Socialità

La maturità di un popolo, o almeno la sua evoluzione in senso civico, qualora il civismo sia sia anche condito di sano realismo, si evince da minimi particolari. Fino a tempi recenti,
sugli autobus di linea campeggiavano, a caratteri nero pece sul bianco lucido delle targhette, due scritte ingiuntive che dicevano, quella in italiano: “Posto riservato agli invalidi di guerra e del lavoro” e l’altra, in inglese: “Seat reserved to handicapped persons”. Vale a dire che la prima, in lingua nostrana, selezionava gli aventi diritto a occupare i posti riservati agli invalidi, autorizzando a sedere soltanto i reduci di guerra e gli infortunati sul lavoro, e discriminando i poveretti che magari dovevano il loro handicap a incidenti che si erano procurati magari sciando o inciampando in un tappeto. Discrimine che invece la frase in inglese evitava di fare, riconoscendo democraticamente a ogni tipo di invalido il diritto di occupare i posti riservati. Qualcuno, realizzando il controsenso, ha rimediato ora all’assurdo, unificando il titolo di merito di chiunque sia portatore di un handicap.
Anatole France, stigmatizzando l’incoerenza di certe ordinanze governative, ironicamente scriveva: «La legge, nella sua maestosa equità, proibisce cosí al ricco come al povero di dormire sotto i ponti, di elemosinare nelle strade e di rubare pane», come a dire che l’equità degli ordinamenti non sempre afferma princípi di giustizia e spesso privilegia condizioni di merito apriori e sancisce, sotto l’apparente imparzialità, stati di disuguaglianza sociale.
Comunque sia, le grida, i cartelli, gli off-limits sono una spia dei difetti e delle intemperanze di una società, i correttivi di inclinazioni deleterie presenti in un popolo o in una ristretta comunità. Sono scomparsi i cartelli che vietavano di calpestare le aiuole, di parlare al conducente sugli autobus, di schiamazzare in prossimità di scuole, ospedali e chiese, di sputare per terra e di bestemmiare. Cartelli mobili e quindi rimovibili, quasi che l’asportarli implicasse di risulta anche la eliminazione della relativa intemperanza. Rimozione che non era invece possibile con le grida murali della Roma papalina, che diffidavano chiunque dal gettare immondizie nel sito dove era affissa la lapide, di solido marmo, saldamente incassata con staffe nei muri di certi angoli di strade e piazze piú frequentate e rispettabili. Le pene per i trasgressori erano, oltre che esemplari, di una scarna essenzialità esecutiva: tratti di corda, fustigazione, detenzione di rigore, dopo, beninteso, il versamento di cospicue ammende.
Tra il potere e chi lo metteva in discussione i patti erano dunque chiari e diretti: niente cavilli, niente quinti emendamenti, habeas corpus e via discorrendo. Il potere s’identificava con una teocrazia che poneva a fondamento delle proprie leggi la volontà e la mano di Dio, vale a dire la garanzia di un’assoluta giustizia.
Nell’antichità erano stati i Cretesi a istituire una linea spregiudicata di deterrente, ideando un divieto di tipo del tutto inedito per impedire a qualsivoglia individuo di forzare misteri e segreti, di penetrare l’impenetrabile attraverso un modo di codificare le procedure d’accesso e renderle note e praticabili soltanto a chi ne avesse il titolo e il carisma, criptando allo stesso tempo le vie d’uscita, unicamente individuabili seguendo il filo di una convenzionalità preordinata. Un divieto cioè non per esplicito comandamento o ingiunzione, bensí per ignoranza dei codici di lettura, delle combinazioni note soltanto a chi di dovere. Nascevano ante litteram, con il labirinto di Minosse, i codici a barre, le password, o parole chiave, senza le quali la caverna dei 40 ladroni della fiaba mai si sarebbe aperta rivelando i suoi incommensurabili tesori di nozioni e conoscenze.
Ogni potere si difende come meglio sa e può. Quello esoterico usa formule e prassi iniziatiche, cosí quello misterico passi e liturgie rituali, quello religioso canoni e dogmi, rigide catechesi. Il rigore fondamentalistico è pertanto dietro l’angolo, in agguato perenne ogni qualvolta un credo elabori precetti e prescrizioni ineludibili nel rapporto tra l’uomo e la divinità. Tale è il ginepraio di obblighi, ottemperanze e precetti, da smarrirne col tempo la motivazione originaria.
Creta fece scuola per l’antichità, e cosí il labirinto con le sue circonvoluzioni erratiche e capziose si diffuse in tutto il mondo antico e mosse un’onda anomala che dall’isola dove nacque Zeus toccò i lidi ellenici spingendosi fino a Roma. Qui i sacerdoti addetti alle pratiche cultuali e liturgiche erano i Flàmini, dal verbo flare, soffiare, volendo indicare la loro precipua funzione, prima e ultima, materialmente di attizzare e mantenere il fuoco sacro nei templi, insieme alle Vestali, sotto la sovrintendenza del Pontefice Massimo, e in via simbolica di ravvivare quello dell’ardore morale dei cittadini attraverso il rispetto del rituale. Grazie ad essi, la fedele osservanza delle pratiche della pietas devozionale garantiva il favor Dei all’individuo e alla comunità intera, e pertanto, quale esito finale auspicabile, il benessere dello Stato e l’armonia della convivenza sociale.
L’assolvimento degli obblighi rituali era particolarmente severo nel caso del Flamine diale, addetto al culto di Giove. Prerogative e doveri sacerdotali non si riferivano soltanto alla sua persona, ma si estendevano a tutti i componenti della sua famiglia. Egli non poteva ricoprire alcuna carica politica, pur essendo autorizzato a occupare in Senato la sedia curule, dignità riservata ai piú alti personaggi della vita pubblica romana; doveva indossare sempre e ovunque le vesti sacerdotali, tra le quali spiccava la toga pretesta, fatta di ruvida lana, che soltanto sua moglie, anch’essa dedita al culto del dio, doveva tessere; al suo fianco doveva sempre pendere il coltello sacrificale, il dolabra; in testa un cappuccio bianco decorato in cima da un ciuffo di lana e da un rametto d’ulivo: copricapo che non poteva mai togliersi. Non gli era permesso lasciare la città senza il consenso del Pontefice Massimo, né poteva dormire fuori di casa per piú di due notti consecutive, e per non piú di due volte l’anno. Sempre disponibile per le funzioni rituali a lui prescritte, mai doveva separarsi dalla cassetta contenente gli oggetti e gli arnesi sacri, che la notte doveva essere collocata sempre accanto al suo letto. La purezza rituale doveva essere assoluta. Il Flàmine non poteva assistere ai funerali, e meno che mai vedere cadaveri ed entrare in un sacello mortuario. Non doveva nominare né mangiare carne, neppure nutrirsi di fave né di focacce lievitate. Non poteva toccare né nominare una capra, né cavalcare un cavallo. Quando passavano soldati in armi, doveva distogliere lo sguardo da essi e cosí dai lavoratori intenti al loro compito. Per questo, andando per la strada, un littore lo precedeva ordinando agli astanti di sospendere ogni attività fisica. Fortunato era però un condannato alla fustigazione: se incontrava il sacerdote subito la pena era sospesa. E allo stesso modo uno schiavo e un prigioniero incatenato che entrasse in casa sua, veniva liberato dalle catene, che dovevano poi essere gettate fuori dall’abitazione attraverso il tetto. Per lo stesso motivo egli doveva rifuggire da ogni laccio o nodo, e cosí i suoi abiti non portavano legami né bottoni, ma solo fibbie e fermagli. L’anello che indicava l’importanza della sua carica doveva essere spezzato nella montatura, e i viticci, tralci e pampini dell’uva e dell’edera mai dovevano entrare in contatto con il suo corpo. Per farsi la barba doveva utilizzare un rasoio integralmente di rame. Quanto ai suoi capelli, soltanto una persona libera poteva tagliarli. Capelli e unghie che venivano asportati dal suo corpo dovevano essere sepolti ai piedi d un albero, che fosse però di buon augurio, come l’olivo o il cipresso.
Credenze magiche e antichissime superstizioni governavano la vita del diale di Giove. Probabilmente col tempo le norme venivano osservate pedissequamente, senza che il loro primitivo significato fosse chiaro allo stesso praticante. E il meccanismo magico o soprannaturale che tali norme all’origine attivavano, i poteri che dal loro ottemperamento emanavano, erano andati perduti, essendo i tempi e gli uomini calati ormai nel materialismo.
Qualcosa evidentemente non va quando tra la divinità e l’uomo si interpone il diritto canonico, e nel rapporto tra uomo e uomo e tra il cittadino e lo Stato ogni moto, cadenza o slancio passa per la trafila del codice penale. Prendiamo ad esempio il diritto alla privacy, mostro dell’attuale vita sociale. Alle poste e in ogni ufficio della pubblica amministrazione non si può oltrepassare la linea gialla, perché si potrebbe origliare sulle notizie anagrafiche, i famosi dati personali, che il postulante sta fornendo all’impiegato, e cosí fax ed e-mail portano in calce severe diffide sull’uso fraudolento delle notizie o dei dati contenuti nel testo.
Un mondo guardingo e sospettoso fino alla paranoia si accinge a darsi regole sempre piú soggette a timbri, postille, note cautelative, passaporti e schede elettroniche. Un’addetta al ricevimento di un grande albergo di Milano ha preteso tempo fa che Luciano Pavarotti le fornisse un documento per accertare la propria identità, altrimenti non l’avrebbe registrato e quindi accettato. L’episodio ha suscitato scalpore e ha fatto ricordare i tempi in cui per circolare in Europa bastava dichiarare a voce nome, cognome e titolo. Bastava cioè la parola, non esistendo fotografie. Col tempo dovremmo aver migliorato e snellito le pratiche esistenziali, le scadenze e le formalità che intralciano il vivere in comune. E invece, ecco i muri, i fili spinati, le gabelle, le impronte digitali, cui si vanno aggiungendo i controlli elettronici del cristallino dell’occhio, del timbro della voce. Il pass condiziona ormai come un perverso enigma della Sfinge ogni nostro percorso in uffici, ospedali, banche e teatri, per cui i nostri portafogli sono gonfi di rettangolini di plastica da utilizzare per tutti gli usi consentiti, anzi imposti, dalla legge e dai vari altri ordinamenti escogitati con perversa voluttà dalle piccole o grandi autorità che ci governano.
L’uomo, ritenuto preda della sindrome di Peter Pan, viene portato, anzi trascinato con mano ferma lungo tutto il tragitto della sua esistenza da una paterna mano che, con la scusa di salvaguardarlo, esercita una coercizione dall’aspetto benevolo e disinteressato: una specie di dittatura in guanti gialli. Tipica di questa sollecitudine, che sta raggiungendo toni esasperati, è la pretesa salvaguardia della salute dei fumatori. Invitati a un talk show televisivo da un’emittente di New York, dieci fumatori incalliti si sono visti letteralmente sequestrare dalle autorità di polizia. Condotti con trasporto coatto in una clinica-laboratorio, sono stati sottoposti a una cura intensiva per debellare la loro dipendenza dalla nicotina. La mannaia dell’inquisitore antifumo si è abbattuta persino sul tecnico di una squadra di calcio. All’inizio del match, il mister di una delle squadre si era accesa una sigaretta. Richiamato dall’arbitro, ha rischiato l’espulsione ed è tuttora a rischio squalifica. Ciò è avvenuto all’aperto, in uno stadio della serie A, e non nella corsia di un ospedale. Si parla in questi casi di “codice di condotta” e di nuovo entra in ballo un codice, un labirinto protettivo e dissuasivo. Per rispetto al codice di condotta antiterrorismo, nella metropolitana di New York non si possono piú scattare foto. I trasgressori rischiano da una multa di cento dollari alla detenzione per dieci giorni. Il New York Metro Board, che gestisce la metropolitana della Grande Mela, non soltanto vieta di fare foto sui treni e nei locali delle stazioni, ma vi bandisce persino il mangiare, qualunque sia l’entità e la qualità del cibo oggetto di trasgressione. Il 16 luglio dello scorso anno, alle 18.30 circa, Stephanie Willett, una quarantacinquenne scienziata presso il Ministero dell’Ambiente a Washington, sorpresa a mettersi in bocca una barretta di cioccolata da una poliziotta in servizio all’ingresso del tube, è stata rincorsa, spinta contro il muro, soggetta a una brutale perquisizione corporea, quindi tradotta al posto di polizia, interrogata, detenuta in cella per diverse ore e infine rilasciata dietro pagamento di una multa di dieci dollari. La Willett è il secondo caso di arresto per flagranza di reato, in questo caso mangiatorio, nella metro di New York. L’anno scorso le manette erano scattate ai polsi di una bambina di dodici anni, sorpresa a consumare una confezione di patatine su una piattaforma dei treni.
Quale recondito motivo ispira certi esasperati decreti e ordinamenti? Paura dello sporco, caduta dell’immagine pubblica, oltraggio all’amministrazione municipale, timore che le panchette dei treni e delle sale d’aspetto si trasformino in tavole da picnic? E che ci sarebbe poi in fondo di male? I nostri treni di terza classe, quando l’Italia era ancora illuminata di bonaria umanità, ospitavano simili rusticani banchetti, ed eravamo, ciononostante, e forse proprio grazie a questo, piú sereni e cordiali. E si sorrideva a ogni accenno di dialogo. Il sorriso. Anche questo bel tratto dell’umana disponibilità è sotto inquisizione. L’UKPS, il servizio passaporti del Regno Unito, ha di recente emanato una direttiva agli uffici addetti al rilascio dei documenti, comprese le carte d’identità per l’espatrio. L’ordinanza stabilisce che è tassativamente vietato mostrare i titolari in atto di sorridere. Devono, senza eccezione, esibire un volto serio, improntato semmai alla composta contrizione, al fine di non alterare la fisionomia. Questo l’editto: «Dovrà mostrare l’intero volto del titolare del documento, che guarda dritto nell’obiettivo, con espressione neutrale e bocca chiusa». A quali comici se non grotteschi ukase ci porterà la molto presunta minaccia del terrorismo? Passi l’angoscia, pur se esagerata, che può causare il vedere una borsa, un fagotto, una valigetta lasciati incustoditi in una stazione, in un bar, su un autobus, un aereo, un treno o un vaporetto, che ci fa immaginare catastrofici scenari di stragi, ma il limite ci appare veramente superato quando addirittura si criminalizza il sorriso su una foto, che è il nostro lasciapassare per il nostro presentarci al mondo esterno.
Come le conoscenze esoteriche dei Romani di Numa, che avevano dato vita e forza a una religione edotta dei misteri, intima del trascendente, nel corso dei secoli si erano potute fossilizzare nelle formule magiche esorcistiche del Flàmine diale del tardo Impero, cosí gli inglesi moderni, logori discendenti di uomini capaci di stilare la Magna Charta delle libertà civili, arrivano a partorire simili fatui editti, che sono il rovescio esatto di quella giuridica liberalità e sapienza. Plagiatori ad oltranza dei loro cugini americani, si sono dati ai fast food e agli hamburger, sostituendoli ai piú austeri fish and chips. Risultato: obesità per il 63% della popolazione. Problema ben piú grave della minaccia terroristica. Ed ecco allora intervenire lo Stato, dichiarando la Gran Bretagna di Agricola e Boadicea, una fat-nation, una nazione grassa, approntando le misure del caso. Hanno cominciato col distribuire gratuitamente, a cura dell’Home Health Service, un kit contenente un manuale per dimagrire e un contapassi, con la prescrizione di percorrere diecimila passi al giorno. Prime cavie dell’esperimento gli abitanti di Handsworthwood, un sobborgo di Birmingham, ritenuti i piú grassi del Paese. La vessazione statale a fin di bene!
Tra cittadini è vietato spiarsi, carpire dati personali, plagiare idee, commercializzare kit per test genetici su internet. Per contro, si apprende con stupore che la tanto decantata segretezza in rispetto della privacy viene bellamente violata dai Governi che utilizzano banche dati, telecamere a circuito chiuso, satelliti e intrusioni nella rete per raccogliere informazioni su chiunque, schedando le piú riposte manie, le predilezioni alimentari e sessuali, persino la misura delle scarpe, delle camicie, e per finire le idee politiche e il credo religioso.
Tra i piú recenti sofisticati congegni di applicazione invasiva c’è il VeriChip, un dispositivo della dimensione di un chicco di riso, messo a punto dalla Applied Digital Solutions Inc., una Corporation americana di elettronica avanzata. Il circuito viene impiantato sottopelle e contiene un numero di identificazione del portatore, attivando il quale uno scanner recupera da un archivio tutti i dati riguardanti il soggetto “rilevato”: dal DNA alla situazione fiscale, lavorativa e familiare. Naturalmente tanto zelante diuturno controllo viene giustificato o con la necessità di evitare le congiure terroristiche, o per monitorare i sistemi di pronto intervento, o ancora per prevenire le emergenze catastrofiche. Insomma, se i governi spiano notte e giorno i propri sudditi, lo fanno soltanto per il loro bene, per la loro sicurezza, per la salvaguardia della loro salute. E dove, come nel caso del nostro apparato esecutivo statale, non si è ancora pervenuti a tali sofisticati sistemi di intelligence, si tenta di sopperire con l’excusatio non petita della autogiustificazione esattiva, coda di paglia di chi non intrattiene, per atavica diffidenza, un rapporto di reciproca fiducia col popolo in materia di prelievi fiscali, tasse, balzelli e valori aggiunti. Ecco, tanto per fare un esempio, cosa è dato sentire a chi compone un numero col prefisso 199. Una voce registrata su disco recita: «Informazione gratuita. Per chiamata da rete fissa, il costo massimo è di 14,26 centesimi al minuto, con uno scatto alla risposta di 6,19 centesimi. Per chiamate da rete mobile, il costo è compreso tra 24,17 centesimi e 48 centesimi al minuto, con uno scatto alla risposta compreso tra i 12,40 centesimi e i 30 centesimi, a seconda dell’operatore mobile di accesso».
Quasi quasi se la passava meglio il Flàmine diale!

Ovidio Tufelli