
palpitava nel cielo appena rosato, il principe di Roma andò
con la memoria al suo grande consigliere e amico, e agli
ingegni poetici che aveva protetto e guidato dall’anonimato
fino al successo e alla fama imperitura: Virgilio, Orazio e
altri, i cui nomi gli risuonavano dentro, insieme all’orgoglio
di aver contribuito col suo potere a dare maggior lustro alla
gloria di Roma, la sua Roma.
- Erano
tutti morti, quei geni, eppure li sentiva tuttora vivi
aleggiare intorno.
Quanto avrebbe ora desiderato averli vicini, per ricevere da
loro consigli, illuminazioni sugli eventi che si stavano
preparando e di cui egli non riusciva a cogliere i segni e
interpretarli nel loro esatto valore e mònito. Da qualche
tempo ormai, quasi ogni notte, faceva un sogno, sempre lo
stesso. Benché variassero da una notte all’altra alcuni
minimi dettagli nel suo svolgimento, rimanevano immutate le
inquietanti sequenze. Si trovava sopra un’altura dove
sorgeva un tempio svettante su un alto podio. Tutt’intorno
al sacrario colonne marmoree. Sarebbe voluto entrare nell’edificio,
ma qualcosa, una misteriosa forza, gli impediva di muoversi, e
cosí restava sulla scalea che conduceva all’atrio del
tempio. Smarrito, colmo di un’angoscia mortale, non osava
avanzare per accedere al pronao, e neppure ridiscendere i
vasti gradini di pietra scura. Ma ecco uscire dal tempio una
sacerdotessa vestita di bianco, sulla fronte le sacre bende
dell’offerta sacrificale. Nella mano, però, non reggeva la
patera d’oro su cui venivano normalmente poste le offerte
alla divinità, ma impugnava una clessidra enorme, la cui
sabbia ruvida sinistramente traspariva dal vetro del
contenitore. Un velo spesso copriva le sembianze della virgo
officiante, per cui non riusciva a capire se si trattasse di
una donna in là con gli anni o di una giovane appena iniziata
al misteri della Divinità. Neppure questa appariva
riconoscibile, né era possibile individuare il luogo ove
sorgeva il santuario. Anche perché il sogno, con l’incalzante
susseguirsi delle immagini, non lasciava il tempo di
riflettere. Poi si scatenava un turbine nell’aria offuscata
dalla nebbia, e l’officiante, girandosi di colpo verso la
stretta valle ai piedi dell’acropoli, con la mano libera
dalla clessidra additava con un gesto drammatico, carico di
una insospettata energia, il cielo a Levante. Vi si disegnava
un profilo di colossali edifici austeri, con propilei, guglie,
tetti maestosi, portici chiusi intorno a vasti e ombreggiati
cortili. Una città poderosa, vibrante di solennità e
ricchezza. La mano della sacerdotessa si agitava, come se
volesse operare uno scongiuro contro un’incombente minaccia.
Quindi la terra cominciava a tremare, e la cèntina urbana che
si profilava a Levante contro il cielo, tipica di una città
che poteva essere Roma, o Atene, o Ninive, o Babilonia, si
sgretolava sotto le spallate del sisma. E tutto crollava con
un frastuono sordo, e la polvere si aggiungeva alla nebbia.
Anche il tempio davanti al quale si trovava la sacerdotessa si
frantumava, ma non precipitando in velocità, bensí
smembrandosi lentamente. Anche la clessidra, scagliata lontano
dalla celebrante, si frantumava contro le pietre del basamento
in una miriade di scaglie lucenti.
- Livia,
che lo sentiva smaniare nel sonno, faceva svegliare l’aedo
in piena notte. Il suono della cetra e il canto sereno
lenivano in parte l’ansia che dal sogno si trasferiva alla
coscienza nel risveglio. Ma tutto era inutile. L’angoscia si
protraeva. E neanche serviva a calmarlo l’acqua della ninfa
Carmena che le ancelle, su ordine dell’imperatrice, andavano
ad attingere nel sacro bosco di Egeria, in fondo alla valle
Murcia.
- «Sono
i Saturnali – concludeva Livia, che amava spiegare ogni cosa
con la sua tranquilla certezza di donna pratica. – Umori
strani vengono dalla terra, tutto è fermo. E nell’inerzia
del tempo si insinuano i Mani inferi che danno distorte
visioni. Finiti i giorni del solstizio, tutto tornerà come
prima».
- Ma
intanto il sogno ritornava uguale ogni notte, con la sua
nebbia e i suoi crolli. Quella notte, però, l’Imperatore
non aveva taciuto. Al momento finale, quando la sacerdotessa
lanciava la clessidra e il tempio cadeva in frantumi, egli
aveva raccolto ogni sua volontà ed energia, si era teso come
un arco e aveva gridato: «Che vuol dire tutto ciò?».
- Gli
occhi della sacerdotessa lo avevano fissato con stupore, quasi
non credendolo capace di articolare quelle parole. La bocca di
lei, divenuta nel sogno una scarmigliata sibilla invasa dal
soffio divino, si era aperta, e le labbra aride si erano mosse
a rispondere. Ma erano quelle labbra rinsecchite dai secoli a
parlare, oppure la voce che egli aveva udito proveniva dall’alto,
enunciando un responso celeste? Gli era parso infatti di
ascoltare chiaramente declamare: «Sol tibi signa dabit»,
il sole gli avrebbe dunque chiarito l’arcano di ciò che il
sogno gli aveva mostrato. Il sole, il segno… Ma lui aveva
già sentito quella frase. Anzi, era parte di un verso,
composto da chi e con quale simbologia non ricordava.
Coprendosi con un corto mantello, il primo che gli era
capitato sottomano, era uscito dalla domus, le membra
ancora indolenzite dalla precarietà del riposo, ma la mente e
il cuore dèsti, tesi alla verità di quelle parole. Ripeteva
tra sé: “Il sole ti darà il segno, la rivelazione che
attendi”.
- Livia
gli mandò dietro due guardie pretoriane munite di torce. Dopo
la congiura di Murena e Cepione, la domina aveva in
sospetto la città che aveva fatto di suo marito una figura
divina, dopo averlo eletto legislatore supremo e Pontefice
massimo, e intanto correvano voci che il Senato si apprestava,
col nuovo anno, a tributargli l’apoteosi dell’immortalità.
Lodevoli sentimenti, pensava, slanci di dedizione alla figura
del principe collocata ormai tra il popolo e gli dèi. Nessuno
piú in alto di lui. Ma Livia non si fidava, tuttavia. Due
ombre massicce, nel controluce delle torce, tallonarono quindi
l’Imperatore. Accanto al tempio di Apollo che guardava l’Aventino,
si stagliava l’imponente edificio della Biblioteca. Il
curatore si levò insonnolito e accolse l’illustre ospite.
- «Le
Georgiche, o divino», confermò prontamente lo studioso,
non appena Augusto gli ebbe recitato il verso. L’uomo si
diresse poi verso una nicchia ricavata nell’alta parete
della sala rettangolare, e trasse da uno scaffale, contenente
diversi volumina, un rotolo di papiro. Lo adagiò con cura sul
banco che fungeva da leggío e lo svolse alla luce delle torce
che i due pretoriani stavano per protendere.
- «No
– intimò costernato il curatore alle guardie, – non la
fiamma nuda. Ho di meglio». Recuperò una lanterna a lastre
di mica, l’accese e ne richiuse con cautela lo sportelletto.
Un fascio di luce dorata, resa piú intensa dalla natura
opalescente del minerale, illuminò i caratteri tracciati sul
papiro. Il bibliotecario scorreva con gli occhi ancora
intorpiditi il rotolo.
- «Ecco,
ho trovato. È nel libro primo delle Georgiche». Si
schiarí la voce e cominciò a leggere: «Il sole ti darà dei
segni. Chi potrà mai smentirlo? Ti avviserà dei tradimenti,
delle congiure in atto e delle guerre che possono dichiararti…».
Il curatore si arrestò, sollevò gli occhi dallo scritto e li
rivolse ad Augusto: «Qui si parla dei segni che annunciarono
la morte di Cesare». Riprese la lettura: «Il sole si coprí
di nubi… l’Etna ribolliva vomitando globi in fiamme… le
Alpi tremarono e il cielo della Germania risuonò di uno
strepito d’armi… una voce disumana echeggiò nelle foreste
e i fiumi arrestarono il loro corso… le statue di bronzo nei
templi trasudarono sangue e cosí i pozzi…». Al riverbero
delle fiaccole, gli occhi del curatore apparivano ora pervasi
dallo sgomento. «Perché questi versi, o divino? Non si
attagliano alla tua figura. Il tuo regno è felice. Cosa
dunque ti turba? Tu vieni qui da me e cerchi risposte al tuo
tormento. Dovresti semmai chiedermi di leggerti la Quarta
Ecloga delle Bucoliche, dove si parla del ritorno della
Vergine, della giustizia e della pace. E tu queste cose le hai
ben date a Roma. Questo è il Grande Anno, e altri prodigi ti
riguardano, e tutti fausti. Non hai sentito? Nonostante l’incipiente
inverno, le vigne del Tuscolo hanno maturato grappoli turgidi,
pronti per essere raccolti. I cavalli parlano nelle scuderie,
e cosí in mare le sirene hanno annunciato con le loro voci la
morte di Pan e la Sibilla ha vaticinato la nascita di un
Essere celeste che rinnoverà il mondo. Avvengono fatti
miracolosi, ma benigni, e tutti preconizzano i tempi aurei di
Saturno. Non piú tardi di ieri, poco distante da qui, al Foro
Boario, da una fenditura della terra è sgorgato olio, in tale
quantità da formare un vero e proprio torrente, che si è
riversato nel Tevere, e dal quale tutti hanno attinto».
- «Sí
– confermò l’Imperatore – mi hanno riferito. Ma io sono
assillato da un sogno di ben altra natura».
- «Posso
ascoltarti, se ciò ti darà sollievo».
- Augusto
raccontò l’esperienza che viveva ogni notte in una
dimensione aliena, e che opprimeva il suo animo. Al termine
del racconto il curatore disse:
- «Devi
allora andare da Eumachia, la flaminica di Giunone Moneta, su
all’Arce capitolina. Lei ti chiarirà il mistero. Il tuo è
un sogno che viene attraverso la porta cornea: è veritiero. E
vuole dirti qualcosa di importante. Ma solo la sacerdotessa
della grande Lucina può illuminarti sugli enigmi della notte,
darti consiglio, svelandoti il contenuto arcano dei simboli
che la visione onirica contiene. Va’ dunque da lei, e
subito. Il sole sta per sorgere».
- Si
formò un piccolo corteo. I pretoriani divennero quattro, su
insistenza di Livia, e sempre lei volle che due littori
precedessero con le torce. Ma non riuscí tuttavia a imporre
la lettiga, che suo marito comunque disdegnava, per una sua
naturale propensione all’austerità.
- Dalla
domus imperiale il gruppetto si avviò giú per il
Clivo della Vittoria verso il Foro. Com’era cambiato il
Palatino! La frenetica speculazione edilizia degli ultimi
tempi, dopo la fine della Repubblica, aveva travisato quasi
per intero l’assetto urbanistico della collina sacra, su cui
erano sorte le capanne dei primi abitanti dell’Urbe
Quadrata. La casa dell’oratore Ortensio, dove Augusto era
nato sessantatré anni prima, non esisteva piú, cosí come
era sparita la viuzza denominata “Ad capita bubula”
in cui era ubicata la modesta dimora e dove il piccolo
Ottaviano aveva giocato insieme ai suoi coetanei. La via aveva
preso quel nome strano, “Delle teste di bue”, dalla
vistosa insegna di un vasaio proveniente dall’Alto Nilo, un
certo Fanes, seguace di Iside, che aveva appeso al muro
sovrastante la sua bottega due teste di bue in argilla,
coronate di poderose corna, emblema delle divinità egizie di
cui era devoto.
- Ormai
la luce solare indorava la cima del Colle Oppio e rimestava
coi suoi raggi nella cortina di nebbia che gravava sulla
Velia, dissolvendola. Il corteo passò davanti al tempio di
Vesta, imboccò la Via Sacra, costeggiò la Curia, poi i
Rostri, per raggiungere il Clivo Argentario che conduceva all’Arce
capitolina. Davanti al
tempio di Saturno c’erano ancora i sigilla, le
statuine di cera che i devoti avevano offerto al dio, e i
serti di alloro e mirto coi quali si erano incoronati gli
schiavi, per pochi giorni diventati pari ai loro padroni,
euforizzati da una libertà che per un altro anno non
avrebbero piú assaporato.
- Il
riferimento del curatore della biblioteca alle Bucoliche
di Virgilio fece tornare alla mente di Augusto il viaggio a
Megara, in Grecia, compiuto in compagnia del poeta nell’estate
di diciannove anni prima. Si erano incontrati ad Atene, lui
reduce dalla campagna contro i Parti, Virgilio impegnato a
visitare i luoghi classici da cui aveva tratto ispirazione per
i suoi poemi, in particolare l’Eneide, ultimata
proprio quell’anno, ma che l’estrema acribía dell’autore
ancora intendeva sottoporre a verifiche e raffronti con la
realtà dei luoghi. Il poeta gli era apparso visibilmente
provato da quell’eccessiva esigenza di perfezione, e l’andata
a Megara sotto l’ardente sole greco, con l’afa opprimente,
lo aveva ulteriormente prostrato. Durante il viaggio di
ritorno ad Atene si era perciò reso necessario utilizzare non
la semplice carpenta a due ruote, ma la piú comoda e
spaziosa carruca dormitoria. Il poeta vi aveva
viaggiato disteso quasi per tutto il percorso. Il colpo di
calore lo aveva portato prossimo al delirio. Inutilmente il
medico si era prodigato con impacchi rinfrescanti, per calmare
la febbre che faceva smaniare il malato.
- In un
momento in cui minore era lo stato di spossatezza, Augusto
aveva parlato dell’Eneide, accennando alla sua
prossima pubblicazione, e affermando che l’opera lo avrebbe
consacrato poeta massimo, e con lui la suprema gloria dell’Impero
di Roma. Era stato allora che Virgilio aveva detto, con la
voce che riusciva a stento a dominare il balbettío febbrile:
«L’Eneide è l’inizio, la nascita di Roma, le Georgiche
sono il centro, il tuo regno, Augusto, le Bucoliche sono però
il futuro che io ho sognato per tutti gli uomini».
- Aveva
cosí rovesciato la sua parabola ispirativa, ponendo l’idillio
quale felice conclusione delle cose, annunciando l’avvento
dell’èra di rinnovamento del mondo, la metacosmesis
preconizzata dai pitagorici, con la finale palingenesi dell’ordine
sociale a Roma e in tutto il mondo. Artefice di questo, il Puer,
quel fanciullo che avrebbe restaurato l’armonia perduta. Il
poeta però sembrava non riconoscerla nel suo attuale regno,
bensí in uno di là da venire. Come e quando, però, si
chiedeva, il sogno del poeta si sarebbe realizzato?
- La
novizia notò dall’alto dell’Arce venire su per il Clivo
Argentario il piccolo corteo. Riuscí a distinguere, al
chiarore delle torce, al quale ormai si univa la luce del sole
nascente, l’aquila imperiale impressa sugli scudi dei
pretoriani. Corse all’interno del tempio.
- «Magistra!
– disse trafelata alla flaminica intenta a sacrificare. –
Cesare è qui». La sacerdotessa interruppe il rito e sollevò
il velo purpureo che le copriva il volto, avviandosi ad
incontrare l’Imperatore. Quando Augusto iniziò a salire la
gradinata, seguito dai littori e dai soldati, Eumachia lo
apostrofò con severità:
- «Divino
Pontefice, hai dunque timore della Dea se entri in armi nel
suo sacrario?».
- Augusto
fece un cenno con la mano e i suoi accompagnatori si fermarono
ai piedi della scalinata che portava al tempio.
- «Vieni
– disse poi la sacerdotessa – stavo officiando. Unisciti a
noi. Poi mi dirai perché sei venuto».
- Il
sole era apparso in tutta la sua rotondità sull’orizzonte,
emanando una luce radiosa. L’Imperatore stava per indicarlo
col braccio levato, ma le invocazioni della celebrante
interruppero il suo gesto. La cerimonia non durò a lungo.
Mentre Eumachia bruciava le offerte che le serventi le
recavano nelle ciste e sui vassoi dorati, un coro di
voci melodiose scioglieva un canto sommesso, di una inaudita
dolcezza. Sembrava venire dal cielo, al di sopra del tempio,
simile a un leggero vento alciònio, la brezza che rompe come
per incanto il rigore dell’inverno. Quasi rapito in estasi,
Augusto uscí allo scoperto, varcando la fila di alte colonne
che circondavano il santuario. Il sole era visibile in tutta
la sua possanza,
un
grande disco ramato che venne percorso da un volo di uccelli
neri ed enormi. Gli auspici celesti. Ed ecco il prodigio: al
centro della sfera fulgente la figura di una donna maestosa,
che teneva nelle braccia un bambino circonfuso di splendore.
-
- Iam
redit et Virgo, redeunt Saturnia regna
- iam
nova progenies caelo demittitur alto.
- Tu
modo nascenti puero…
-
- I
versi di Virgilio gli risuonarono ora nella mente, mentre la
visione, divenuta ancor piú evidente, aveva richiamati fuori
dal naos anche la flaminica e le ancelle che
attendevano al rito. Fu in quel momento che una voce echeggiò
nel vuoto spazio oltre il culmine del sacrario di Giunone:
«Quel fanciullo è piú grande di te. È il primogenito del
Verbo. Adoralo! Questa è l’Ara del Cielo».
- L’Imperatore
indossò allora i paramenti sacri, e da Pontefice Massimo,
sull’altare dove fino ad allora erano state consumate le
offerte alla Grande Madre degli Dei, sacrificò in onore del
Figlio di Dio. Eumachia si tolse le sacre bende dell’antico
culto e depose la corona d’oro che le cingeva la fronte. Poi
la sua mano corse alla clessidra che scandiva il tempo delle
liturgie e la gettò nel fuoco. Prima di fondersi all’ardore
della fiamma, la sabbia crepitò in scintille multicolori. Nel
cielo ormai chiaro, la visione si era dissolta.
- Una
grande pace era discesa sul mondo.