Socialità

L’assassinio di Monsignor Luigi Locati, avvenuto a Isolo, in Kenya, agli inizi di luglio, appena dopo la conclusione del G8 in Scozia, ha testimoniato in maniera drammatica in quali condizioni di caos versi attualmente l’Africa. Si tratta di un marasma etnico e politico, causato da una profonda crisi di rigetto: il grande pachiderma si rivolta, scrollando dal suo possente corpo tutti i parassiti che gli hanno succhiato il sangue per secoli. Ma in questa sua febbrile smania liberatoria non opera discrimini di sorta, e insieme agli agenti oppressori elimina anche quelli cha hanno tentato, in nome di una fede o in obbedienza a una precisa scelta deontologica umanitaria, di alleviare le storture procurate da una genía di conquistadores europei, ma anche islamici, aventi quale unico progetto la spietata predazione e non il fattivo e benefico scambio di valori morali e materiali. Ormai purtroppo la nèmesi è inarrestabile. Il continente nero sta pagando, e di conseguenza fa pagare al mondo – ché la Terra è ormai una globale commistione di bene e male – tutte le colpevoli disattenzioni e inadempienze di cui gli imperi coloniali, specie quelli europei, si sono resi colpevoli in secoli di dominio, spesso brutale, sulle popolazioni africane. Sfruttandone le vaste e molteplici risorse naturali e minerarie, usandone persino gli individui quale merce di scambio in regime di schiavitú, hanno creato le premesse all’inaridimento materiale e morale del continente piú ricco, cosí come voluto dagli Dèi, e piú povero, cosí come l’hanno reso i padroni della Terra e i fautori della storia.
L’etica materialistica di cui la cultura e la scienza europee in particolare erano permeate, ha improntato sia la conquista sia la gestione dei territori africani che, dal Settecento a pochi anni fa, gli europei hanno operato, alcuni piú rapaci e ottusi degli altri, ma in definitiva tutti allo stesso modo responsabili di una totale cortezza di vedute.
I danni arrecati alla civiltà nera sono figli di quella continua, integrale oscurità mentale e, ancor piú, povertà morale, che massimamente gli europei, con pochissime eccezioni, hanno dimostrato nel condurre le loro campagne di occupazione e sfruttamento dei Paesi africani. La colonizzazione, che non è mai proficuo e libero scambio, pone il colonizzato nella condizione di un oggetto passivo e inerte, quasi equiparato a un prodotto del luogo conquistato con la forza: una risorsa di cui disporre a piacimento.
Mai gli individui vittime di una colonizzazione vengono tenuti nel rispetto che si deve a entità dotate degli stessi valori animici, se pur diversi nella forma, di quelli di cui è segnato il conquistatore. A tal punto l’essere umano, coatto nella condizione di sottomesso, è creativamente inibito, che nel tempo ogni sua espressione, culturale, artistica, religiosa e scientifica viene qualificata alla stregua di un primitivo corredo folclorico e mai quale prodotto di una profonda maturazione interiore elaborata in secoli di storia e di esperienze civili e politiche.
Questo errore ha portato alla obliterazione del patrimonio culturale di intere popolazioni, cosí che col tempo la cancellazione della memoria etnica è diventata caratteristica delle etnie colonizzate, le quali, abiurando alle proprie tradizioni culturali, artistiche e misteriche, si sono ritrovate abbrutite in una condizione amorfa, spenta di ogni valore espressivo endemico e sorgivo.
L’Africa, al termine della disastrosa vicenda colonizzatrice europea, è appunto un caotico amalgama di tribú e clan senza ormai piú alcun contatto o legame con le antiche conoscenze che facevano di ciascuna etnia un popolo capace di esprimersi autonomamente. E questo disperato impasto di popoli indifferenziati si fa la guerra perché la disperazione senza vie d’uscita porta fatalmente al desiderio di morte per sé e per gli altri.
L’Africa uccide e si uccide perché gli illuminati figli di Voltaire hanno camminato sulla terra dei neri con lo schiacciasassi della loro arroganza culturale. Considerandosi gli eletti, ed essendo in piú dotati di cannoni, tutto era loro dovuto, perché dovevano donare al mondo l’esercizio delle proprie virtú e il godimento dei propri ineguagliabili talenti.
«Nel ventre dell’Africa c’è un dolore che non cessa mai. Un dolore che sta erodendo i nostri obiettivi di sviluppo e minando le nostre economie. Un dolore che sta consumando i nostri giovani e abbreviando la vita dei nostri anziani, ma che in qualche modo tutti stanno dimenticando». Queste parole sono state pronunciate da Olusegun Obasanjo, presidente della Nigeria, in occasione del G8 di Gleneagles. L’uomo politico, da vero materialista quale un politico di professione finisce con l’essere, individua nella carenza alimentare, nella fame atavica, le cause di questo dolore sordo e battente. Mentre un altro uomo politico africano, Moeletsi Mbeki, vicepresidente dell’Istituto degli Affari Internazionali del Sudafrica, ha voluto allargare l’arco visivo sulla condizione africana, ricercando le cause a monte del flagello della fame: «Alla base dei problemi africani, ci sono le élite politiche, che negli ultimi quarant’anni hanno dilapidato le ricchezze del continente e soffocato la sua produttività».
Nella sua analisi, il politico, fratello del presidente sudafricano Thabo Mbeki, risale ai maestri da cui i governanti africani, rei del malcostume, hanno imparato la lezione, consistente nell’agire tipico dei dominatori: «Le élite politiche africane hanno sistematicamente sfruttato la loro posizione allo scopo di riempire le proprie tasche. Hanno elargito favori e guadagnato in prestigio, finanziando enormi progetti di industrializzazione in perdita. Hanno sfruttato le risorse naturali dei loro Paesi e ne hanno trasferito i guadagni, le tasse e i fondi stanziati per gli aiuti nei loro personali conti bancari all’estero, creando nello stesso tempo enormi debiti per finanziare le operazioni dei loro governi». Un modus operandi, questo, diventato tipico dello Stato africano moderno «creato per la maggior parte dei Paesi da potenze imperialistiche europee, che hanno avuto poco riguardo per le differenze etniche e religiose esistenti fra gli africani». E, occorrerebbe aggiungere, senza tener conto delle precipue qualità animiche e spirituali dei popoli colonizzati, che sono state rimosse e sostituite dall’etica della sopraffazione per i forti e della sopravvivenza per i deboli. Tra le virtú rimosse, l’amore degli africani per la terra. Prima della colonizzazione, l’uso che il contadino ne faceva era libero, e anche chi non esercitava l’agricoltura poteva utilizzare i frutti forniti in cosí larga misura dalla natura rigogliosa. Poi la produzione venne gestita dai governi coloniali in forma di totale sfruttamento. Furono create multinazionali con capitale straniero e la terra fu assoggettata al disastroso sistema di monocoltura, in regime di proprietà fondiaria, cioè era lo Stato, il governo coloniale, a possedere la terra e a farla lavorare dal contadino, limitandone o addirittura vietandone l’uso agli altri che contadini non erano. Secondo Mbeki «È necessario che i contadini, che costituiscono l’anima del settore privato, diventino i veri proprietari del loro bene primario, che è la terra. …La proprietà privata della terra non genererebbe soltanto ricchezza, ma contribuirebbe a controllare la deforestazione dilagante e la desertificazione in continuo aumento. Il cosiddetto sistema di proprietà fondiaria comune, che in realtà è proprietà dello Stato, dovrebbe essere abolito. Inoltre, i contadini hanno bisogno di avere accesso diretto ai mercati mondiali. I produttori devono essere in grado di offrire i loro raccolti, invece che essere costretti a vendere i prodotti della coltura agricola agli enti controllati dallo Stato».
Moetsi Mbeki ha concluso la sua prolusione al G8 scozzese, dicendo che l’Africa non vuole soldi, ma riforme politiche e finanziarie, per cui, qualunque azzeramento del debito o la concessione di crediti a fondo perduto, vere e proprie elargizioni caritatevoli, non serviranno a sanare la condizione africana, specie nell’area sub-sahariana, la piú toccata dal sottosviluppo e dalla povertà.
L’appello di un politico, però, non può mettere in secondo piano la riabilitazione morale del continente nero, né assolvere in toto gli europei dalle colpe di cui si sono macchiati. Bene la terra in regime di proprietà privata, piú che giusta la riduzione del debito e tutte le altre provvidenze di cui si vorranno gratificare i popoli africani. Ma piú di ogni altra iniziativa economica o assistenziale, occorre ridare all’Africa la dignità umana di cui è stata depredata nei secoli, insieme alla consapevolezza, da parte di ciascuna delle sue etnie, di essere portatrice di valori che la disumana cecità predatoria dei colonizzatori ha volutamente nullificato. Solo restituendo agli africani le loro anime pareggeremo un conto in sospeso. Conto di cui stiamo già pagando gli interessi con bibliche dilaganti migrazioni e con un senso di colpa che nessuna moneta potrà mai scontare.

Leonida I. Elliot