Antroposofia

Nelle Linee direttrici di Scienza dello Spirito (Anthroposophische Leitsätze) di Rudolf Steiner, troviamo scritto: «Possono essere antroposofi soltanto coloro che sentono certi problemi sull’essere dell’uomo e del mondo come una necessità vitale, allo stesso modo con cui si sente la fame e la sete».
L’universo e l’uomo, se considerati con lo sguardo fisico e pensati in categorie concettuali dell’intelletto logico, appaiono come un immenso enigma. Ciò che esiste appare, ma non spiega al contempo il perché e il come della sua esistenza. Per il fatto che l’uomo moderno è dotato soltanto della percezione fisico-sensoria e del pensiero logico-concettuale, deve di necessità vedere il mondo come una realtà senza causa e senza fine. La causa e il fine, sia dell’universo e sia dell’uomo, non stanno difatti nell’ambito del percepibile. Il concetto di causa e il concetto di fine sono creati dal pensiero dell’uomo, ma non trovano un corrispondente elemento nella realtà. Da questo fatto nasce una discrepanza essenziale tra pensiero e percezione. Vediamo ciò con un esempio tratto dalla comune esperienza. L’uomo osserva come la vita umana cominci con la nascita e termini con la morte. Nascita e morte rappresentano i limiti della percezione dell’esistenza dell’uomo. Il pensiero crea però per proprio conto il concetto di causa e il concetto di fine; questi concetti non s’adeguano però ai limiti della percezione, ma li oltrepassano. Nessun essere umano normalmente costituito può accettare la seguente proposizione: «La causa dell’uomo è la nascita e il fine dell’uomo è la morte». Nel concetto di causa è insito il concetto di pre-esistenza in un ordine reale diverso da quello in cui appare la conseguenza della causa, ossia l’effetto. Certe cose sono piú difficili a dirsi che a capirsi. Perciò cercherò di spiegarmi con qualche esempio. Consideriamo un orologio: vi sembra possibile che la causa dell’esistenza di un orologio sia anche un orologio? Evidentemente no. Nessuna cosa può avere la causa della sua esistenza e del suo divenire in sé o in una realtà del suo stesso ordine. Dal colore non si produce colore, come dalla gallina non nasce una gallina, ma un uovo. Per questa ragione noi siamo intimamente persuasi, qualunque sia la nostra concezione del mondo che l’uomo non può essere la causa dell’uomo. Nel concetto di fine è a sua volta contenuto il concetto d’un inizio. Lo studente studia per diventare medico. Il fine della sua presente fatica presuppone una nuova attività in futuro. Nel fine c’è dunque sempre l’idea del principio in un ordine reale diverso.
Ecco perché non possiamo istintivamente, per quella stessa forza di pensiero che agisce in noi magari a nostra insaputa, accettare l’idea che la nascita sia la causa dell’esistenza dell’uomo e che la morte sia il fine della vita. Il pensiero si spinge al di là della nascita e al di là della morte ma in questo suo andar oltre non ha niente su cui appoggiarsi. Esperimenta perciò in sé un certo vacillamento e si ritrae impaurito. Il pensiero supera i limiti della percezione; da tale fatto sorge il problema, la domanda. Quando pensiero e percezione coincidono, lo spirito umano è soddisfatto e non sente il bisogno di porsi problemi. Ciò però non avviene spesso. Il piú delle volte il pensiero è molto piú vasto del contenuto percettivo. Nell’universo allora tutto appare oscuro ed enigmatico. Di fronte a una realtà in cui pensiero e percezione appaiono discrepanti l’uomo può assumere due diversi fondamentali atteggiamenti interiori. Può dare maggior valore al pensiero o alla percezione. Se dà maggior valore al pensiero dice a se stesso: «La realtà non si esaurisce nella percezione. Il pensiero mi fa intuire l’esistenza di una realtà di ordine diverso, ma non mi conduce in essa: dove non c’è la percezione, c’è l’ignoto. La conoscenza umana ha dei limiti e questi limiti sono segnati dalla percezione. Oltre la percezione posso andare soltanto con la fede religiosa». Se viceversa da piú importanza alla percezione, fa il ragionamento che segue: «Non vi può essere alcuna altra realtà al di là del percepibile. Il pensiero tuttavia aggiunge a questa realtà un elemento nuovo, non proprio ad essa, quindi l’accresce, la gonfia, le crea intorno un margine concettuale impenetrabile. Dove c’è il pensiero, c’è l’ignoto. La conoscenza umana ha dei limiti e questi limiti sono rappresentati dal pensiero. Oltre il pensiero posso andare soltanto con l’ipotesi scientifica». Queste due concezioni opposte conducono tuttavia a uno stesso risultato: la persuasione che vi siano dei limiti alla conoscenza. Chiamiamo, tanto per intenderci, queste due estreme concezioni l’una idealismo e l’altra materialismo. Per chiarire il nostro pensiero, immaginiamo ora un idealista e un materialista davanti a un oggetto che non hanno mai visto in precedenza, per esempio un orologio. Essi non sanno nulla né dell’orologiaio, né delle leggi fisiche sulle quali si basa il meccanismo dell’orologio. Questa è naturalmente soltanto un’ipotesi, ma serve al nostro scopo di comprendere i due fondamentali atteggiamenti dello spirito umano di fronte alla realtà. L’idealista, osservando l’orologio, per lui ignoto, si dice: «Qui c’è un oggetto complesso. Esso non può essersi formato da sé. Come l’uomo produce nel suo spirito i pensieri cosí un essere superiore ha creato la sostanza con la quale è fatto questo oggetto. Inoltre vedo del movimento: dentro si muovono delle ruote dentellate e fuori due sfere. Ma poiché nulla può muoversi per conto proprio, devo immaginare che un essere invisibile spinga con le sue dita le ruote e le lancette. Perciò una parte di questo oggetto mi rimane sconosciuta: io non posso percepire né chi lo ha creato, né chi lo anima». Il materialista fa un ragionamento opposto: «Qui c’è un oggetto che per il semplice fatto di esistere fa parte della realtà. Non c’è alcuna ragione ch’io lo consideri come un enigma. La materia fa parte dell’ordine naturale della realtà. In questo oggetto però, oltre che materia, esiste anche un elemento estraneo alla realtà percepibile, cioè il pensiero. Come mai la materia si è organizzata in modo da esprimere alla fine una categoria concettuale? Una parte di questo oggetto mi rimane sconosciuta, cioè l’intima legge della sua formazione che posso anche comprendere, ma non percepire. Devo porre l’ipotesi di un mondo materiale tanto sottile che non si lascia percepire. Per ora questo mondo mi rimane ignoto». Forse i miei ascoltatori non saranno persuasi che c’è la possibilità di ragionare, tanto nel senso idealistico che in quello materialistico, in modo cosí balordo davanti a un oggetto cosí comune come è l’orologio. Se, però, al posto dell’orologio mettiamo l’universo, udremo l’idealista e il materialista esprimersi proprio nel modo sopra descritto. La stranezza dei rispettivi ragionamenti sta in questo, che l’idealista si preoccupa dell’esistenza della materia e il materialista si turba davanti all’idea. Ogni uomo di fronte al mondo si pone delle domande. Dal modo con cui le esprime, comprendiamo subito se nella sua anima prevalga la tendenza spiritualistica o quella materialistica. Dunque, il semplice fatto di porsi delle domande di fronte all’enigmaticità del mondo, non è sufficiente indizio di spirito antroposofico. Domande si pongono tutti; moltissimi però s’accontentano di una parvenza che per l’appunto si trova o nella fede religiosa in un Dio invisibile o nell’ipotesi scientifica di una materia invisibile.
Antroposofo è colui che per la sua domanda esige una risposta reale. Chi ha fame vuole mangiare; se non trova cibo, muore. Cosí è l’anima antroposofica: se non trova nutrimento muore. Chi vuol ricevere una risposta reale, deve anche porsi una domanda reale. Spesso udiamo domande di tal genere: «Chi è Dio?», «Come Dio creò il mondo?», «Perché lo creò?». Sono domande che partono da anime colorite idealisticamente. Diciamo subito che queste domande sono completamente ingiustificate. Non sono domande reali, ma fatte per puro gioco mentale. Domanda reale è quella che poggia sulla percezione di un oggetto. Percepibile e reale è l’universo che si squaderna tutt’intorno a noi e si manifesta ai nostri sensi. Chiedere se vi sia qualcosa oltre l’universo è un assurdo. È lecito invece chiedere allo stesso universo di dirci, attraverso la manifestazione del suo essere e per mezzo delle leggi che lo governano, in che senso esista e il modo del suo divenire. Con questo procedimento basato sul reale, possiamo avere speranza di ottenere una risposta reale. In genere, osserviamo come l’idealista si fa delle domande per pura illazione logica e di conseguenza non ottiene alcuna risposta. Da ciò è tratto a concludere: vi sono dei limiti alla conoscenza umana.
Anche il materialista si fa delle domande. Egli osserva, per esempio, come la calamita attiri dei pezzettini di ferro e come ogni oggetto sia sottoposto alla forza di gravità. Il materialista non può afferrare questa forza di gravità se non traducendola in una formula matematica e in una legge della natura espressa in concetti. Ciò non gli basta. Egli ragiona: «Sí, nella mia mente c’è il concetto della legge della natura, ma, fuori, nella stessa natura ci deve essere qualcosa di piú reale del pensiero, perché un pensiero non sarà mai capace di attirare un oggetto e di far cadere una pietra». Il materialista è perciò costretto ad aggiungere al mondo percepito un mondo impercepibile che per asserto ipotetico è retto dalle stesse leggi e ha le stesse qualità del primo. E poiché in questo secondo mondo non può entrare che con l’ipotesi, anche il materialista è costretto a dichiarare che vi sono limiti alla conoscenza umana. L’antroposofia, invece, all’opposto di quanto dicono la religione e la scienza, afferma che non vi sono limiti alla conoscenza umana. Però a questa affermazione della antroposofia non si può dare un senso assoluto, ma soltanto quel senso preciso che le viene dal complesso della teoria della conoscenza antroposofica. L’antroposofia non pretende certo di rispondere alle domande dell’idealista e del materialista. Per accontentare l’idealista, essa non mostrerà certamente un essere divino che secerne dal suo corpo la sostanza del ferro come il filugello un filo di seta, né per appagare il materialista dirà che c’è un’invisibile mano eterica che esce dalla calamita, afferra il pezzettino di ferro e glielo appiccica.
L’antroposofia dirà semplicemente che le domande dell’idealista e del materialista sono errate e che perciò, almeno nel senso in cui sono formulate, non hanno e non possono avere una risposta. Se poi da questo fatto, la religione e la scienza sono indotte a dichiarare che vi sono dei limiti alla conoscenza, esse dimostrano semplicemente di ignorare che cosa sia la conoscenza. La conoscenza si fonda su due elementi: la percezione e il concetto. Quando uno di questi due elementi manca, non si può piú parlare di conoscenza. Nelle formulazioni teoriche sul problema conoscitivo, l’idealista prescinde dalla percezione e il materialista dal concetto, perciò non è da meravigliarsi se le loro concezioni cadano nel vuoto. La teoria della conoscenza antroposofica è molto complessa, ma nella Scienza Occulta la troviamo espressa in una immagine evidente. Su una strada vediamo impressi i solchi di un carro. Ciò fa sorgere in noi delle domande alle quali, sempre basandoci sull’obiettiva percezione, possiamo dare delle adeguate risposte.
Dalla profondità del solco, possiamo capire se il carro era pesante, dalla disposizione con cui si susseguono i segni degli zoccoli dei cavalli possiamo indovinare la direzione seguita, e cosí via. Ma è ancora lecito chiedere: «Chi guidava il carro?», «Che intenzioni aveva?», «Quali pensieri passavano per la sua mente?». Queste domande sono destinate a cadere senza risposta, ma ciò non deve indurci a concludere che vi siano dei limiti alla conoscenza umana. La conoscenza umana si fonda difatti sulla percezione e sul concetto. Nel fare una domanda destinata a portarci alla conoscenza, dobbiamo perciò basarla sempre sulla percezione. Il problema conoscitivo si svolgerà in modo che nella risposta alla percezione si aggiungerà il corrispondente concetto. La conoscenza non può dare nulla piú di questo. Il giusto processo conoscitivo si svolge perciò in due fasi: “nella domanda la percezione, nella risposta il concetto”. L’idealista e il materialista sono costretti a dichiarare che vi sono limiti alla conoscenza perché non seguono questa via. L’idealista nella domanda parte da un concetto e il materialista nella risposta vorrebbe trovare una percezione. Entrambi si allontanano in tal modo dalla vera conoscenza e il primo deve sostituirla con la fede, mentre il secondo mette al suo posto l’ipotesi.
La conoscenza antroposofica sta ugualmente lontana tanto dall’idealismo che dal materialismo. I problemi che l’antroposofia pone sono sempre fondati sulla percezione, e i relativi concetti sono sempre tratti dal mondo delle idee. Per l’antroposofia non esiste alcuna realtà oltre la percezione e il concetto, in essi si esaurisce tutto il reale. Percezione e concetto hanno uguale valore per l’antroposofo: essi gli appaiono come espressioni paritetiche e complementari della realtà. Per tutte queste ragioni possiamo definire la concezione antroposofica del mondo come un positivismo sensibile ideale, che si fonda ugualmente sulla materia e sullo spirito.

Fortunato Pavisi

Prima parte della conferenza Come ci si avvicina all’antroposofia tenuta dall’Autore
a Trieste l’8 ottobre 1946 e riveduta a cura del Gruppo Antroposofico di Trieste.

Immagine: Carmelo Nino Trovato «Le acque sognanti – Il canto del drago»