- Alle ore
17.49 del 5 maggio 1821, moriva nell’isola di Sant’Elena
Napoleone Bonaparte. Era stato un grande generale e
stratega, aveva vinto molte battaglie, conquistato città e
Paesi, aveva cinto la corona imperiale, quasi un dio tra gli
uomini. Eppure alla fine quella terra pietrosa in mezzo all’oceano
era tutto ciò che gli aveva riservato il suo controverso
destino. Morí sussurrando le parole «Alla testa dell’armata…».
Delirando, si riferiva forse allo sterminato esercito di
soldati morti nelle battaglie che egli aveva combattuto, e
che ora lo attendevano, come egli stesso aveva preconizzato,
nei Campi Elisi degli eroi.
- Fintanto
che le sorti dei conflitti venivano decise con grandi
scontri campali, in cui rifulgevano sia il valore dei
combattenti sia quello della mente che ne preordinava l’impiego
tattico, ogni comandante militare aveva un modello ideale
cui riferirsi. Quello di Napoleone era Alessandro Magno. Del
re macedone egli ammirava tuttavia, piú della genialità
strategica, l’opportunismo politico. Analizzando il
carattere del conquistatore d’Egitto, Persia e India,
cosí aveva annotato Napoleone nei suoi scritti
autobiografici: «Da parte sua, è stata una grande trovata
identificarsi con Ammone: cosí ha conquistato l’Egitto.
Se fossi rimasto in Oriente, avrei probabilmente fondato un
impero come Alessandro, andando in pellegrinaggio alla
Mecca, dove avrei pregato e mi sarei genuflesso, ma lo avrei
fatto solo se ne fosse valsa la pena».
- Spregiudicatezza
quindi che si accompagnava, nei due personaggi, alla
grandiosità dei progetti di conquista e a una non minore
esigenza di rivestirli di nobili ideali e di motivazioni
etiche. Ecco allora Alessandro giustificare le sue
spedizioni in Oriente col pretesto di voler portare ai
barbari di quelle regioni il seme della civiltà ellenica,
secondo i concetti filosofici del suo precettore Aristotele.
E il piccolo ufficiale corso, animato da ideali guerreschi,
e da non meno pressanti istanze di riscatto sociale,
partendo per la campagna d’Italia che lo avrebbe
consacrato grande condottiero, annunciava di voler portare
agli italiani prima e agli altri popoli europei in seguito,
i valori della Rivoluzione Francese, che egli aveva saputo
difendere a colpi di cannone.
- Mutano
tempi e modi, ma non la sostanza dei comportamenti umani.
Con le dovute differenze di epoca e di statura dei
personaggi, anche il presidente americano Bush ha voluto
nobilitare l’operazione “Antica Babilonia”, ovverosia
l’invasione dell’Iraq, puntualizzando, ad uso degli
Stati Uniti e del mondo, che non di guerra d’occupazione
si trattava quanto piuttosto dell’american dream di
voler elargire alle popolazioni islamiche, oppresse da
regimi canaglia, il seme della libertà e della democrazia
atlantica.
- Questa
di voler giustificare le tendenze espansionistiche e l’aggressività
commerciale con fittizie esportazioni di valori morali,
politici e religiosi, è un po’ una mania di noi
occidentali. Oltre ad imporre le nostre dottrine teologiche
e le nostre cerebrali filosofie a popoli che già ne
possedevano di proprie, e non sempre manchevoli, abbiamo
imposto l’unità di misura, il meridiano di Greenwich, il
calcolo del tempo, il modo di vestire e di nutrirsi, deciso
la cultura e l’economia globale, il sistema bancario e
borsistico, le nostre monete. Non bastando, seduti a
tavolino a Madrid, Parigi, New York, Londra, Amsterdam,
Berlino, Roma e Mosca, abbiamo per secoli tracciato sulle
carte geografiche della Terra le divisioni territoriali,
annettendoci questo o quel territorio, assegnandolo magari a
qualche nostro amico o alleato, decidendo chi, come e quando
andava civilizzato e ricondotto, manu militari o col
bastone e la carota, ai parametri indiscutibili delle nostre
opinioni e realtà politiche. Ma non ci siamo fermati a
questo: i nostri esploratori e scopritori, battistrada del
colonialismo, hanno fatto man bassa delle conoscenze
scientifiche e tecniche dei Paesi per cosí dire visitati,
appropriandosene e assegnandosene poi la paternità. Ai
cinesi, ad esempio, abbiamo preso la bussola, la polvere da
sparo e il baco da seta, che i missionari trafugarono col
furtivo stratagemma di metterne alcuni esemplari nei loro
bastoni da viaggio.
- Per
secoli i popoli defraudati, mancando di quella sicumera
intellettuale che rendeva gli occidentali tanto certi della
propria missione civilizzatrice, non hanno parlato e
reclamato. Ma oggi si stanno svegliando, e poiché noi
tuttora insistiamo nel voler condurre la quadriglia della
politica e dell’economia mondiali, ché al dunque di
questo si tratta e non di alti ideali, si ribellano e
chiedono di rivedere certi raggiungimenti del passato,
sottoponendoli a regolare processo, come si fa con alcuni
personaggi del tempo andato per verificarne la tenuta
morale, il valore scientifico o letterario; e cioè se,
riguardo alla fama di certi protagonisti della storia, sia
tutto oro quello che riluce, in caso le loro gesta vengano
sottoposte a uno spassionato procedimento inquisitorio. Ed
ecco, nella scia della riapertura di processi all’antico,
levarsi la Cina a reclamare nientemeno che la scoperta dell’America
e la prima circumnavigazione del globo. Tremano e vacillano
le glorie di Colombo e Magellano, insidiate, anzi abbordate,
dai marinai della colossale flotta dell’ammiraglio cinese
Zheng He. La sua leggenda, che tale non è, parrebbe, riposa
solida e rispettabile in una corposa documentazione che il
governo di Pechino ha deposto presso gli uffici dell’ONU,
affinché venga ridiscussa la paternità della scoperta del
continente americano e della prima navigazione intorno al
mondo, entrambe le imprese condotte, come si suol dire, in
porto da Zheng He, eunuco e musulmano, benché cinese
verace. Al comando di trecento navi, con ventisettemila
uomini di equipaggio, l’ammiraglio del Celeste Impero
toccò l’America nel 1405, vale a dire ottantasette anni
prima del genovese al servizio dei reali di Spagna. A
differenza però di Colombo – che per trovare i mitici
tesori del Catai navigava e rischiava la vita sua e dei suoi
compagni di viaggio – non erano l’oro, le gemme e altre
amenità di lusso e valore materiale che i cinesi cercavano.
Era,
la loro, un’impresa per cosí dire dimostrativa, volta a
guadagnare prestigio e gloria per il loro imperatore agli
occhi del mondo. Questo tengono a precisare, nella loro
richiesta di riesame del caso, i cinesi. Cosí come si
premurano di dichiarare che, sempre stando ai documenti in
loro possesso, e attualmente nelle mani degli appositi
funzionari e tecnici delle Nazioni Unite, l’Imperatore
cadde in miseria per finanziare l’impresa, e ridusse a
brulla savana l’intera regione meridionale del suo Paese,
disboscandola di tutte le foreste di mogano, legno
utilizzato per la costruzione delle centinaia di vascelli.
- Va da
sé che l’iniziativa del governo di Pechino, di
sollecitare l’ONU a far luce sulla vicenda Zheng He, non
è da intendersi per quello che appare ma per quello che in
realtà è: una provocazione dalla quale non si attendono
risarcimenti ex-post e riparazioni in termini storici
o morali. I cinesi sono oggetto, negli ultimi tempi, di una
vasta e neppure tanto occulta manovra di isolamento e
demonizzazione da parte delle nazioni occidentali,
USA in testa. Forti del numero umano, solerti e industriosi,
ben determinati e dotati di fantasia e capacità di
adattamento e sopportazione, quelli che dopo la seconda
Guerra Mondiale giravano per le nostre vie e piazze vendendo
cravatte a mille lire (“mille lile”, per chi ricorda),
sono ora un popolo coeso e consapevole, che chiede rispetto
e la partecipazione egualitaria alla conduzione degli affari
globali del pianeta. Ché non si può parlare e sparlare di
globalizzazione e poi operare alla creazione di blocchi
ferrei a tenuta stagna, per isolare e tenere fuori dai
proventi e dalle decisioni i popoli segnati alla lavagna tra
i cattivi o tra i pericolosi. Nessun popolo ama essere
ghettizzato, recluso tra nuove muraglie. Tutti chiedono di
abbattere le invisibili barriere delle paure, dei
pregiudizi, e uscire allo scoperto, per lavorare cooperando,
con le pari opportunità e ovviamente responsabilità.
- Quello
dei blocchi è un perverso meccanismo della storia umana che
pareva dovesse estinguersi con le due Guerre Mondiali,
seguite ambedue a intese, alleanze, patti di ferro o d’acciaio,
accordi segreti che hanno dato luogo a letali minuetti e
innaturali connubi. Di fatto però, con diverse modalità,
la filosofia dei blocchi condiziona tuttora e ispira la
politica degli Stati, in particolare determina la politica
di quello statunitense, che vive piú di ogni altro sotto la
spada di Damocle dell’isolamento. Eppure, malgrado la
situazione attuale non lo giustifichi, un sano ottimismo
potrebbe rassicurare chi, non condizionato da esigenze di
mestiere e interessi di bottega, guarda alle cose del mondo
odierno attraverso l’ottica della natura ideale e piú
ancora di quella spirituale dell’uomo. Blocchi, strategie,
opportunismi e alleanze fanno parte del repertorio di
ingenuità animiche che l’umanità ha coltivato finora. Al
momento questi giochi, il piú delle volte letali, si sono
rivelati, oltre che deleteri, inutili. La civiltà umana non
ne ha guadagnato che vasti cimiteri, campi minati, mari e
fiumi contaminati, ma soprattutto uomini e donne segnati da
rancori e ferite che neppure il tempo e altre vacue intese e
alleanze riusciranno mai a cancellare.
- E
allora, in definitiva, a chi veramente conviene escogitare
nuove trame e perpetuare sine die questo stato di
cose? Certamente solo ai pochi che tuttora si illudono di
essere tanto abili da poter scatenare il fuoco della guerra
e dell’odio religioso in tutta la regione mediorientale e
in altre aree calde del globo, pur restandone comunque
indenni, anzi traendone dei vantaggi. Costoro dimostrano di
non sapere che praticano strategie antiche, inefficienti.
Soprattutto rivelano di non aver capito che il tempo per
realizzare la vera civiltà universale diventa sempre piú
esiguo e pressante.
- Civiltà
che non si può tuttavia esportare quando se ne possiede una
imperfetta, oppure quella di cui siamo portatori è gravata
da ogni sorta di aberrazione, follia o ingiustizia.
«Medico, cura te stesso!». Ma forse, non occorre neppure
voler esportare una qualunque civiltà, e ciò perché, come
già si è detto, ciascun popolo ha la sua, quella che è
riuscito ad elaborare in secoli di tentativi, forgiando la
propria essenza animica fino a renderla un peculiare modello
di identità culturale ed espressiva. Purtroppo il
colonialismo, di cui l’Occidente è stato cinico promotore
in passato, ha agito nel segno della totale obliterazione
delle connotazioni identitarie delle popolazioni con le
quali entrava in contatto, praticando, insieme alla
spoliazione materiale, anche quella dei valori creativi,
religiosi e misterici, imponendo spesso con la forza e le
prevaricazioni generalizzate i propri canoni, usi e costumi,
in breve operando una integrale damnatio memoriae a
danno delle comunità, allora come adesso, giudicate
inferiori e perciò necessitanti liberazioni,
democratizzazioni e indottrinamenti di varia natura e
durata. I popoli, è da sperarlo, si scambieranno in futuro,
su base paritetica, le qualità specifiche di cui sono
dotati e per le quali hanno lottato e sofferto. Questo è l’unico
progetto per il quale vale la pena impegnarsi, non
dispiegando carri armati e cannoni, ma unicamente adoperando
validi e disinteressati programmi cooperativi, fatti di
scambi e sintonie, e con tanta fraterna buona volontà.
Qualcuno, due millenni fa, garantí che sarebbe stata
sufficiente questa disponibilità interiore a dare all’uomo
la vera pace sulla Terra.
- Napoleone
però non riteneva che ciò fosse possibile. «La pace
generale è una chimera», ebbe a dire piú volte, e in un
colloquio col principe di Metternich, alla vigilia della
disastrosa battaglia di Lipsia del 1813, all’invito di
stipulare un accordo di non belligeranza, che avrebbe
evitato una carneficina del raccogliticcio esercito francese
formato da ragazzi e riserve, replicò: «Sono cresciuto sul
campo di battaglia, e un uomo come me si cura ben poco della
vita di un milione di uomini…».
- Ecco,
qui è il punto dolente: il potere minimizza l’uomo
individuo, lo riduce a numero di massa, a duttile strumento
di egemonia. Quando ciò avviene, nello scenario delle
vicende umane si profila una via di non ritorno, che conduce
allo scivolamento inarrestabile verso la libidine del cupio
dissolvi, alla filosofia del “dopo di me il diluvio”.
Una cecità allora si impadronisce di chi governa le sorti
del proprio Paese e ambisce a farsi arbitro dei destini del
mondo. Vengono profanati i tabernacoli delle interiorità
individuali e la civiltà intera decade a un’accozzaglia
di bruti armati solo del proprio demente potenziale di
orgoglio. Ogni fatalità si rende a quel punto possibile,
poiché, venendo a mancare l’ossatura portante della
tenuta morale, il corpo sociale si affloscia, lasciando che
s’instauri la cultura del saccheggio e del vilipendio,
della tortura e della morte.
- Perché
attendere dunque che ci unisca il dolore comune, che ci
affratelli la rovina irreversibile del mondo? Conviene da
subito cambiare e cedere un po’ del nostro, fare posto a
tavola, porgere quando occorre l’altra guancia. Convivere,
insomma, mediare, aprire le porte dei nostri cuori in
assedio. Soprattutto, tornerebbe forse utile capire quello
che il Cristo è venuto a dirci realmente, rivelando l’uomo
a se stesso e indicando, tra le molte e varie strade di
autorealizzazione tentate dalla sapienza umana, quella dell’amore
spontaneo, fattivo e costante per ogni nostro simile e per
il vivente in generale. Via difficile che, come deduciamo
dalla presente situazione mondiale, stenta a delinearsi, a
causa delle continue derive ingannevoli dell’Ostacolatore,
tutte improntate al materialismo piú assoluto: idolatria
del consumo e della ricchezza, economia di sfruttamento,
speculazione finanziaria, guerra, relativismo morale,
alienazione dal sublime e dal sacro, negazione del
trascendente. Quella Via potrà aprirsi solo all’Uomo
illuminato dal pensiero vivente e in armonia col proprio Io
superiore. La conoscenza iniziatica e la Scienza dello
Spirito lavorano affinché ogni creatura umana possa
pervenire a questo finale traguardo di assimilazione al
Divino.