- Nel
suo Manuale pratico della meditazione Massimo
Scaligero indica, tra gli esercizi da praticare per
conseguire il dominio finale dell’Io sui corpi
astrale, eterico e fisico, quello della Percezione
pura. A tal fine precisa: «Nella concentrazione di
solito il discepolo giunge a contemplare il proprio
pensato: nell’esercizio del percepire puro,
contempla un pensato piú potente: quello della
natura creatrice». E aggiunge: «È un pensiero che
egli non deve pensare, ma semplicemente lasciar
agire nell’anima». In tal senso, l’Autore
distingue tra oggetto costruito dall’uomo, e
pertanto inanimato, non utile al percepire puro, e
oggetto animato dal pensiero creatore, che vi si
manifesta quale dato vivente, ritenendo tale oggetto
il solo in grado di favorire la contemplazione, che
conduce l’asceta a percepire le forze plasmatrici
dell’ordine naturale, trascendendo la mineralità
fisica, la materia concreta. Solo in una fase
inoltrata dell’ascesi il discepolo può altresí
sperimentare, mediante il percepire interiore, quale
“spirito” abiti l’oggetto inanimato costruito
dall’uomo.
- Secondo
questi concetti, come giudicare quindi un prodotto
dell’arte, e come l’autore dello stesso? In che
modo applicare i procedimenti del percepire puro
riguardo a un oggetto che definire inanimato è
improprio, in quanto, sebbene fatto da mano umana,
contiene l’elemento vitale o eterico, il contenuto
sovrasensibile, ovvero il vivente della natura?
Oggetto che diventa, per usare ancora le parole di
Scaligero, nella «mineralità terrestre, il
supporto in cui si estrinseca direttamente l’Io,
con il suo potere d’identità», un potere che l’artista,
se ispirato dalla sublimazione interiore, può
adoperare per far risorgere dal crudo mezzo materico
«le potenze spirituali invertite e dormienti»,
ovvero «l’intimo risorgere della realtà
trascendente della mineralità dalla percezione». E
ancora, con quali criteri di giudizio si può
accertare la reale collocazione di un artista sui
vari gradini della scala gerarchica dei valori
immaginativi e valutare l’entità dei doni
ispirativi di cui egli è gratificato in forma
sorgiva? Condizione quest’ultima conquistata
durante il ciclo delle reincarnazioni che ne hanno
affinato le doti tecniche e le capacità espressive
e interpretative.
- Nel
suo romanzo Rosshalde, lo scrittore Herman
Hesse descrive la seguente conversazione tra il
padrone di casa, il pittore Johann Veraguth, e un
ospite, Otto Burkhardt, appena ritornato da un
viaggio per mare in Oriente. Stanno discutendo di
pittura e pittori, dopo che l’anfitrione ha
mostrato al visitatore il dipinto che ha quasi
terminato e che illustra una scena di pesca, al
tramonto, sul fiume Reno.
Veraguth: «Non mi sono mai annoverato tra i
grandissimi».
Burkhardt: «Che intendi per “grandissimi”?».
Veraguth: «Mah, intendo il re e i principi.
Quelli come me arrivano a generale o ministro, oltre
non si va. Vedi, non possiamo far altro che lavorare
duro e prendere la natura il piú seriamente
possibile. I re, invece, sono fratelli e compagni
della natura, ci giocano insieme, e sanno creare
laddove noi semplicemente imitiamo. Ma naturalmente
i re sono rari, neanche uno ogni cent’anni».
- Insieme
all’insegnamento esoterico di Massimo Scaligero,
torna in mente questo passaggio narrativo visitando
la Galleria Borghese di Roma, per ammirare la “Deposizione”
di Raffaello, cosí come viene restituita al
pubblico dopo un restauro durato qualche tempo.
Scarsa eco ha prodotto l’operazione nei media, se
non per le polemiche sorte, secondo un vetusto vezzo
italico, tra quelli che hanno lodato la rifacitura
conservativa e quelli che invece l’hanno esecrata,
attribuendole iniziali cattive intenzioni e peggiori
risultati finali. L’appunto maggiore, e piú
capziosamente specifico, che i detrattori muovono ai
restauratori, è di aver totalmente e
irrimediabilmente obliterato, con empia mano, le
famose velature per cui gli artisti rinascimentali
vanno rinomati, in particolare il grande urbinate,
oltre che ovviamente Leonardo e gli artisti della
scuola veneta che seguirono. Ma assente il Maestro
da Vinci dalla Borghese, arduo risulta il confronto
tra il “pennello divino”, che dipinse la
Deposizione a soli venticinque anni, e gli altri
pittori che dividono gli spazi parietali di quella
che fu la villa agreste dei Borghese ai tempi in cui
la potente famiglia romana, discendente dai Flavi,
forniva papi, cardinali e condottieri, mentre
scalava con piglio sicuro l’erta e malfida
montagna del potere ecclesiastico e temporale.
- Con
tutto il rispetto per l’ “Amor Sacro e Amor
profano” di Tiziano, la “Sibilla” e la “Caccia
di Diana” del Domenichino e per altre pregevoli
testimonianze di alta e media scuola, Raffaello
campeggia veramente da re in un parterre di varia
nobiltà pittorica ducale e comitale.
- Qual
è il quid che lo rende tale? È certo lo stesso che
fece dire al Perugino, maestro e capo della bottega
dove Raffaello imparava i rudimenti del mestiere,
rivolto agli altri apprendisti e indicando una
Madonna che il ragazzo di Urbino stava dipingendo:
«Da oggi in poi seguite lui e non me».
- Rudolf
Steiner ha dedicato uno studio particolare alla
figura di Raffaello. A lui assegna un ruolo
determinante sia nel campo pittorico, già
esaurientemente osservato da critici e storici in
ogni possibile implicazione tecnica e figurativa,
sia nella meno indagata qualità immaginativa e
ispirativa collegata al simbolismo archetipico,
materia questa cui gli esperti non guardano se non
con un sospettoso distacco, temendo di battere vie
irte di insidie trascendenti e metafisiche. Dice
Steiner: «Raffaello fa parte di quelle figure della
storia spirituale umana che compaiono come una
stella e che sono semplicemente presenti, destando
il sentimento che affiorino da indeterminate
profondità dell’evoluzione spirituale dell’umanità,
per poi scomparire, dopo aver inscritto con poderose
creazioni il loro essere nella storia spirituale
dell’umanità». E ancora: «Le opere di Raffaello
continuarono dopo la sua morte ad agire come
qualcosa di vivente, ché una corrente spirituale
scorre dalla sua vita fino ad oggi».
- Per
il Maestro dei Nuovi Tempi, inoltre, Raffaello
incarna lo spirito creativo che ha guidato l’evoluzione
dell’arte classica greca, temperandone gli stilemi
e i contenuti, per farla evolvere in quella della
simbologia cristica, di cui fu poi pervasa tutta l’arte
occidentale, finché l’ateismo intellettuale non
ne ha frantumato i crismi ispirativi e le
figurazioni formali nell’arte moderna
cerebralizzata, astratta o manieristica.
- Sempre
secondo Steiner, nella storia evolutiva dell’umanità
si presenta una profonda cesura: da un lato «vi è
il mondo greco, che ci mostra come l’umanità
mantenga l’equilibrio tra l’elemento
spirituale-animico e quello corporeo. Dall’altro
lato vi è la fondazione del cristianesimo, per il
quale è fondamentale che tutto quanto sperimenta l’anima
umana avvenga nell’interiorità, con sforzi e
lotte, volgendo lo sguardo non al mondo dei sensi,
per sentire i segreti dell’esistenza, ma a quello
che si riesce a presagire cercando lo spirito,
quando esso si affida alle forze
spirituali-animiche. Sono infinitamente diversi e
come separati da un profondo abisso, i Greci belli,
i maestosi dèi greci di compiuta bellezza, Zeus o
Apollo, dal Cristo morente in croce, che reca un’interiore
profondità a grandezza, e non certo bellezza
esteriore. È già un simbolo della profonda cesura
che vi è tra il cristianesimo e la grecità nell’evoluzione
dell’umanità».
- E
sviluppando lo stesso concetto, si esprime piú
oltre: «Abbiamo cosí il singolare fenomeno che in
Raffaello il mondo greco rinasce nel cristianesimo.
In lui vediamo un cristianesimo in un’epoca che in
un certo senso rappresenta attorno a lui elementi
anticristiani. In lui ci si presenta un
cristianesimo che supera di gran lunga la
ristrettezza di quello precedente, e si eleva a un’ampia
concezione rispetto al mondo di allora. Tuttavia,
vediamo un cristianesimo che non aspira a rinviare
alle sfere infinite del puro spirito, ma che, come
un tempo i Greci si erano ritrovati nella forma
artistica dei loro dèi, si unisca con quanto vive e
attraversa il mondo senza forma, chiudendolo nelle
figure che in pari tempo rallegrano i nostri
sensi».
- Cosí
come l’asceta che realizzi la spagiria interiore
attraverso le pratiche esoteriche e mistiche, anche
l’artista può accedere alle «strutture
sovrasensibili del cui potere formativo l’oggetto
è il segno» e stabilire «la relazione pura dell’Io
con il sensibile», grazie alla quale potrà
individuale e nettamente percepire quell’aura
eterica di cui ogni composizione artistica in
generale, e pittorica in particolare, è pervasa, e
che, mai spenta, tuttora riverbera la potenza
ispiratrice dalla quale Raffaello trasse le “imagini-forza”,
i “simboli imaginativi” di cui la Deposizione
risulta, a distanza di secoli, un possente e
vibrante repertorio. In tal modo Raffaello poté
attingere al mondo degli archetipi e portarli alla
visione degli uomini in opere che ancora oggi ne
testimoniano la potenza del pensiero universo,
immanente nelle forme eterico-fisiche della
composizione pittorica. Egli ha potuto e voluto,
quindi, in virtú del cammino evolutivo spirituale
compiuto nelle sue incarnazioni precedenti alla
fattura dell’opera, compiere per tutti noi, ovvero
per l’umanità intera, quella Magia Solare, punto
conclusivo di ogni ricerca sublimativa che il
seguace della Scienza dello Spirito decide di
intraprendere. Ecco allora che un’opera come la
Deposizione rappresenta uno strumento guida, e
altissimo, per illuminare di luce taborica, di
quintessenza angelica, ogni tipo di percorso
spirituale condotto a termine nel segno cristico.
- In
tale spirito, Rudolf Steiner assegna a Raffaello,
oltre al potere di attingere agli archetipi e
renderli intelligibili agli uomini di ogni epoca,
una facoltà di chiaroveggenza, propria di uno
spirito che, avendo compiuto un procedimento di
autorealizzazione, è in grado, attraverso il
simbolismo eterizzato e quindi sottratto a ogni
legge spazio-temporale, di illuminare l’evoluzione
del destino morale, religioso ed esoterico dell’uomo,
dai tempi piú remoti della sua storia,
attraversando quelli presenti, proiettandosi nel
futuro che l’attende. Pertanto la Deposizione
viene letta piú propriamente non solo come una
tavola pittorica, portata a compimento mediante l’uso
di piú o meno sofisticate elaborazioni tecniche (si
dibatte ancora se la luminosità che pervade le
figure del Sanzio derivi dall’impiego di cristalli
e quarzi triturati o da altri simili espedienti),
bensí interpretata quale figurazione simbolica
della morte di una divinità incarnata, che diventa
seme di spiritualizzazione della Terra e dell’Uomo.
Vediamo perciò la spoglia corporea privata dello
spirito divino, tornata materia che si dissolverà
per risorgere in veste eterica. A destra la Madre,
abbandonata dai sensi, terrea in volto come la carne
esangue del Figlio: lei è la religione antica, la
madre terrestre, sorretta dalle tre Marie – le
tradizioni misteriche di varia derivazione –
doppiamente aureolate, volendo indicarne la
continuità nel tempo. La Maddalena, anch’essa
aureolata, è la Donna, la Shakti, l’eterno
femminino mai disgiunto dall’uomo che si
divinizza, per indicare la dualità necessaria alla
finale ricongiunzione e soluzione degli opposti. C’è
poi Pietro, forse un ritratto di Michelangelo, con
una sola aureola, che indica la Chiesa legata al
potere temporale, il cui piede persino intralcia lo
slancio della pietà della Maddalena. La spoglia
divina è sorretta da due figure: quella a sinistra
è forse Giuseppe d’Arimatea, colui che risolve le
difficoltà materiali, il tedoforo della
testimonianza evangelica nell’Occidente pagano
celtico. Divide lo sforzo di sostenere il peso
materico del corpo un giovane a metà tra guerriero
e tribuno, ma disarmato, forse un discepolo, o forse
la romanità privata del suo potere oppressivo, come
lo fu Saulo, reso apostolo del messaggio cristico
nella sua essenza piú forte, quella che entrò
nelle leggi umane, nell’organizzazione degli
Stati, l’ordinamento divino che dal decalogo di
Mosè, concluso dal Vangelo, ha ispirato la
coscienza del diritto nei paesi occidentali,
collegandosi per sotterranee vene e diramazioni alle
leggi degli altri popoli della Terra, che a quegli
ordinamenti si sono riferiti nei secoli. E in ultimo
Giovanni, la cui veste vermiglia traspare dietro le
membra concitate dei personaggi in primo piano.
Benché profondamente partecipe, l’Apostolo
prediletto è collocato al di sopra del dramma,
poiché, oltre alla Madre, egli è colui che sa,
conosce tempi, modi e risultati ultimi del
sacrificio del Golgotha al compimento dei secoli,
fino alla loro consumazione, quando il mondo fisico
cesserà, per dare inizio a quello animato dal puro
spirito: la gloria del Figlio dell’Uomo
cancellerà per sempre le tre croci tuttora visibili
nella parte alta a destra del dipinto: tre simboli
spettrali, amorfi, dove la morte indugia in attesa
della folgore salvifica del Cristo che la
sconfiggerà. Giovanni attende, guarda la spoglia
inerte già tutta preda del lividore, segno dell’assenza
dei corpi interiori. Nella misurata intensità del
suo dolore, la consapevolezza del proprio còmpito
di guida spirituale.
- E
allora, proprio per l’attualità dell’opera di
Raffaello, andiamo a contemplare la Deposizione –
detta anche Pala Baglioni, dal nome del committente
– nella Sala 4, all’ultimo piano della Galleria
Borghese. Essa ci parla di cose altissime, ci
promette gioie e consolazioni oltre l’attuale
Apocalisse. Contempliamola secondo l’insegnamento
di Massimo Scaligero in merito alla Percezione pura:
«Dinanzi al creato della natura, l’immobilità
trapassa spontaneamente nella quiete profonda: è la
quiete della potenza del pensiero universo, che si
manifesta nelle forme eterico-fisiche. L’oggetto
diviene simbolo immaginativo di una specifica
corrente creatrice della natura». In tale oggetto,
la mano del pittore ha trasfuso l’intelligenza
cosmica, retta dall’Arcangelo del Pensiero. La
stessa che ha consentito alla sua anima di vedere e
carpire per noi “il segreto della vita”.