Poesia


John W. Waterhouse «Eco e Narciso», 1905

Inattese mitezze ci sorprendono
tra furie d’uragano, luci chiare
e cieli con speranze di turchese
oltre nembi in tumulto. Nei giardini
ombre furtive destano memorie
d’antichi amori non vissuti, scorrono
lampi, sussurri, chiome trattenute
da crudeli rameggi, sospirose
ninfe anelanti ai cuori degli umani.
Una si leva, nata dalle brume
vaporanti sull’erba, un lieve raggio
ne accende forme e gesti, della rosa
tardiva gli ineffabili profumi
l’inebriano d’ardore. Risvegliata,
verso il mondo protesa, ascolta il giorno:
freme l’intrico verdeggiante, viene
forse Narciso, viene, lo ha sognato.
Oppure è la rugiada mattutina
che si dissolve e cade, goccia a goccia,
scivolando leggera, frantumandosi
di foglia in foglia, voce iridescente,
pianto su gote arboree, muto spasimo
per l’inutile attesa dei suoi passi.
Di lui che, preso dalla propria immagine
per sortilegio della Dea ciprigna,
altro non vede, altro non desidera.
Ed ecco, è lí, chinato sull’arcana
sorgente, catturato dal prodigio.
Che dirà mai la fonte divenuta
l’incredibile specchio del suo viso?
Lo sedurrà con vividi riflessi
nell’incanto di sé, profondamente.
E lui si perderà, loto reciso
dal suo gambo sottile, secondando
flusso e riflusso in un fatale vortice.
Berrà tutto il mistero che trattiene
la polla, per volere d’Afrodite.
L’acqua maliosa spegnerà i suoi occhi.
E lei lo cercherà senza riposo,
di valle in valle, futile richiamo,
poi sfiorirà come tardiva rosa,
il suo grido svanito alla distanza.
Mille volte risuona, mille volte,
lo ripetono uguale boschi e monti,
giunge stremato a noi come relitto
di marine tempeste, quel richiamo,
dall’oceano del tempo riportato
a queste rive dove una chiaría
di sole, diradando spesse nebbie,
anima storie, favole, presenze.

Fulvio Di Lieto