Saga arturiana

Il libro su Re Artú di Renzo Arcon non è il racconto di un mito né di una leggenda. Non è nemmeno un racconto agiografico, ma è semplicemente una biografia. Come in una biografia gli eventi non sono narrati per esaltare o denigrare, gli eventi non sono raccontati mossi da un sottile sentimentalismo del narratore che vuole nella narrazione esprimere se stesso.
Gli eventi sono un panorama che si svolge nel tempo. Essi sono presentati per essere contemplati ed in questa contemplazione si manifesta qualcosa, un “indicibile” che va oltre gli eventi stessi. Tutta questa opera di Renzo Arcon rimanda a tale “indicibile”.
Le immagini che ci offre l’Autore nel suo romanzo non sono frutto di fantasticherie né meri ricordi che affiorano nella coscienza in maniera inconsapevole, come può capitare alle volte spontaneamente o in corso di stati ipnotici piú o meno vigili. Sono invece il frutto dell’animazione di esperienze interiori con la tecnica indicata sopra.
Le esperienze interiori necessariamente personali conducono ad un sovrasensibile impersonale che rimanda, alle volte, ad un altro sensibile che appare alla coscienza come frutto di un preciso lavoro interiore. Il lettore, ripercorrendo i fatti narrati nel romanzo, ha costantemente l’impressione, per questo motivo, che oltre ai fatti, sia sempre presente appunto quell’“indicibile”, che anima tutto il romanzo. Non c’è una precisa collocazione spazio-temporale, benché non manchino descrizioni assai caratterizzate.
 
«La storia di Artú, dei suoi cavalieri e di Merlino si svolse in quella che si può denominare Grande Erin, che comprendeva i territori dell’isola Irlanda, del Galles, della Cornovaglia e di parte della Scozia. Sebbene già separati dal mare, questi territori erano tuttavia piú estesi degli attuali, mentre numerosi acquitrini circondavano soprattutto l’attuale località di Glastonbury. L’intero Paese era ricoperto da estese foreste di querce, mentre verso la costa già iniziava il disboscamento dovuto all’utilizzo del legname da parte degli uomini. Gli allevamenti di ovini, poi, non permettevano alla foresta di ricrescere. Il clima era piú caldo di quanto non sia oggi. Il paesaggio presentava numerosi corsi d’acqua, tra i quali aveva un’importanza speciale quello, modestissimo, che tuttora sfocia in mare presso Tintagel e le cui rive sono caratterizzate dalla presenza di ampie pietre levigate. Oggi lo stesso corso d’acqua appare del tutto allo scoperto, mentre un tempo era immerso in una folta foresta lussureggiante. Una cascata, forse oggi non piú presente oppure di dimensioni assai ridotte, chiudeva a monte il tratto piú particolare del torrente. Anche il lago, cornice della vicenda della seconda spada di Artú, Excalibur, era circondato da fitte foreste. Numerosi menhir punteggiavano la foresta. I villaggi, modestissimi, erano costituiti da capanne di canniccio intonacato con fango e ricoperte da un tetto di canne, oppure di pietra con tetto parimenti di canne, ed erano molto simili ai crannog e ai ring-fort irlandesi, distinguendosi da questi per la presenza di costruzioni a pianta rettangolare mentre le capanne irlandesi erano sempre a pianta circolare»(1).
 
Non si tratta di valori presentati come fatti, dove il mondo ideale dell’autore si rispecchia, dove vengono ad essere travasate le personali, soggettive concezioni.
Non si tratta nemmeno di una prosaica narrazione di eventi e stati d’animo dove una visione della vita, animata da un sentimentalismo piú sottile, esclude la presenza di questo “indicibile”. Esso è presente in ogni biografia, e bravo terapeuta o bravo orientatore è colui che riesce a correlarsi con questa biografia, cogliendone la direzione per offrirla all’individuo. Bravo biografo è colui che riesce a porgere quegli eventi che con maggior nitidezza rimandano a questa direzione.
La biografia di uomini che sono stati portatori di nuovi impulsi nella storia dell’umanità, e il Re Artú di Arcon nella sua apparente modestia è uno di questi, rimanda ad una realtà ancora superiore, che offre una direzione comune alle direzioni delle singole biografie. Questo contenuto il lettore del libro di Arcon lo coglie come sottile sentire, che si accende nella contemplazione delle vicende narrate nel romanzo, persino nelle singole immagini che ci offre l’Autore.
 
«I Celti avevano tre strumenti magici: l’arpa, il flauto e la cornamusa. Tutti e tre insieme formavano l’Uomo sonoro. L’arpa rappresentava il sistema nervoso e il flauto quello osseo e la spina dorsale. Suonati insieme calmavano gli istinti, placavano le liti e potevano far piangere i piú feroci combattenti. Sentivi il sangue placarsi e i muscoli sciogliersi in dolcezza, mentre il suono del flauto portava immagini colme di vita di calde estati e fresche primavere, cosí ti addormentavi, cosí riposavi. Ben altro era l’effetto della cornamusa! Essa agiva direttamente nel sangue, evocando le antiche battaglie e gli antichi eroi, esaltando la bellicosità, mentre il bodhran, come chiamano oggi gli irlandesi quella specie di tamburo formato da una membrana tesa su un telaio circolare, altro non era che il battere del cuore»(2).
 
Per comprendere quest’opera dobbiamo spostare l’attenzione alla natura di questo immaginare.
Le vicende narrate non sono evidentemente frutto di ricerca storica né di ricordi autobiografici. Non sono neppure dovute al fantasticare dell’Autore. Si tratta di qualcosa di tutt’altra natura.
Proviamo inizialmente ad immaginarci un oggetto costruito dall’uomo, semplice e conosciuto molto bene: un portacenere, ad esempio. Proviamo ora a correlare quante piú rappresentazioni possibili di questo oggetto alla prima immagine che abbiamo avuto. Descriviamo la forma, la funzione, l’origine, il modo di utilizzarlo e di costruirlo… Ritorniamo all’immagine iniziale che, a questo punto, sarà densa di contenuto. Questa immagine avrà qualcosa in piú rispetto alla prima immagine, questo qualcosa in piú pur essendo la sintesi di rappresentazioni tratte dal sensibile, in sé non sensibile. Questa nuova immagine, per rimanere viva al centro della coscienza, deve essere sostenuta da una intensa volontà, da una volontà particolare, calma, impersonale. Proseguendo con questa volontà intensa si può portare a coscienza questo elemento nuovo dell’immagine che non è legato al sensibile.
Procedendo con l’intensificazione di questo esercizio, che è la concentrazione secondo il canone indicatoci da Rudolf Steiner e riproposto da Massimo Scaligero, si giungerà sempre maggiormente a portare coscienza a questo elemento sovrasensibile. L’elemento “indicibile” reso attivo attraverso la concentrazione non va definito ulteriormente, ma ricercato in ogni pensiero ed in ogni percezione. Esso è infatti presente in ogni aspetto della nostra vita interiore, anche se normalmente ne siamo inconsapevoli, per la nostra scarsa capacità, nella vita ordinaria, di esser coscienti rispetto al sovrasensibile.
 
«La coscienza, dicevano i Druidi, cerca nella testa un segno, quando l’ha trovato ritrova come un’ombra di quanto ha imparato o visto, e cosí ricorda. Se invece la memoria si basa sul sangue, avviene che questo evapori, perché il sangue è caldo, ed evaporando, nei pressi del cuore, lascia dietro di sé un residuo, un precipitato, ed è questa la memoria dei Druidi. Essi hanno tanta memoria quanto maggiore è la quantità di sangue che evapora, e insieme alla memoria acquisiscono cosí anche la chiaroveggenza. Quando sono saliti in alto nella loro scuola speciale, i Druidi abbandonano la memoria del sangue e leggono direttamente la scrittura delle stelle, dove nulla di quanto succede e di quanto viene pensato dagli dèi e dagli uomini mai si cancella. Quando però un Druido arriva a tanto, non è piú un Druido, diventa un Tuatha de Dannan, un cavaliere del Clan della dea Dana, che gli Egiziani chiamavano Iside e i Greci Sofia»(3).
 
Procedendo per la strada che desta una superiore autocoscienza, ci si può rendere conto che il sovrasensibile anima ogni nostro pensiero ed ogni nostra percezione: è la vita stessa dei pensieri e delle percezioni. I pensieri e le percezioni sono viste, in questa prospettiva, come il precipitato di questa “Vita”.
 
«Artú era il Sole ed accanto aveva la Luna e intorno i dodici cavalieri, ognuno dei quali rappresentava una costellazione. Ed intorno ancora, stavano settantadue cavalieri d’ordine minore, quelli dei quali parlano le leggende, che rappresentavano le stelle fisse.
…I settantadue contemplavano i dodici, ricevendone impulsi all’azione che alla fine si configuravano in quelle “avventure” delle quali rimane traccia nei racconti della “Tavola Rotonda”. …La Tavola Rotonda era una sorta di capannone rotondo coperto di paglia e sostenuto da due cerchi concentrici di pali. Addossati al cerchio esterno c’erano i settantadue seggi dei cavalieri minori; al centro, presso il cerchio interno, c’erano i seggi dei dodici e quello del Sole e della Luna (Ginevra, Gwenwuiwar: l’Ombra Bianca). Proprio perché la posizione dei presenti era data dai due cerchi di pali, si indicava la riunione come quella del Cerchio Grande e del Cerchio Piccolo. …Chi allora si fosse avvicinato a Tintagel, avrebbe scorto il cerchio di pietra come lo vedrebbe oggi, ma al di sopra di esso avrebbe visto un altissimo castello fatto di luce ed aria, brillante come un cristallo. La sua forma avrebbe ricordato quella dei castelli delle fiabe, con alte torri e guglie slanciate. Questo è l’aspetto di certe costruzioni, sedi di Misteri, che vengono indicati nelle leggende di tutto il mondo come castelli o palazzi di vetro»(4).
 
Alti insegnamenti, alcuni evidenti altri celati fra le righe, sono presenti nell’intero testo, spesso formulati in maniera simbolica.
 
«Esiste presso i Celti un uso antico. Quando un re muore, la sua spada viene gettata in un lago o in un fiume. Sono forze vitali che tornano nell’acqua, che è il segno del muovere della vita sulla Terra. Di solito la spada viene piegata cosí che non possa servire a nessun altro uomo che l’avesse a ripescare in seguito. Queste forze vitali sono le stesse che fanno di un uomo il Re, perché mediante le stesse egli ha la consapevolezza di poter generare un altro uomo. In fondo l’Uomo è il Re del creato perché sa di poter creare un altro essere simile a lui. E può anche non farlo. Gli animali non possono saperlo, non posseggono la consapevolezza propria all’uomo. Ma da tempo immemore, ormai, l’uomo genera l’altro uomo nel grembo di una donna, ed è la donna a custodire il segreto della generazione, sicché è lei a conservare nel suo apparire la potenza dell’uomo-re. Soltanto una donna può restituire all’uomo la spada perduta, la forza vitale perenne, l’inesauribile fonte della vita. La donna porge all’uomo la sua corona di Re e il Re la difende, la porta nel suo castello di cristallo, che esiste soltanto perché egli lo vuole in ogni istante della sua esistenza»(5).
 
Non mancano gli spunti poetici, che arricchiscono la narrazione e ci inseriscono in un mondo della natura spesso da noi intuito, ma che l’Autore vede e descrive con incomparabile vivezza.
 
«Gli esseri della natura non parlano, cantano. E non è vero che le macchine abbiano allontanato questi esseri dalla natura e dagli uomini! Per essi le nostre macchine e il nostro cemento sono trasparenti, non esistono. E ancora li si può udire cantare nelle notti d’estate e nelle nebbie dell’autunno. A quei tempi i loro canti erano diversi, e li si ritrova in certi ritmi che ancora vengono eseguiti nelle danze d’Irlanda e di Scozia, nelle nenie del Galles. Oggi quegli esseri sono pervasi dalla Luce, e il loro canto si alza con la potenza di una cattedrale gotica. Eppure ancora, nella modesta fonte di una piccola valle solitaria, è bello udire l’acqua mormorare e parlare di storie antiche, di cavità nascoste colme di un calore che è amore verso la vita, del fluire di forze nelle piante, delle storie delle viole a primavera e delle primule che rubano il loro colore ai raggi pallidi del sole invernale, delle genzianelle che sognano di abbracciare il sole lontano e ne ricevono un bacio che diventa profumo. E vedere per un attimo il mantello azzurro della fata dell’acqua che suona la musica delle pietre e delle radici e trasporta nella sua corrente sogni di foglie cadute nel passato autunno, ammantate del colore dei tramonti»(6).
 
E su tutto l’amore, come dice Scaligero: «…l’arte dell’uomo è vivere perennemente in stato di amore: essendo la sua relazione con la sostanza dell’essere: la relazione obiettiva con il pulsare della vita»(7).
 
«L’amore è una sorgente perenne che perennemente nasce e si di diffonde intorno bagnando i campi, dissetando gli animali e gli uomini. Una sorgente che nasce di continuo dalle profondità insondabili dell’anima e del cuore, non può morire: muore per rinascere sempre, si dona per sorgere di nuovo. In cento rivoli scorre sul mondo che assetato l’assorbe e la dimentica, torna ad alimentarsene e ancora a dimenticarla nella sua banalità quotidiana. Eppure c’è un Luogo dove l’acqua non si consuma mai e dove si ritrovano coloro che dalle origini del tempo devono incontrarsi. Quello è il giardino dell’Eden, l’orto delle Esperidi è Tir-Nan-Og, il Paese dell’Estate. Nessuno che sia solo può entrarvi. Non c’è spada levata, non c’è preghiera, non c’è saggezza o sapienza che permettano all’uomo l’ingresso nel suo paradiso se la mano di una donna non l’accompagna attraverso i millenni, attraverso il dolore e la morte. Perché lei è la sua vita ed ogni sua parola, ogni suo gesto sono, per colui che ama, il segno d’una promessa che sarà mantenuta, oltre lo spazio, oltre il tempo»(8).
 
E quando l’indicibile è espresso, questo avviene attraverso la parola poetica, che è patrimonio del “bardo”, di colui cioè che carpisce il segreto del Verbo e, come è riuscito in questo caso a fare Renzo Arcon, lo elargisce agli uomini.

Fabio Burigana

(1) R. Arcon, Di Artú e della Tavola Rotonda, Il Cinabro, Catania, Giugno 2001, pp. 27-28.
(2) op.cit., p. 31.
(3) op.cit., p. 42.
(4) op.cit., pp. 49-51.
(5) op.cit., pp. 60-61.
(6) op.cit., pp. 74-75.
(7) M. Scaligero, Dell’Amore Immortale, Tilopa, Roma 1963, p. 50.
(8) R. Arcon, op. cit., pp. 87-88.