- Le
lingue parlate dai popoli antichi, tradotte nei
segni e simboli che ne esprimevano i contenuti
concettuali, ideali e immaginativi, o semplicemente
la valenza materiale e formale, hanno costituito per
secoli uno degli enigmi piú ardui da chiarire per
gli studiosi, gli storici e gli antropologi.
- Nucleo
di tale enigma era la scrittura, cosí come si era
venuta formando nell’àmbito di particolari etnie
e in alcune regioni del mondo, dove si erano per
primi accesi i barlumi della civiltà. Nel tempo, e
in seguito alle vicissitudini belliche, migratorie,
epidemiche e persino genetiche, che avevano
riguardato le differenti popolazioni, molte di
quelle lingue si erano trasformate e persino
estinte. Quando i reperti si riaffacciavano alla
luce, spesso i caratteri semantici non facevano
altro che ribadire l’enigma, infittire il mistero
di cui un dato idioma era circonfuso. Poi, per caso
fortuito, accadeva che il velo si squarciasse, e che
l’enigma e il mistero venissero allora in parte o
integralmente rivelati e interpretati nella loro
vera essenza. Ciò accadeva soprattutto con il
rinvenimento di epigrafi, stele, tavole, graffiti
parietali che riportavano testi paralleli di due o
piú lingue, dando cosí agli esperti la
possibilità, attraverso il raffronto, della
decifrazione della lingua.
- Prima
di essere “nostrum”, ovvero dei Romani,
il Mare Mediterraneo fu per molti anni “mare
punicum”, ossia dominio dei Fenici, in
particolare dei Cartaginesi. Precedentemente, e in
epoche diverse, vi avevano spadroneggiato i Cretesi,
i Dori di Corinto e Megara, e i Focesi. Lungo le
coste mediterranee, ciascuna di queste nazioni
fondava colonie, porti ed empori: Palermo, Solunto,
Malta, Mozia, Cagliari, Utica, Cartagine, Marsiglia,
Napoli, Sulcis, Siracusa, Paestum, Taranto e Alalia,
la moderna Aleria, sulla costa orientale della
Corsica. Nelle acque antistanti questa città, le
flotte di Cartagine e di Etruria, alleate in una
forte coalizione, sconfissero i Greci di Focea.
Correva l’anno 540 a.C., e Cartagine era all’apice
della sua potenza, specialmente sul mare. Chi se la
faceva alleata poteva dormire sonni tranquilli e
godere di un ombrello protettivo contro qualunque
nemico, essendo Roma ancora agli inizi della sua
storia e quasi colonia etrusca essa stessa.
- Di
fronte ad Alalia sulla costa tirrenica sorgeva
Caere, l’odierna Cerveteri, ricca lucumonia
etrusca, posta sopra un rilievo collinare a una
decina di chilometri dal mare. Qui aveva il suo
porto, Pyrgi, oggi Santa Severa, e qui i Ceretani
avevano fondato un santuario, votandolo alla dea
Uni, o Ino, identificata con Giunone o anche con la
Madre Terra. A questa si affidavano le sorti di chi,
ricavando i prodotti del suolo di cui l’Etruria
era ricca, doveva poi prendere le vie del mare per
distribuirli in tutti i porti mediterranei,
controllati in quegli anni, come si è detto, dalle
navi e dai presídi militari di Cartagine.
- Dopo
la battaglia di Alalia, le navi e gli equipaggi
superstiti approdarono al santuario di Pyrgi dove,
in onore degli alleati punici, il reggente della
lucumonia di Caere, Thefarie Velianas, volle
celebrare una dedicatio, una dedica solenne,
alla divinità punica che piú di ogni altra era
assimilata, per attributi e ruolo, alla dea Uni:
Astarte, consorte del dio supremo punico Baal.
Veniva perciò anche denominata Baalat, signora di
Baal, o anche Tanit dai Cartaginesi. La dedicatio
era quasi un invito che la divinità residente
faceva a quella venuta dal mare, ospitandola con
tutti gli onori. A tal fine un simulacro della dea
ospite fu collocato all’interno del tempio e
venerato.
- Ma
come siamo riusciti a conoscere i particolari di
questa storia che data di 2.500 anni fa? Ci voleva
la visita di una dea fenicia a una etrusca per farci
avere un resoconto dell’accaduto e chiarire in tal
modo, finalmente, l’enigma dell’etrusco ancora
insoluto. Nel 1964, durante gli scavi nell’area
sacra di Pyrgi, vennero alla luce tre lamine d’oro
che riportavano incise le formule della dedicatio.
Due erano scritte in lingua etrusca e una in
fenicio.
- Gli
archeologi Massimo Pallottino e Giovanni Garbini,
della Università di Roma, massimi esperti delle
civiltà protoitaliche, assumendo come base il
fenicio, lingua già nota, dopo un raffronto dei
testi paralleli riuscirono finalmente a sciogliere
il rebus rimasto fino ad allora inestricabile. La
traduzione piú attendibile del testo etrusco diede
questa versione finale: «Alla signora Astarte.
Questo è il luogo sacro che ha fatto e che ha
dedicato Thefarie Velianas, re di Caere, nel mese
del sacrificio del Sole, come dono del tempio. E l’ha
fatto perché Astarte ha richiesto ciò da me nell’anno
terzo del mio regno, nel mese di Kerer, nel giorno
del seppellimento della divinità. E gli anni della
statua della divinità nel suo tempio siano tanti
come queste stelle».
- Oltre
a chiarire l’enigma linguistico, le lamine
indicavano anche la data in cui la dedicatio
aveva avuto luogo, facendo riferimento a una
ricorrenza liturgica. Si tratta con molta
probabilità del culto di Adone, un altro dei nomi
che si dava al dio supremo Baal. Nel mese di Kerer,
il terzo del calendario fenicio corrispondente a
novembre-dicembre, avvengono due sepolture: quella
del seme nella terra e del Sole al suo punto
orbitale piú basso nel solstizio invernale. In quel
periodo a Biblo, in Fenicia, le acque del fiume
Nahar, che attraversava la città, si coloravano di
rosso. Il dio era morto, ucciso da un cinghiale
nelle foreste dell’Antilibano. Iniziavano allora i
riti di cordoglio, le donne si radevano il capo e
formavano cortei funebri che attraversavano la
città levando alte e accorate lamentazioni. Gli
stessi cortei, ma festosi e giubilanti, si formavano
alla resurrezione del dio, che avveniva con l’arrivo
della primavera. Evento segnalato dai primi germogli
che spuntavano nei “giardinetti di Adone”, i
vasi dove erano stati posti dei semi di grano e che
venivano collocati sui tetti e terrazzi delle case.
Un rituale passato poi al cristianesimo: in molte
località d’Italia le donne portano tuttora in
chiesa vasi con germogli del primo grano, in
occasione della Pasqua.
- Quanto
alla lingua fenicia, che aveva consentito di svelare
il mistero di quella etrusca, essa deve a sua volta
la propria decifrazione all’egizia. Per secoli si
era saputo che l’alfabeto fenicio era composto da
segni con un valore essenzialmente fonetico, a
differenza delle scritture cuneiformi e geroglifiche
contemporanee, composte da caratteri con valore
logografico-simbolico, espresso da figure e
ideogrammi, e raramente fonetico. Mai si era potuto
decifrare il significato di quei segni per ricavarne
una completa scrittura linguistica. Fino al 1916,
quando l’egittologo Alan Gardiner, studiando i
segni di natura fonetica tracciati da operai fenici
in alcune grotte del Sinai, un tempo miniere di
turchesi, sia sulle pareti sia su oggetti di uso
comune o rituale, accanto a testi geroglifici
paralleli, riuscí a decrittare 22 lettere aventi
valore fonetico. I Greci ripresero poi l’alfabeto
fenicio, che arricchirono con le vocali, prima non
indicate.
- E
fu grazie alla lingua greca che si era riusciti a
decifrare quella egizia un secolo prima. Nel luglio
del 1799, i genieri dell’armata napoleonica
impegnata a conquistare l’Egitto, mentre
eseguivano scavi archeologici a Rashid (Rosetta),
nel delta del Nilo, portarono alla luce una lastra
di basalto nero, lunga tre metri, che recava incise
iscrizioni in tre lingue, con testi paralleli: il
greco, il geroglifico e l’egizio demotico, l’idioma
popolare espresso in caratteri misti con fonemi e
ideogrammi.
- Dopo
alterne vicende e anni di studi, nel 1822 l’egittologo
francese Jean François Champollion, usando il greco
come base di raffronto dei testi, e in parte il
demotico, riuscí finalmente a decifrare i caratteri
geroglifici fino ad allora non interpretati. Giunse
persino a compilare e pubblicare, nel 1832, una
storia, una grammatica e un dizionario della lingua
egizia.
- E
nel 1900 toccò a Sir Arthur Evans – grazie alle
tavolette votive e amministrative rinvenute negli
scavi del palazzo di Cnosso – decifrare la
cosiddetta Lineare A, la lingua usata a Creta e nell’Egeo
prima dei Greci di Micene. Questa era composta da
caratteri arcaici parzialmente simbolici, ma in piú
con caratteri sillabici complementari, come quelli
rilevati a Festo nel 1908 dalla missione italiana
guidata dai professori Halbherr e Pernier. La
Lineare B, successiva alla Lineare A, fu decifrata
solo nel 1952 da Michael Ventris, grazie a un
corredo epigrafico in centinaia di tavolette
rinvenute a Pilo, in Argolide.
- Partita
dai graffiti rupestri tracciati con ingenuo stupore
dagli uomini preistorici, la scrittura era approdata
ai pittogrammi, schematizzati e stilizzati poi in
ideogrammi, coi quali si tentava di stabilire una
corrispondenza, la piú fedele possibile, tra
immagine e oggetto, e ancor piú sottilmente tra
concetto e oggetto, e tra questi e il segno che li
esprimeva foneticamente. Seguí una combinazione di
ideogrammi e segni fonetici, come in Egitto, e
finalmente si arrivò a un sillabismo essenziale e
scarno con l’alfabeto fenicio. La parola venne
smembrata in unità piú piccole di consonanti e
vocali, stabilendo solo la correlazione tra segno
grafico e il suono che esso intendeva esprimere.
Diciamo allora che il linguaggio umano e gli
strumenti formali per significarlo all’intendimento
altrui sono stati il còmpito piú arduo in cui si
siano cimentati, con piú o meno successo, i popoli
della terra nelle diverse regioni ed epoche
storiche. Ciò ha comportato difficoltà tra i
popoli a comprendersi e conoscersi nella loro vera
essenza. Ci sono stati, in tempi recenti, tentativi
per istituire un linguaggio comune a tutte le genti,
come ad esempio il volapuk e l’esperanto, ma senza
visibili e validi risultati. Ci sta provando l’inglese
a divenire idioma del mondo globalizzato, ma anche
in questo caso la riuscita finale è dubbia.
- Eppure,
non è stato sempre cosí. In tempi che si perdono
nelle nebbie atlantidee, gli uomini comunicavano tra
loro senza difficoltà. Come avveniva questo
portento? La Bibbia, nella Genesi, ce ne dà una
testimonianza: «Ora la Terra aveva una sola favella
e un solo linguaggio. …Ecco che questo è un solo
popolo, ed hanno tutti la stessa lingua; hanno
principiato a fare tale impresa, e non desisteranno
dai loro disegni. …Venite dunque, scendiamo e
confondiamo il loro linguaggio, sicché l’uno non
capisca il parlare dell’altro». Qual era dunque
questa lingua comune a tutte le razze e nazioni? Da
quale ceppo antropologico discendeva? Aveva una
scrittura, e se sí, abbiamo reperti che lo provino?
Oppure si trattava di nulla che fosse materiale,
niente segni né testi, né documenti stilati e
gelosamente conservati in archivi, dissepolti poi
come la mitica biblioteca di Assurbanipal a Ninive?
- Quello
che le Sacre scritture tacciono, o descrivono in
termini allegorici, viene invece chiarito dalla
conoscenza esoterica. Nella conferenza Il nuovo
mito di Iside(1),
Rudolf Steiner fa risalire all’epoca arcaica, ai
tempi primigeni, la nascita dei vari linguaggi da un
solo ceppo comune. Queste le sue parole: «Vi era
una volta tra gli uomini la possibilità di
sperimentare il divino nel suo ambiente naturale, in
modo immediato, in ataviche immaginazioni. Quello
era il tempo in cui dominava Osiride. Ma le nuove
concezioni, le concezioni di Tifone, quelle
concezioni che dalla pittografia avevano derivato i
caratteri della scrittura alfabetica, quelle
concezioni che dalle originarie lingue sacre che gli
uomini avevano parlato in comune, avevano derivato i
differenti idiomi…» esprimevano le ataviche
immaginazioni, gli archetipi delle cose, dunque. Gli
uomini dell’èra arcaica, preesistente agli dèi,
cosí come li avevano configurati gli Egizi e i
Greci, erano in grado di accedere alla corrente
universale del Logos e lí attingere le facoltà
immaginative da tradurre in oggetti figurativi, sí
da renderli intelligibili agli altri uomini. I
geroglifici, simboli ideativi, facevano parte di un
corredo sacro di segni che solo scribi e sacerdoti
potevano amministrare. Era la lingua sacra di
Osiride, civilizzatore con il dio Toth, dio delle
arti e delle scienze, degli uomini primitivi.
Moglie-sorella di Osiride era Iside, o Hathor,
divinità lunare, che dell’astro notturno, simbolo
della conoscenza ermetica, portava sulla testa, a mo’
di diadema il crescente, espresso a volte in forma
di corna bovine stilizzate. Ma poi, dice Steiner,
venne l’èra di Tifone, o Seth, malvagio fratello
di Osiride, con un còmpito ben preciso: smembrare l’unità
sacrale del Logos. «Quelle concezioni di Tifone
avevano ucciso ciò che nell’umanità viveva come
impulso di Osiride…», privando cioè l’uomo
della comunione diretta, animica, con la divinità.
« Nei Misteri, i sacerdoti spiegavano che l’epoca
antica di Osiride era tale che la primitiva
chiaroveggenza collegava gli uomini allo spirito
della natura». Di conseguenza Steiner aggiunge che
la parola si allontanò «dalla scaturigine animica
da cui la parola stessa è sorta originariamente».
È interessante notare come nel mito di Osiride può
essere individuato il percorso degenerativo della
parola, frutto delle ataviche immaginazioni, segno
del Logos primigenio, nella sua frammentazione nell’esteriore,
nel materico. Osiride viene ucciso dal fratello
Tifone. Il suo corpo, posto in un sarcofago, naviga
in balía del mare – che tra l’altro gli Egizi
ritenevano fosse stato creato dalla saliva dello
stesso Tifone – e approda in Fenicia, a Biblo. E non
casualmente. Infatti a Biblo arrivavano dall’Egitto
le navi cariche delle piante di papiro. Gli
industriosi Fenici le facevano macerare, le
pressavano, le setacciavano e ne facevano carta.
Furono per secoli i fornitori di carta, materiale di
base per i libri (biblos - bibbia) per tutti i
popoli del Mediterraneo e anche oltre. Furono essi
che portarono la parola primigenia al suo punto
espressivo piú basso, attraverso un sillabismo
stenografico in cui soltanto le consonanti
figuravano. Lingua pratica al massimo, essenziale,
utilitaristica, adatta perciò ai traffici
mercantili, alle transazioni commerciali, agli
scambi rapidi e proficui. Il loro alfabeto è
tuttavia una pietra miliare nell’estrema
profanazione degli antichi Misteri legati al Verbo
creatore, quello che aiutava gli uomini a comunicare
senza ricorrere all’ausilio di segni, caratteri e
testi. Una sorta di telepatia immaginativa creava lo
scambio di idee, sentimenti e rappresentazioni
interiori, e palesava i termini della realtà fisica
e i rapporti che gli individui intendevano
intrattenere tra loro in relazione a tale realtà.
- Morendo
Osiride, anche Iside risultò coinvolta nella
degradazione degli attributi misterici di cui, come
divinità iniziatica, essa era dotata. Rudolf
Steiner cosí lo spiega: «Nel mito paleo-egizio
Iside veniva collocata accanto a Osiride. E nella
concezione degli antichi Egizi Iside appariva non
solo come una divinità circonfusa di mistero, non
solo come entità spirituale misterica che rimaneva
in stretto rapporto con l’umanità, bensí anche,
vorrei dire, come personificazione di ogni
profondità alla quale gli antichi Egizi potevano
pervenire riguardo alle forze primigenie, che
operavano nell’ordine naturale cosí come in
quello umano. Quando l’Egizio voleva comprendere
ciò che rappresentavano i grandi misteri celati
nell’ambiente che lo circondava, doveva
necessariamente volgersi a Iside…». Osiride era
un dio solare, e il Logos era nel Sole, era perfetta
luce. Tifone, il male, il dio malvagio che gli Egizi
rappresentavano con una testa d’asino, incarnava l’aridità
del deserto, il vento che porta siccità e moríe di
animali e di uomini. Con la morte del dio solare,
cui doveva succedere nel tempo Ra, e il suo
smembramento, la Parola primeva si scindeva,
diventava lettera alfabetica, sillaba da ricomporre
secondo schemi logici mentali e imprimere sulla
carta. Osiride, resuscitato da Iside, non poteva
ormai piú restituirle gli antichi poteri di chiave
dell’occulto e dei segreti della natura. Il dio
stesso divenne sovrano del regno dell’oscurità e
delle anime morte. Quanto a Iside, la dea lunare,
maestra delle alte Iniziazioni, anche lei dovette
chiudersi agli uomini, negando loro quella
«primitiva chiaroveggenza che collegava gli uomini
allo spirito della natura». Cosí com’era
«quando Osiride camminava ancora sulla terra».
Sulle statue che la raffiguravano come Hathor all’isola
di File, e come Iside lunare a Sais, venne posta una
scritta che diceva «Io sono il tutto, io sono il
passato il presente e il futuro. Nessun mortale ha
finora sollevato il mio velo». Sulla sua testa,
dice il mito, venne posta una corona di carta,
simbolo del nuovo «profondo sapere in materia di
scienze naturali», che dalla terra dei Filistei (la
Palestina), riferisce Steiner, complici Lucifero e
Ahrimane, venne irradiato ai popoli alla ricerca di
conoscenze razionali, speculative, intellettuali,
lontane dai Misteri.
- Nascevano
la filosofia aliena dal sacro e la conoscenza
fondata sul sapere scientifico naturalistico. Sorse
allora un nuovo essere, il nuovo Tifone, l’uomo
che, usando il sapere avulso dal Logos e dalla
chiaroveggenza immaginativa, si illuse di poter
possedere la Iside antica e diventare egli stesso un
dio. Volle ricomporre la parola perduta, ne
ricollegò i pezzi sparsi nel mondo, ma tutto ciò
che gli riuscí di costruire fu un automa meccanico,
una macchina incapace di adoperare quelle energie
superiori di cui l’uomo era stato gratificato
dagli dèi, allorché Osiride camminava sulla terra
e Iside lo amava.
- Ma
poi, dice ancora Steiner, la nuova Iside si
risvegliò e riprese la consapevolezza di ciò che
essa era un tempo. Venne illuminata da una nuova
chiaroveggenza che poggiava su inediti princípi
spirituali: «Pervenne alla piú profonda
comprensione che quell’epoca poteva raggiungere di
ciò che nel Vangelo di Giovanni viene designato
come Logos; pervenne cioè al significato giovanneo
del mistero del Golgota. Grazie a tale comprensione,
poté assorbire l’energia delle corna bovine e
mutare la corona di carta in una vera corona d’oro,
simbolo di pura saggezza» e, piú oltre, «…la
forza della Parola che dovrà nuovamente essere
conquistata per mezzo della Scienza dello Spirito».
Quella parola che l’uomo ha dimenticato, ma
«quest’oblio durerà fino al momento in cui la
nuova umanità non supererà la parola astratta, il
concetto astratto, l’idea astratta». Solo allora
sull’immagine della nuova Iside apparirà la
rivelazione finale che dice: «Io sono l’Uomo, io
sono il passato, il presente e il futuro. Ogni
mortale dovrebbe sollevare il mio velo».
- E
quale sarà allora la scaturigine della lingua
parlata dagli uomini che avranno finalmente
sollevato il velo della nuova Iside? Essa verrà
dalla sede del “dio nell’Uomo”, il cuore, che
gli Egizi definivano “nether imy remet”
la dimora profonda di Dio, poiché essi ritenevano
che «la visione degli occhi, l’audizione delle
orecchie, la respirazione del naso, apportano
informazioni al cuore. È lui che fa sgorgare ogni
conoscenza, ed è la lingua che ripete quel che il
cuore ha pensato, seguendo quell’ordine che è
stato proferito dalla bocca, e che costituisce la
natura di tutte le cose»(2).
E non dicevano la stessa cosa i Fedeli d’Amore?
Queste infatti le rime del Cavalcanti: «Voi che per
li occhi mi passaste ‘l core e destaste la mente
che dormía»(3).
- La
mente dell’Uomo nuovo si risveglierà dunque e
riconquisterà l’antica conoscenza «che dovrà
essere nuovamente superata solo per mezzo di una
rinnovata consapevolezza». Dall’atavica
chiaroveggenza immaginativa al pensiero libero da
ogni legame materico e dalla pania del sensibile. La
corona d’oro che la nuova Iside-Sophia porrà
infine sul capo dell’Uomo realizzato
spiritualmente.
Leonida I.
Elliot
(1)
Rudolf Steiner, Il Nuovo Mito di Iside, O.O.
n. 180, Dornach, 6 gennaio 1918.
(2) Testo della stele n. 797 conservata
al British Museum di Londra.
(3) Guido Cavalcanti, Rime, XIII.
|
|
|
|