La scuola del bello

Pedagogia

La scuola del Bello

Quando Marie von Sivers venne in Italia, alla fine dell’Ottocento, per frequentare le lezioni di Giosuè Carducci, a Bologna, ove conobbe anche Giovanni Pascoli, ebbe di certo occasione di incontrare piú volte il giovane Francesco Rocchi, discepolo prediletto del Carducci, nipote del piú celebre omonimo filosofo, professore e patriota risorgimentale. Secondo Carducci, il suo giovane e talentoso allievo, colto e raffinato poeta, avrebbe dovuto proseguire la sua imponente opera artistica e didattica. Ma l’imperscrutabile volere del karma decise altrimenti, stroncandone all’improvviso la vita, prima di aver potuto accogliere pienamente l’eredità di tanto insigne Maestro. Era già apparsa la sua prima creazione poetica, Pace d’ulivi, alla quale sarebbero seguite opere piú impegnative, già in preparazione, riguardanti l’arte pedagogica e l’oratoria. Il 1° giugno 1902, a Savignano di Romagna, località di provenienza della sua famiglia, partecipò alla premiazione di alcuni allievi che si erano distinti nel rendimento scolastico. In tale occasione pronunciò il discorso che presentiamo, riguardante l’educazione dei giovani al Bello. In un’epoca in cui si propongono a giovani, adolescenti, e persino a bambini, modelli piú che brutti mostruosi, o perversamente caricaturali, ci è sembrato interessante, perché controcorrente, proporre quanto un illuminato educatore, all’inizio del secolo scorso, riteneva essenziale per un sano sviluppo dell’anima giovanile.

 


 

 

Scuola secondariaPensate al fanciullo che sta per incominciare la scuola secondaria. Nel corpo non ancora giunto al suo pieno sviluppo già vanno maturandosi le prime forme dell’uo­mo, e con esse i desideri, gli istinti, confusi se volete e in­coscienti, ma pur vivaci, ai quali è soggetto l’essere nostro; e insieme un bisogno tiranno di muoversi, di esercitare i muscoli, di sciogliere le membra di lasciar correre il sangue libero e irrequieto per tutte le arterie. Allora, se un fiotto piú impetuoso di vita sale al giovane cervello, si apre un primo barlume di ragione, si capisce che tutto quanto esiste nel mondo deve avere un perché, si sente insomma che fors’anche è possibile di essere animali ragionevoli. Ma tutto ciò, badate, a scatti, a intervalli brevissimi, che nella vita d’un fanciullo sono come l’ora di fresco dopo un acquazzone d’estate: l’adolescente, commosso da un repentino dolore o da un súbito sconforto (sono per fortuna cosí rari e fugaci nella prima età) dimentica un istante la vivace prepotenza del corpo e si ferma a pensare. Ma di solito l’attività delle membra precede quella dell’intelligenza, sí che il fanciullo non è in questo tempo ben disposto a ricevere ed a comprendere le idee che noi vogliamo instillargli. Tutto quanto egli si assoggetta a fare, il sentimento del dovere che qualche volta dimostra, la docilità ad una fatica spesso gravosa per le sue forze tutto è dovuto soltanto all’abitudine della scuola, che fin dai primissimi anni ne ha educato la coscienza, quando ancora la mente non avrebbe capito la necessità dello studio. Nella scuola secondaria il giovinetto deve riprendere la maggior parte degli studi già fatti, ampliandoli, approfondendoli, convincendosi delle verità che apprende mercé la guida dell’insegnante che gliene mostra il ragionamento; giacché prima ed unica mèta di tali studi è l’educazione del pensiero all’abito del raziocinio. Ricordatevi, o signori, dei vostri dodici anni, e siate sinceri. Questa disciplina continua che regola e frena e sferza ogni facoltà d’intelletto a seconda del momento, eccitando quelle che non sono mature, trattenendo le altre che vorrebbero espandersi liberamente, e assai gravosa per il giovane, che ha bisogno di spazio a tentare le ali inesperte della fantasia, di luce a sfogare la vista. Diamo a lui questa innocente e pur cosí grande compiacenza, diamogli un po’ di bellezza che lo rassereni e conforti, che lo induca a riconoscere nella scuola un utile esercizio mentale piuttosto che un gravoso dovere.

Il culto della bellezza è troppo male curato presso di noi, che pure dovremmo averlo in onore piú di tutti gli altri popoli d’Europa e di fuori: è troppo trascurato, ma utile e necessario.

Poiché io credo che l’amore del bello sia con noi dalla nascita, e che nessuno, se non per un traviamento, lo possa perdere mai. Guardate la predilezione dei fanciulli ancora infanti per ciò che loro si mostra di piú appariscente, di piú lucido, di piú colorito. La bellezza della linea e del colore che tutta in un tempo si presenta alla vista e all’intelletto è la prima a toccare la nostra fantasia. Ed i selvaggi, che sono grandi fanciulli, amano le perle e gli ornamenti di colori vivaci, le piume strane, i metalli splendenti, ciò insomma che al loro gusto ingenuo può sembrare piú bello. Ricordate quale abuso facessero di ornamenti vistosi i popoli primitivi: fino gli antichissimi Umbri si trattenevano le vesti sul petto con grosse fibule d’ambra, e d’ambra si facevano collane, e cinturoni di bronzo, i quali ‒ per la forma loro e per le misure, che ci dicono parecchi avere appartenuto a fanciulle ‒ servivano certo d’ornamento e non di difesa.

Le Muse danzano con Apollo - Baldassarre Peruzzi

Le Muse danzano con Apollo – Baldassarre Peruzzi

E in noi, popoli di stirpe greca e latina piú che in altri, come potete conside­rare la religione, se non quale un senso di rispetto alla bellezza, prima ancora che come semplice interpretazione filosofica del grande mistero della natura? Non dimentichiamo che il cristianesimo nasce nel vicino Oriente, e che nelle mitologie che lo precedettero oltre a Venere, la dea della bellezza e dell’amore, anche tutte le altre dee sono belle, e gli dei, fino i piú truci e feroci, fin quelli che vivono e regnano nelle viscere incandescenti della terra, sono belli, fino lo zoppo fabbro di fulmini, Vulcano, mostra una sana finezza di tratti. Ed anche il cristianesimo ‒ pure se in antico Jahveh vietava il culto e la riproduzione di ogni immagine, soffocando per un rigido spiritualismo ogni arte nascente di disegno ‒ il cristianesimo stesso, una volta giunto fra noi, ha mutato, dando subito forma reale ai simboli piú elevatamente filosofici del concetto divino. Tanto è vero che, quando gli iconoclasti tentarono l’abolizione delle immagini, il popolo nostro non volle abbandonare alle fiamme neppure una tavola dipinta, tanto era affezionato alle madonne e ai santi delle sue chiese.

Noi ora, per la sola ragione che nel secolo ultimo, scomparso nella voragine del passato, la scienza trionfò, vorremmo bandire dalle nostre scuole le eterne forme del bello? Perché? Ben venga la scienza, anzi da lei può trarsi argomento per rinnovare l’arte nostra che pecca troppo d’imitazione, e ricordiamoci che il sapere non ha mai negato all’arte un omaggio. E, quanto alle scuole, non osservatemi che molta differenza passa fra le classiche e le tecniche, che inutile sarebbe fuorviare dalla meta loro giovani che si occuperanno un giorno di cifre e di calcoli e di commerci, cui appena sarà necessario scrivere correntemente e trattar bene gli affari. No, sarebbe un errore. Appunto perché in queste ultime scuole manca la conoscenza degli antichi scrittori che tanto bene riscuote il sentimento del bello, appunto perché le letture vi si fanno meno copiose e frequenti, sarà necessario un consiglio ed un ammaestramento di piú. E ai giovani che ne vengono fuori, i quali per il genere stesso della vita scelto da loro si troveranno piú facilmente degli altri a mutar di paese, a veder cose nuove, perché negare una istruzione che oggi li solleva dalla freddezza di altri studi e li può mettere in grado di procacciarsi dolcissime compiacenze?

Alfred Sisley  «Il viale dei pioppi a Moret»

Alfred Sisley «Il viale dei pioppi a Moret»

Un giorno, se l’ani­mo loro prima ed i sen­si furono a ciò educati, quando lontani dalla famiglia e tra gente poco nota cercheranno per riposo della fatica entro la nuova città qualcosa che fermi la loro attenzione, li vedrete spontaneamente godere dello spettacolo di una statua o di una pittura, considerare l’armonia di un bel­l’edificio, dimenticare la noia di certe ore di un ozio necessario per la lettura di cose belle. Altrimenti è pur vero che l’ozio è padre di vizio.

Della moralità dell’arte si è disputato a lungo senza giungere, come sempre nelle discussioni, ad un risultato che soddisfi i dubbi di ogni malferma coscienza. Ma è certa una cosa: che l’arte, quando è veramente tale, cioè quando è sincera, sana, e spontanea imitazione della natura, è sempre morale. Giacché ogni bellezza, per quanto arditamente paia solleticare i sensi, desta l’ammirazione e fa rimanere pensosi.

Non è piú dunque l’animalità nostra che ne gioisce, bensí la mente che va compiendo un lavorío ignoto, che s’innalza al di sopra delle umili cose in una specie di mistica contemplazione. Ed ecco che l’imagine direttamente ricevuta dal senso in forma reale si plasma nel pensiero in idea, si moltiplica con altre simili a comporre un ragionamento. Cosí, per un incognito ma inevitabile trasmutarsi, il gusto del bello giunge oltre tutte le altre discipline e speculazioni dell’animo umano; giunge ad educare il pensiero, e spesso diviene amore tanto necessario da indurre non pochi a consumarvi tutta intera la vita. La bellezza muliebre fece nascere nell’uomo quel sentimento epico-cavalleresco che gli ispirò l’amor cortese, rendendola signora del suo cuore.

Non temiamo per i giovani: se anche a tutti non riuscirà di sentire il bello nella sua essenza migliore, tutti certo gustandolo ne proveranno compiacimento e vantaggio. Educhiamone intanto la prima radice.

Pieve romanica di San Donato in Polenta

Pieve romanica di San Donato in Polenta

Passeggiavo una mattina d’estate qui per le colline della Romagna, a poca distanza dal luogo ove la chiesa romanica dei Polentani [celebrata dal Carducci con la poesia “La chiesa di Polenta”, composta nel luglio 1897 e pubblicata in Rime e Ritmi] ricorda tanta storia e tanta gran­dezza. 

Un contadino mi indicò il viottolo che conduceva ai castagneti, dicendomi:

«Vada, là è bello!». E andai, ma svogliato e pensoso non mi guardavo intorno e preferivo seguire la traccia sdrucciolevole d’erba che mi segnava la via; onde solo quando m’accorsi d’esser nel folto mi fermai, alzando gli occhi a guardarmi davanti. Vedevo tutto ciò che tante volte avevo osservato dalla somma cresta di quella catena, ma come diverso! I colli digradavano, abbracciando la grande pianura fasciata dal mare, chiusa dall’azzurra serenità del cielo. Il denso e cupo rameggio dei castagni rubava allo sguardo la collina piú arida in alto, incorniciando robustamente di verde la magnifica ubertà del paese. Anche i vignaiuoli, pensai, sentivano quanto quella veduta fosse bella!

Sempre, quando noi viviamo piú dappresso alla natura, sentiamo la grandezza smisurata delle sue forme stupende. Avete mai osservato un fanciullo che si crede solo e si svaria in un prato? Prima cammina lentamente, il piccino, come se comprendesse, meditando, l’essere infinito che lo circonda, poi corre, salta, si rotola fra l’erba, ne coglie, si ferma d’un tratto lasciandosi accarezzare dal vento, fissa gli occhi nel sole per richiuderli subito e gettarsi di nuovo in terra e nascondere la faccia nel verde umido e fresco, per poi rialzarsi mostrando in viso i segni della gioia piú vergine. Voi pure, guardandolo, sentirete quel medesimo senso di gioia che lo pervade e sorriderete; perché quella scena di bellezza vi avrà dato uno dei piú grandi piaceri: di quei grandi piaceri che elargisce madre natura, concedendoci amorosa le sue piú sante carezze.

bambino che salta su un pratoDestiamo nel fanciullo questo primo senso del bello e rendiamolo cosciente. Potrà una ragionevole educazione suscitarne altri di nuovi, fino a che la sua mente piú matura gusti la fine avvenenza di una figura dipinta o la maschia virilità dell’ingegno riflessa nella parola.

Ma c’è un pregiudizio oggi invalso per vezzo nell’opinione di molti, dopo che alcuni credettero e dissero fatale lo scadimento dell’arte. L’arte, dicono, non può fiorire senza danno di piú vitali interessi in un tempo che pare segnare il trionfo della verità nella sua forma piú nuda, che certo è tutto dato alle scienze esatte e sociali, che ha bisogno di travagliarsi nella fatica dei commerci, dell’industria e di tutte infine le questioni economiche. Inutile dunque studiare le cose belle, inutile amarle, poiché sarebbe fatica vanamente perduta. Questo, signori, è l’effetto di un lungo passato nel quale, per una giusta sete di libertà il popolo fu, innanzi ad ogni altra cosa, costretto a cercar sollievo dal giogo straniero, smarrendo e dimenticando, nell’infuriare della contesa, le eterne forme del bello. In tutto il periodo del Risorgimento italiano si faceva l’epopea e non si poteva narrare, onde l’arte di allora, un po’ incolta e piena di troppo entusiasmo, venne meno, con gli ardori che l’avevano suscitata, a quella che seguí poi, ad eccezione di qualche grande esempio, vana esercitazione retorica, e cadde in tanto discredito da non sapersi quindi rialzare nell’opinione dei piú.

Ma che c’entra con questo la tendenza pratica ed utilitaria dei tempi che corrono? Sempre la storia ci insegna che il fiore dell’arte sboccia sullo stesso ramo dove il frutto dell’industria si feconda e matura: e in questi ultimi anni già se ne vede l’impulso muovere alla pari con le tendenze ad un miglioramento economico.

Se la fantasia torna rapida ai secoli trascorsi, ricordando le glorie marmoree della Grecia e d’Italia, sempre vede l’arte piú splendida presso quei popoli, ove con la libertà crescevano i commerci e le industrie, e quella giusta agiatezza che proviene dal lavoro. Pensate alla Grecia, quando abbattuta l’insolenza persiana tornò sicura e serena alle opere di pace. Allora, mentre gli oggetti lavorati dai suoi artefici e le anfore ed i crateri dipinti erano venduti in ogni Paese civile d’Europa, sorgevano in faccia all’Egeo templi e teatri che oggi ancora meravigliano noi tardi nipoti: un esercito di statue combattenti li circondava a difesa, un concilio di numi vi sedeva dentro a tutelare la patria.

Riproduzione in grandezza naturale della statua di Atena Parthenos (Nashville, USA)

Riproduzione in grandezza naturale della
statua di Atena Parthenos (Nashville, USA)

E la grande Atena di bronzo, stando innanzi al Partenone, custodiva i tesori delle città collegate, cui stava a guardia, nell’interno del tempio, un altro simulacro della dea, coperte le membra d’avorio con l’ampia clamide d’oro. Pensate alle città italiane uscenti dalle libertà comunali, quando Venezia, Amalfi, Genova e Pisa avevano banchi e commerci in Oriente, e il nostro Paese dava ancora legge di vivere civile. Pensate a quanto di magnifico produsse il genio italico dell’Alighieri, di Raffaello, di Michelangelo, alla grande rinascita di poesia, di statuaria, di musica, di pittura. Dopo che Dante ebbe aperto il passo alla corrente superba della nuova lingua che scorse vittoriosa l’Europa, cantata nelle ballate d’amore, recata dai vènti sui navigli delle Repubbliche; dopo che Giotto ebbe infrante le catene del bizantinismo e Nicolò Pisano ridati muscoli e movimenti d’uo­mini alle figure scolpite; dopo d’allora, signori, un’agile danza di cose magnifiche allietò la penisola, tanto che gli stranieri discesi per conquistarla, l’ammirarono. 

Fu una fioritura di gigli e di palme ingenuamente simboliche in mano d’angeli che avevano forme di vergini, e le belle teste di Melozzo da Forlí inondarono di bionda luce le sagrestie delle romane basiliche. Fu il tempo in cui tutto doveva essere bello: non solo i quadri e le statue, ma le case e gli oggetti del piú comune uso domestico, i cancelli, le porte, i battenti le lampade. Bella ogni veste e, quasi come presso gli antichi, belli i gesti con cui il cittadino si presentava nei pubblici luoghi. E intanto a Firenze Lorenzo de’ Medici, nell’opulenza conquistata per i vasti commerci – stimolo al prosperar del Paese – viveva amico degli artisti piú nobili e scriveva elegantissimi versi d’amore.

Cosí i nostri padri unirono all’amore dei traffici la religione del bello, e noi che possiamo ancora trarne vantaggio, dobbiamo seguire la tradizione gloriosa. Ché se una lunga dissuetudine ci aveva

fatto dimenticare i bei costumi d’allora, se piú necessarie contese ci avevano indotto a trascurare l’elsa per guardare solo alla lama, l’età presente bisognosa di pace domanda ancora uomini forti ma cresciuti a sentimenti piú gentili, cui affida l’educazione dei cittadini futuri.

Afferma la scienza che dalla reciproca e ben curata selezione dei genitori ha origine il maggior perfezionamento dei figli: e se il culto del bello non potrà da solo giungere a tanto, o procurerà tardi ed in parte un tal beneficio, pure ci sarà di conforto averlo noi stimolato.

Ma un altro fascino di piú certa efficacia si ha nell’educazione dei giovani: poiché ne suade inconsciamente l’animo a quella gentilezza di sensi che mitiga gli istinti brutali ed alla ragione piú franca dà la forza di condurre in alto il pensiero.

Francesco Rocchi