Siti e Miti

Tra i tanti pur nobili palazzi veneziani, quello voluto da Messer Andrea di Niccolò da Santa Maria Formosa, e da questi commissionato intorno al 1490 all’architetto bergamasco Mauro Codussi, è il piú elegante, armoniosamente solenne e fedele alle linee architettoniche rinascimentali. L’edificio, che affaccia sul Canal Grande, è il miglior testimone della ricchezza e del potere, sia politico sia economico, raggiunto in quell’epoca dal patriziato della potente Repubblica Ducale. E i Loredan, da cui discendeva Messer Andrea, Capo del Consiglio dei Dieci, si collocavano tra le piú illustri casate della città. Seguendo un’animata storia di vendite e successioni ereditarie, Ca’ Loredan «una honoratissima et degna caxa sopra il Chanale Grando cum una faza davanti, la piú bella che ahora se atrova in Venetia», secondo quanto descriveva il cronista Girolamo Priuli nel 1509, passò per varie mani tra cui quelle del duca di Brunswick, nel 1581, e del marchese di Mantova. Finché, nel 1589, il facoltoso patrizio Vettor Calergi ne riscattò l’intera proprietà aggiudicandosela ad un’asta pubblica per soli 31mila ducati. I Calergi, originari di Creta, si imparentarono lungo due secoli con varie famiglie: Gritti, Sagredo, Grimani e Cornaro, e infine, nel 1739, coi Vendramin, che aggiunsero al proprio cognome quello dei Calergi. A questa famiglia il palazzo appartenne fino al 1844, quando gli ultimi rappresentanti del casato, Niccolò e Francesco, lo vendettero alla principessa Carolina di Borbone, vedova del duca di Berry, e madre dell’ultimo erede legittimo al trono di Francia, Enrico V, conte di Chambord. La duchessa, che si era posta a suo tempo a capo di una rivolta di contadini in Vandea, reggeva ora, dal palazzo sul Canal Grande, le fila delle rivendicazioni legittimiste di molte teste coronate europee detronizzate.
Nel 1865 il palazzo venne dato in usufrutto all’Ordine di Malta. Il motto “Non nobis Domine, non nobis”, tuttora visibile sul basamento dell’edificio, ricorda la permanenza nel palazzo dell’Ordine derivato da quello dei Templari e di San Giovanni. Il conte Bardi, imparentato coi Borboni, mantenne la residenza ai piani alti, mentre i Vendramin conservarono il diritto di alloggio al mezzanino, composto da quindici spaziose stanze con saloni.
Fu qui che si sistemò Richard Wagner con la famiglia il 18 settembre 1882, in fuga dall’inclemente cielo di Bayreuth, che aveva rovesciato pioggia, brume e nebbie sulla Festspielhaus della cittadina bavarese, dove in successive rappresentazioni durate tutta l’estate, a partire dal 26 luglio, era stato eseguito per la prima volta il Parsifal, l’opera testamento spirituale del Maestro. Al termine dei vari concerti, Wagner era apparso stanco e logoro, come svuotato di ogni energia. Prima dell’ultima rappresentazione aveva confidato a sua moglie Cosima il presagio della sua fine imminente. Nel diario di lei queste parole: «Tardi nella sera sedevo sola, meditando a lungo tristemente, fin quando la mia mente eccitata cadde nel sonno. Ed io seppi come sarebbero state le cose in avvenire».
Presagi che l’atmosfera di Venezia sembrò confermare. A novembre venne Liszt in visita alla città e fu ospite dei Wagner. Al grande pianoforte del palazzo, nel teatro voluto dalla duchessa Carolina, il vecchio virtuoso compose un brano che intitolò “La lugubre gondola”. Tutto convergeva quindi nella suggestione che Wagner fosse venuto a Venezia per spegnere il fuoco della sua inesausta creatività nelle torbide acque della laguna.
Come ogni anno, Wagner non volle far mancare a sua moglie il regalo sorpresa per il compleanno di lei, che compiva 45 anni il 25 dicembre. Di nascosto, concertò con l’orchestra del Liceo “Benedetto Marcello” la prima e unica sinfonia da lui composta quando aveva vent’anni, quella in do maggiore, diretta alla Gewandhaus di Lipsia nel 1833. La sinfonia fu eseguita sotto la sua direzione il 24 sera, a “La Fenice” illuminata a festa, e costò al Maestro uno sforzo sovrumano, ma fu il dono piú bello che Cosima avesse mai ricevuto dal marito. Quel chiudere il cerchio della parabola creativa del genio di Lipsia era l’addio a tutto: a lei, alla musica, al mondo.
La sera del 12 febbraio il richiamo dell’acqua profonda, dove tutto ha origine e fine, lo vinse. Seduto allo stesso pianoforte, Wagner suonò il lamento delle tre Figlie del Reno: Oro del Reno! Oro del Reno! / Oro puro! Oh, lucesse ancora nel profondo il tuo puro gioco! / Schietto, fedele / solo è nel profondo: / falso e vile / è quel che lassú trionfa!
Il giorno dopo, nel pomeriggio, mentre era allo scrittoio lavorando al suo saggio sull’elemento femminile nell’umanità, il suo cuore ebbe un sussulto. La mano che tante note aveva stilato e composto in armonie ineguagliabili, diretto nelle magistrali risonanze del golfo mistico, agitò spasmodicamente il campanello di soccorso. Cosima fece appena in tempo a stringere il marito tra le braccia.
«Il mondo pareva diminuito di valore». Con queste parole Gabriele D’Annunzio commenta nel Fuoco la scomparsa di Wagner, avvenuta a Venezia alle ore 15.30 del 13 febbraio 1883. Alla notizia della morte, il giovane poeta era accorso da Roma insieme ad altri suoi amici carissimi, devoti sostenitori dell’autore del Parsifal e di Tristano. Cosima acconsentí che i giovani italiani trasportassero il feretro dal salone del mezzanino di palazzo Vendramin alla barca, e dalla barca alla stazione per il rientro in Germania. Da Roma, il poeta e i suoi compagni avevano portato fasci d’alloro colto sul Gianicolo. Ne ornarono la bara. «Un odore triste di balsami e di fiori» permeava la sala, e lei, «la donna dal viso di neve» era lí, silenziosa e dolente, Musa privata della luce del suo Apollo citaredo, l’eroe che «aveva trasformato in infinito canto, per la religione degli uomini, le forze dell’Universo».
Ai pali dell’ormeggio attendeva la nera gondola, e l’uomo del remo, l’estremo pilota, aveva gli occhi umidi di pianto. Uno stormo di colombe, riferisce il poeta, si levò in volo dal portego del palazzo, passò radente sulla gondola, poi si perse in un riverbero dorato, oltre le cupole e i tetti. Venezia, eterno palcoscenico di maschere ed umori, dava l’ultimo saluto all’uomo che piú di chiunque altro aveva fatto della propria vita l’opera d’arte totale.

Leonida I. Elliot