La zona rossa

Il racconto

La zona rossa

Ormai quelli della pattuglia antisaccheggio lo conoscevano bene. Per cui quando si presentò alla transenna del presidio militare, mostrando il tesserino del permesso, gli fecero cenno di passare. Faceva freddo e i soldati si scaldavano soffiandosi le mani e battendo le suole degli scarponi sui basoli sconnessi che formavano la strada principale del paese prima del terremoto. Riassestati alla meglio e compattati con la terra battuta, tracciavano la via illuminata da lampioni di fortuna che dalla tendopoli conduceva al centro cosiddetto storico, o almeno a quello che restava del paese antico, uno dei piú devastati dal sisma. Pietre sconnesse, ammonticchiate, calcinate nel crollo rovinoso. La sua casa, poco distante dalla chiesa principale, bisognava indovinarla nell’ammasso di macerie che giacevano smembrate, pietosamente anch’esse recintate, in attesa nessuno sapeva di cosa e di come quelle macerie sarebbero state ricomposte a formare una casa.

E poi? Sarebbero mai state rimesse su, a rifare una civile abitazione? Queste erano le espressioni, piú ricorrenti nei discorsi dei politici che si erano avvicendati dalla fine di agosto a visitare le zone disastrate, promettendo, rassicurando che entro un tot di mesi, forse magari un anno, il paese sarebbe tornato tale e quale, anzi meglio, con metodi moderni, antisismici, sicuri.

Nessuno parlava piú dei morti. Solo nei primi giorni dopo la grande scossa, un predicatore aveva parlato di resurrezione alla vita eterna di quelli che erano rimasti sotto i blocchi di pietre e mattoni che il terremoto aveva buttato giú come i dadi di legno delle costruzioni dei bambini. Ne erano morti di bambini! Anche i suoi, che sua moglie aveva invano cercato di salvare, coprendoli con il proprio corpo. Li avevano trovati cosí, e il sindaco nel suo discorso aveva parlato di madre coraggio, di sacrificio, di amore oltre la morte: Emma, Donato, Anna. Quando la ragazza incaricata di leggere, alla cerimonia di commemorazione, i nomi degli scomparsi, Bartolo era quasi svenuto. Per questo era diventato un caso patetico, lo cercavano per consolarlo, per intervistarlo. «Vuoi sapere come è andata? ‒ dicevano a chi veniva da fuori ‒ va’ da Bartolo, lui sa, e poi gli fa bene sfogarsi».

Ma lui, Bartolo, il superstite, non c’era la notte della prima scossa, alle 3,36, l’ora del lupo. Era a Roma, chef in seconda, addetto ai dessert, nel grande albergo a cinque stelle sulla collina di Monte Mario. C’era un grande ricevimento sulla terrazza che guardava Roma illuminata, gente importante, diplomatici, banchieri, un’orchestra famosa e gli invitati avevano ballato fino all’ora in cui erano circolate le prime voci, sussurrate prima, poi piú concitate. Una frase in particolare lo aveva colpito, ma era solo un indizio: «Amatrice – riferiva la notizia – non è esiste piú».

Poi i dettagli, terribili, impietosi, l’elenco dei paesi annientati. Allora, come in trance, era sceso in garage e aveva imboccato la Salaria. Il blocco per frana, poi, a piedi, con passaggi fortuiti. Alle prime luci, gli si era parato davanti l’orrore biblico del caos e la terra che a tratti ancora si scuoteva, quasi volesse scrollarsi di dosso l’umanità con le sue illusioni di una civiltà da inaffondabile Titanic, finita sugli scogli della Zona Rossa, dove i miserabili sciacalli saccheggiavano nell’oscurità.

 

Anche ora, alla vigilia di Natale, Bartolo era lì, di fronte alle rovine della sua casa. Volgendosi verso la via male illuminata, vide avanzare un gruppo di uomini intabarrati, no anzi, quando gli furono piú vicini, Bartolo notò che addosso non avevano cappotti o mantelli, ma dei pesanti sai che li ricoprivano, e i sandali ai piedi, che pestavano con forza sui basoli. Frati, sì, erano frati. Appena a tiro, Bartolo trovò lo spirito per chiedere: «Chi siete, e dove andate?».

«Ad attendere Gesú che nasce!» fu la risposta del frate che sembrava comandare il drappello di una dozzina di persone.

«La chiesa non è accessibile, fratelli, non lo sapete? È interdetta per sicurezza. Rischiate molto, se ci entrate». Ma quelli sembravano non sentirlo. «Ditemi almeno da dove venite» insistette Bartolo.

Uno alla volta, con timbri diversi di voce e toni pacati ma fermi, i frati dissero i loro nomi: «Io sono Francesco», e uno dopo l’altro: «Leone, Gelasio, Bonaventura, Tommaso… Veniamo da Greccio». Poi quello che aveva tutta l’aria di capeggiare lo strano manipolo aggiunse: «Gesú nasce anche in mezzo alle rovine!».

«Ma come farete ‒ replicò Bartolo – non c’è neppure l’elettricità in chiesa».

«Portiamo noi la luce» confermò un frate del gruppo e quasi per miracolo si accese la luce di una piccola lanterna, di foggia antica, che teneva tra le mani. Gli altri, a turno, accesero le loro. In un attimo, una dozzina di quelle luci rischiararono la via e si diressero verso la chiesa. Bartolo li seguì.

Quando furono sul sagrato, il capo dei monaci si volse verso Bartolo e lo esortò: «Bartolo, perché non ritorni alla tendopoli e porti un po’ di gente? Chi scende dalle stelle per aiutare gli uomini in ambasce, ha piacere di trovare una buona accoglienza!».

«Ma ci sono vecchi, bambini, malati… e poi fa freddo» obiettò Bartolo, dubitoso dell’impresa cui lo spingeva il frate che si chiamava Francesco.

«Cosa credi, che quella fatidica notte i pastori, i contadini e i viandanti chiamati dagli angeli fossero meglio vestiti e nutriti dei tuoi compagni terremotati? Alcuni erano persino scalzi, e molti digiuni».

«Certo, lo immagino – mormorò confuso Bartolo – anche loro avranno sofferto il freddo e la fame». Esitò qualche istante, poi riprese: «Cercherò di convincere qualcuno a venire qui, anche se penso che pochi lasceranno il caldo delle tende per il gelo di una chiesa che non ha piú neppure il tetto…».

«Meglio – disse l’altro – il Bambinello scenderà piú facilmente». Fece una pausa, poi soggiunse, in tono grave: «E poi, ci sono i morti… Stanno tutti lì che aspettano, nella Zona Rossa, come la chiamate voi».

«I morti? – reagì turbato Bartolo – come sarebbe a dire? I morti sono morti, pace a loro. Li ricorderemo in altro modo».

«Ma stanotte, Bartolo, i morti sono tutti qui, tra le macerie, e aspettano…».

«Cosa aspettano, i morti?» la voce di Bartolo tremò un poco.

«Aspettano anche loro la nascita del Redentore. E poi aspettano i vivi, il loro calore, la luce avvolgente della memoria. Luce e amore, che sono la stessa cosa».

Il frate raggiunse i confratelli, che erano entrati nella chiesa sventrata e accendevano le lampade infisse ai pi­lastri che ancora reggevano. Lo scheletro del tempio disastrato si illuminò, le ombre danzavano, giganteggiavano, scivolavano via ingoiate dal buio, ma subito riemergevano, e le macerie era come se si ricompattassero».

Quando, sceso giú alla tendopoli, Bartolo raccontò dei frati di Greccio che stavano preparando la chiesa madre per la nascita di Gesú, lo presero per matto. Già, pensarono in molti, il povero superstite, insieme alla casa e ai suoi cari, aveva perduto forse anche il senno a causa del terremoto. Qualcuno però, per curiosità, o per pietà, o nella speranza che qualcosa di ciò che Bartolo aveva raccontato fosse vero, si preparò per uscire. Con una torcia accesa per illuminare la buia strada dissestata, cominciarono alcune donne ad avviarsi, seguite da qualche vecchio, poi dei gruppetti di giovani che tenevano per mano i fratellini piú piccoli. Una, due, poi tante luci in fila si dipanarono dal mare di tende e abbordarono la china verso il centro del paese.

All’interno della chiesa, dei frati neppure un segno, una traccia. Alcune lanterne, ai lati, convergevano verso il centro della navata dove, di fianco all’altare maggiore, scintillavano le luci di un meraviglioso presepe, con le classiche figure del Mistero: la Vergine, San Giuseppe e il Bambinello, con Angeli in volo sulla capanna.

Presepio

Intorno pastori, contadini, bottegai, ai lati, scenette di vita quotidiana vissuta in armonia. A una tavola sedeva una famigliola, sazia e in pienezza di cuore. E forse, sarà stata l’emozione, o la voglia che fosse vero quello cui assisteva, Bartolo si vide seduto a quella tavola, tra i personaggi di coccio. Di fronte a lui, su una panchet­ta di legno, lo sguardo alla co­meta, sua mo­glie, vestita alla ciociara, e i figli, ma sí, pro­prio loro, spiccicati. In un an­golo, a parlare ad un lupo, frate Francesco.

 

Fulvio Di Lieto