BotAnima

Estate del 1965, mese di luglio, poco prima di mezzogiorno. Il pullman carico di turisti inglesi percorre l’autostrada Milano-Trieste. Dopo il guado del Brenta, i campi costeggiano la sede stradale, da cui li separa un reticolato. La terra fumiga nella calura, nera, asciutta, ingombra delle reste del grano da poco mietuto. I viaggiatori, che hanno attraversato le Alpi nella mattinata, portano ancora nelle ossa gli umidori delle brume del loro paese e negli occhi il biancore algido delle nevi perenni del Gottardo. Quasi accolgono con gratitudine il solleone dell’opulenta campagna veneta, distesa fin dove lo sguardo può spingersi: le montagne a sinistra, filari boschivi sulla linea dell’orizzonte al lato opposto. In mezzo i solchi, la pula anemofila e uccelli che rimediano il cibo volteggiando lenti, calando a spirale tra le zolle. Non mostrano di temere il grosso trattore che sta dissodando il terreno, in un andirivieni regolare, da un lato all’altro del campo, trascinandosi dietro un erpice. Anzi, i volatili si affollano proprio dietro il pettine luccicante che raschia la terra, per contendersi chicchi residui. Ma non è la loro presenza che attira l’attenzione degli occupanti del pullman. Alla guida del trattore c’è un uomo, robusto, a capo scoperto, sudato, il volto cotto dal sole, determinato, forte, che asseconda col busto eretto, in un’antica spontanea solennità, i sobbalzi del veicolo, frequenti, come numerosi sono i sassi e gli avvallamenti che incontrano le ruote massicce. Ma neanche lui, nella sua archetipica e composta immagine di fatica, è l’oggetto dell’ammirazione dei forestieri di passaggio. Riverso ad armacollo sulla spalla dell’uomo, vedono il corpo esile di un bambino addormentato che accompagna gli urti e i sobbalzi del torace del padre, le braccia sottili, la testa coperta di capelli biondi e leggeri pendente nell’inerzia del sonno, come quella di una preda che il cacciatore riporta a casa dopo una fruttuosa battuta. Ma nella scena non vi è la crudeltà soddisfatta dell’uccisore abile, c’è l’amore protettivo, la sicurezza che rende fiducioso l’abbandono del bimbo al sonno. La comitiva chiede all’autista di fermare a una piazzola, da cui il campo è ancora visibile. Qualcuno fotografa, molti semplicemente godono di quella visione in silenzio. Sono ritornati a un’era primigenia del mondo, e il sonno fa da quinta e canovaccio al pathos dei sentimenti essenziali della vita.
Quel torpore beato, certamente naturale, ricordava, in un’Italia piú antica e povera, il sonno dei bambini, figli di lavoratori e lavoratrici rurali, che non potendo essere lasciati a familiari o a compiacenti vicini, seguivano i genitori braccianti nei campi. E poiché il giorno era lungo e non bastavano gli umili giochi diversivi, suppliva il rosolaccio, il papavero onesto, quello che fiammeggia nei climi mediterranei tra il grano e lungo gli argini e i terrapieni incolti. Il decotto ben dosato dei petali e dei semi procurava quieti sonni profondi che si ritenevano senza effetti collaterali. I bimbi, adagiati all’ombra di alberi dall’ombra buona, navigavano in fiabesche regioni, lungo rotte avventurose e ignote, visitavano paesi e castelli dove erano ricevuti come alte sovranità, ricchi di fantasia e innocenza. Erano i figli della papaverina, parente benigna dell’oppio, che viene invece estratto dal papavero bianco o grigio, e che induce sogni che fanno viaggiare in oceani tempestosi, dove miraggi di chimere e sirene attirano verso luoghi di non-ritorno. O almeno da cui si ritorna non piú uomini ma solo involucri colmi di angoscia.
Eppure, sia il rosolaccio sia l’ingannevole papavero da oppio appartengono alla stessa famiglia e alla stessa specie botanica. Tutti i membri di questo clan animano il mistero del lattice, vero enigma del mondo vegetale, di cui ci parla Wilhelm Pelikan nel suo L’uomo e le piante medicinali.
Il papavero                     La produzione di lattice in certe piante e in famiglie intere (papaveracee, ficacee, euforbiacee, campanulacee, apocinee, asclepiacee, moracee e le cicoriacee, che sono una sottodivisione delle Composite), è un enigma botanico, impossibile da risolvere quando se ne cerchi la finalità, lo scopo. Si è creduto che il lattice, grazie a una rapida coagulazione al contatto con l’aria, sia destinato a richiudere le piaghe del vegetale, o ancora a scoraggiare gli erbivori col suo gusto generalmente amaro.
Ma la maggioranza delle specie vegetali sopravvive lo stesso anche senza lattice, mentre diverse piante ricche di lattice vengono divorate dagli animali.
L’albero del latte del Venezuela fornisce dalla scorza un succo un po’ zuccherato, con l’aspetto del latte di mucca (secondo Warburg). Che dobbiamo pensare di questa somiglianza?
Il latte è presente soltanto nell’uomo e nei mammiferi. Gli animali inferiori, che sono molto piú aperti al mondo, a partire dalla nascita ricevono dall’esterno il loro nutrimento. Allo stesso modo, l’uomo e i mammiferi, prima della nascita, vengono ancora nutriti dai tessuti viventi che li circondano. La loro esistenza embrionale è una forma primitiva dell’essere: l’embrione riceve il suo alimento vitale dalle guaine uterine della madre, mentre il neonato beve del latte, formato dal sangue materno, ma già piú esteriorizzato.
Il sangue alimenta il corpo per intero. Ma piú si discende nella scala evolutiva degli esseri viventi, piú si vedono i processi del sangue trasferirsi nel mondo esterno, fuori del corpo: il calore sanguigno, interno negli animali detti a sangue caldo, è esterno negli animali detti a sangue freddo (o meglio, a calore variabile). La composizione dei sali sanguigni ha molta rassomiglianza con quella dell’acqua di mare. In un animale marino come la stella di mare (asteria), l’acqua di mare viene aspirata, circola nel corpo ed è in seguito espulsa: è il mare che diviene in qualche modo il sangue di quell’organismo. Si è spesso detto che il sangue dell’uomo è la reminiscenza delle acque marine primordiali che egli aveva intorno a sé, e che ha assunto all’interno di sé nel corso della sua evoluzione.
Qual è il rapporto del latte e del sangue con il lattice delle piante? Allo stato attuale dei regni naturali, questo rapporto non è affatto visibile. La rassomiglianza esteriore non ha un grande significato. Ma se riflettiamo sulla storia dei regni naturali, tutto cambia. La vita embrionale e la vita degli animali inferiori ricordano le fasi piú antiche dell’esistenza terrestre, e mostrano come certi processi di nutrizione e di costruzione organica – oggi interiorizzati nell’uomo – fossero in altri tempi situati alla periferia degli esseri. In questa riflessione retrospettiva, vediamo altresí cancellarsi la distinzione tra i regni naturali: l’esistenza umana è stata, in altri tempi, molto piú simile di oggi a quella delle piante. Piú si retrocede dallo stato solido dell’adulto umano verso gli stati plastici dell’infanzia e della vita embrionale, e piú assistiamo a una metamorfosi che fu quella dell’intero organismo terrestre. Come tutta l’embriogenesi riproduce in forma abbreviata la storia evolutiva della specie (legge biogenetica), cosí l’antica fase “lunare” dell’organismo terrestre si riprodusse all’epoca definita “lemurica” della nostra evoluzione.
A quell’epoca la vita era molto piú potente e i suoi processi molto piú intensi. L’uomo, l’animale e la pianta si somigliavano assai di piú, essendo meno differenziati. La Terra viveva ancora come sospesa al cordone ombelicale del Cosmo. Nella sua parte periferica evolveva il mondo vegetale di allora, galleggiando, nuotando in un’atmosfera di albumina sottile… Rudolf Steiner ha evocato quell’epoca e quell’atmosfera in particolare nel suo libro La Scienza Occulta. Già allora esistevano relazioni tra l’umanità e il mondo delle piante. L’uomo di allora, ancora molto vegetale (al pari dell’attuale embrione), si nutriva mentre respirava, aspirando una specie di latte originale che altro non era che la sottile albumina dell’atmosfera; in cambio, l’intero mondo vegetale riceveva dall’uomo le forze formatrici eteriche che questi doveva espellere per poter proseguire nel suo sviluppo. Se l’uomo avesse conservato la sua potente vitalità di allora, non avrebbe mai potuto acquistare la coscienza, la saggezza, l’intelligenza terrestre, poiché tutto ciò è collegato all’attenuazione delle forze vitali, e niente affatto (come spesso tuttora si crede) al loro sviluppo. L’uomo ha dovuto sacrificare una gran parte delle proprie forze vitali e incorporare delle forze di morte. È quello che è stato simbolizzato nel mito della caduta originale… (la pianta, da parte sua, ignora la morte).
L’uomo si ritrova perciò egli stesso, in un certo qual modo, in tutte le creature naturali che oggi lo circondano. Esse sono state, un tempo, parti integranti di se stesso.
Allorquando, dopo l’epoca lemurica, l’uomo e tutta l’esistenza terrestre calarono in una materialità piú marcata, nacquero l’acqua, l’aria e il suolo minerale terrestre, a partire dalle loro fasi preparatorie. I regni naturali caddero tutti preda di processi di atrofia e di densificazione. I vegetali originali che nuotavano nell’atmosfera di albumina lattescente (e di cui alcune alghe giganti sono la reminiscenza), si trasformarono, divennero a poco a poco le nostre piante di adesso. Ma alcune di queste piante, quelle che producevano lattice, conservarono, racchiuso in esse, il processo di lattificazione vegetale, non piú possibile nell’attuale aria terrestre, molto meno vitalizzata dell’albumina primordiale.
Ecco quanto si può dire dei lattici in generale. Quelli delle papaveracee, con la loro speciale tossicità, rappresentano pertanto qualcosa di piú particolare, di cui ci accingiamo brevemente a parlare. Il divenire dell’essere umano, in quei tempi remoti, è sempre stato il motore del divenire della natura. La natura è ciò che l’uomo ha espulso da sé nel corso della propria evoluzione. Perciò, al momento della transizione dall’era lemurica all’era atlantidea che seguí, si produssero molte cose nuove, in particolare la nascita degli organi sensoriali, il cui còmpito è di percepire un mondo esteriore oggettivato (un mondo di oggetti). Correlativamente, il sistema nervoso si concentrò nel cervello, organo in cui una considerevole riduzione di vitalità, unita a una mineralizzazione, ha permesso il destarsi della coscienza diurna di veglia, interamente rivolta al mondo degli oggetti. «Gli occhi dell’uomo si aprirono – dice la Bibbia – ed egli poté distinguere il Bene dal Male».
Contemporaneamente, all’uomo venne data la facoltà di soffrire («Tu partorirai con dolore») e le sue membra vennero consacrate al lavoro della terra («Tu guadagnerai il tuo pane col sudore della fronte»).
Questo cambiamento, definito “progresso”, fu conquistato dall’uomo al prezzo dell’altrimenti definita “caduta”: perse cioè la propria felicità paradisiaca e discese nel’attuale mondo terrestre. Quel che venne espulso allora, fu l’antica natura lunare, il mondo dell’antica Luna.
Ma noi ritroviamo quel mondo lunare nei succhi del papavero. Esso tenta di liberarci, attraverso particolari rapporti, dall’esistenza terrestre attuale, e ricondurci alla antica condizione lemurica, per spegnere in noi le esperienze sensoriali, resuscitando la “coscienza delle immagini”, che era nostra ai tempi in cui eravamo attaccati “alle mammelle della natura”. Il succo di papavero annienta il mondo del dolore e sottrae le nostre membra alle leggi della fatica. Ma ricordiamoci che la Saggezza, la sola nella quale l’uomo può trovare il sentimento della sua piena dignità, è “dolore cristallizzato”. E anche, che la creatività e l’avvenire procedono dalla natura volitiva delle membra. Il “soma”, la bevanda sacra degli antichi indú (immagine dei modi di nutrizione tipici della Lemuria), non può oggi prendere il posto delle forze digestive paralizzate. I poteri enormi del succo di papavero devono certamente venir messi a disposizione del medico, ma in nessun modo devono aiutare un essere avido di godimenti e sensazioni forti a evadere dalla condizione terrestre.
 
Il papavero Rhoeas, o rosolaccio                     Per quanto è possente la fioritura del papavero selvatico, tanto il resto di questa pianta rimane fragile. Le foglie sono piú profondamente incise, piú allungate e strette di quelle del papavero, lo stelo ha fretta di fiorire. Il bottone florale è pendulo, il fiore non si espande che a metà. Immagine del combattimento tra la pesantezza e la levità. Questo fiore deflagra in un rosso fiamma, pieno di foga e passione, con quattro macchie scure che disegnano una croce al centro (papaveri e rosolacci hanno quattro petali, da qui questa croce costante). Tutta la pianta si consuma in questa fiamma florale, la capsula si secca e si drizza.
Possiamo qualificare i petali del rosolaccio, dei papaveri rossi, come “zolfo”, secondo l’antica trilogia “sale, mercurio e zolfo”, che risulta presente in tutti i regni naturali. Si possono preparare dei bagni al succo di rosolaccio, che combinano l’azione stimolante dell’elemento florale sul metabolismo, con l’attenuazione dell’astralità, tipica dei papaveri. È bene, in questo caso, utilizzare anche le capsule giovani non mature. A tale riguardo esiste una ricetta data da Rudolf Steiner.

Wilhelm Pelikan

Da L’homme et les plantes médicinales,
Triades, Parigi 1962, pp. 126-130.

Da quella lontana estate del 1965 sono trascorsi molti anni. Il bambino dormiente, allacciato con le fragili braccia al corpo del padre, ora sarà un uomo e avrà forse a sua volta dei figli. Nella campagna arano la terra come sempre, cresce il grano che nutre gli uomini, e tra le spighe il papavero vermiglio svetta alto sul delicato stelo, a ricordarci del mistero celato dietro ogni piú umile sembianza della vita.

Leonida I. Elliot