Disidentificazione e disinfestazione

Considerazioni

Disidentificazione

TRATTATO DEL PENSIERO VIVENTE - Massimo Scaligero«L’Io che l’uomo dice di essere, non può essere l’Io se non nel pensiero vivente: ancora da lui non conosciuto».

Ho aperto la pagina delle mie considerazioni con le parole di Massimo Scaligero poste all’inizio del Suo Trattato. Anzi, piú delle parole, che si lasciano comunque leggere e ripetere, voglio concentrare l’attenzione sui pensieri che Massimo ha raccolto in quel libro affinché noi potessimo ap­prendere, meditare, ed entro certi limiti, capire.

In linea generale sono contrario alle citazioni, ma dati gli argomenti del titolo (Disidentificazione e Disinfestazione) non potevo reperire nella me­moria una frase migliore per partire col piede giusto.

Quello che Massimo propone è in senso assoluto la prima disidentificazione. La piú importante di tutte. O ce ne accorgiamo e la risolviamo, oppure ogni parte della nostra vita, delle relazioni, degli affetti, ogni istanza del cuore e della mente, ogni moto di pensiero, ogni progetto o programma in cui potremmo avanzare, porterà sempre il marchio indelebile di un equivoco di fondo mai risolto.

I fatti, le azioni dei singoli e della collettività, formanti la storia dell’uomo, denunciano in modo sconcertante l’evidenza di questa aberrazione, che, a furia di restare negletta e ignorata, non siamo oggi piú capaci di vedere; forse nemmeno di supporre a livello teorico; sicuramente di cogliere in essa il senso apocalittico dell’epoca presente.

Ci fu un tempo in cui il giovane guerriero pellirosse, alle prime luci dell’alba, poteva dire al capotribú: «Padre, oggi il mio cuore vola alto come il falco! Sento che sarà un giorno buono per combattere e morire!». È la logica di un’anima in cui la forza sta tutta nella consapevolezza delle origini e quindi del suo compito terreno esistenziale.

Siamo lontani da quei tempi, siamo invece molto vicini al periodo in cui la gente, sbigottita e im­panicata, si chiede come mai “certe cose” capitano. Dal ginepraio umano proviene un’unica risposta, significativa quanto inutile: certe cose capitano perché viviamo in un mondo in cui quando certe cose capitano, un sacco di gente comincia a chiedersi perché mai capitano. Ed è per questo che capitano!

È la logica delle anime in pena; persa la patria, persa la direzione, smarrita ogni possibilità di col­legamento con la sopra-natura, da cui siamo provenuti, non restano che afflizioni, contumelie e lamenti.

BixioEppure il collegamento c’è, non facile da individuare. Bisognerebbe intuirlo, ma anche questo richiede uno sforzo di tenacia e di perseveranza che, ove disponibile, risolverebbe il problema in partenza.

In realtà, disidentificarsi da quell’io (ego) in cui ci riconosciamo, nel quale ci siamo immersi, iniziare la risalita verso l’Io superiore, l’identificazione con il quale, a livello dello Spirito, è la ragione stes­sa del nostro esserci incarnati, costituisce l’unica grande avventura dell’umano esistere.

Ostinarsi a dargli un significato diverso, anche altamente idea­listico, non è soltanto un depistaggio sabotativo, ma sopra ogni altra cosa, è una forma di autolesionismo perverso al quale fra poco non sarà piú possibile porre riparo.

Abbiamo imparato dai libri di storia il celebre detto garibaldino: «Bixio! Qui si fa l’Italia o si muore!». Dovremmo applicare la stessa energia per avvertire il nostro amico interiore: «Caro Ego, o andiamo verso l’Io Sono, oppure la nostra storia finisce qui!».

In questa gigantesca avventura dell’uomo, dipanantesi nello spazio e nel tempo, ogni attimo della no­stra vita diventa sostanzialmente una battaglia contro l’incagliamento, contro l’incancrenimento dell’ego su posizioni di stasi e di morte inavvedute, inavvertite, scambiate quasi sempre per normali affanni quo­tidiani, ai quali viene demandato il compito d’impedirci la visione globale, obiettiva e spassionata, della situazione in cui versiamo. Compito svolto in modo pressoché perfetto dalle Forze preposte allo scopo.

Nel periodo che stiamo vivendo, parlare di disinfestazione è quanto mai argomento d’interesse gene­rale. Avvertiamo tutti che nonostante i punti d’arrivo in fatto di civiltà e progresso, non abbiamo saputo creare protezioni e difese adeguati contro determinati avversari, e quando dico “determinati” intendo av­valermi del significato piú ampio della parola: per esempio, i microrganismi patogeni d’improvviso, sve­gliatisi dal loro letargo con in testa il ticchio di conquistarsi il pianeta, si sono messi in moto ed hanno iniziato una vera e propria invasione.

Chissà da quanto tempo se ne stavano lí sotto, nel torbido micro-mondo elementare, a covare strategie d’assalto, a complottare oscuri intrighi, mentre noi, superficiosi (sta per superficiali + fiduciosi), cele­bravamo i nostri riti quotidiani intrecciando carole e gavotte secondo gli arrangiamenti melodici del «Sole 24 Ore» e della «Gazzetta dello Sport».

Adesso però è tutto chiaro. I virus vogliono conquistare il mondo. E tale pretesa non ci piace neanche un poco. Tuttavia, come ripetutamente sostenuto dai rappresentanti del potere politico quando vengono intervistati, i popoli delle varie nazioni non sono stupidi; sanno che il mondo appartiene all’uomo, cioè a loro: ci hanno sempre insegnato cosí, cosí abbiamo imparato. Abbiamo quindi il diritto di difendere ad ogni costo le nostre vite e i nostri territori da qualsiasi forma d’invasione: eterogena o aliena che sia.

Ed ecco che, grazie all’arrivo delle pandemie sovversive e perniciose, i “popoli-che-non-sono-stupidi” cominciano a porsi ora una nuova domanda: non ci avranno mica imbrogliato anche su questo?

Non basta vincere le battaglie; quel che importa è vincere la guerra. Cosí racconta un vecchio adagio la cui logica lapalissiana rimane tutt’oggi incontestata. Le battaglie sono vari pezzi di guerra sparsi nel tempo e per zone geografiche; se ci asteniamo da considerazioni moralistiche, hanno sempre una ben pre­cisa ragione d’essere; meschina quanto si vuole, ma una ragione c’è. Questo basta alla logica “orizzon­tale” per scrivere qualche pagina di storia in piú. La funzione delle battaglie è proprio quella di dar corpo ad un evento il quale, valutato nella sua totalità, in seguito, verrà studiato come una guerra, con tanto di sintomi e decorsi.

Luca Giordano «Michele contro i demoni»

Luca Giordano
«Michele contro i demoni»

La progressione del ragionamento fatto or ora – lo chiamo ragio­namento orizzontale perché segue pedestremente la concatena­zione meccanica delle cause e degli effetti – è dunque la seguente: “battaglie-guerra-vittoria”. La parola vittoria rimane però nascosta nell’oblio. Non serve. Perché chiunque abbia un po’ di sale in zucca, sa già che, indipendentemente da come siano andate le battaglie, chi si accaparra la finale della guerra si prende pure la vittoria.

Accanto a questo modo di pensare che, ripeto, ha una sua ratio inscalfibile se si resta coi piedi (ma anche con la mente e con l’ani­ma) attaccati al suolo, ce ne sta un’altra che ci offre un insegna­mento diverso. Richiede una progressione di pensieri in linea verti­cale, e questo può creare inizialmente qualche difficoltà. Chi è abi­tuato a discutere con le formiche, prova imbarazzo nell’accorgersi del volo degli uccelli. Come minimo gli si irrita la cervicale.

Nell’Antroposofia esiste un mantra, un’invocazione all’Entità dell’Arcangelo Michele che recita cosí: «Fai della mia anima il tuo campo di battaglie, o Michele; fai della mia anima il tuo campo di vittoria, o Michele». 

La domanda è: perché qui non si parla di guerra? Si passa dalle battaglie alla vittoria. La nostra logica, che vorrebbe restare orizzontale, deve imparare a fare qualche capriola. Molte possono essere le risposte: proverbi, detti, aforismi e mantra saltano fuori cosí, invenzioni miste di genialità, fantasia e intuito. Non necessita che una si correli in qualche modo all’altra per integrarla, o correggerla. Nel primo caso, stava bene il binomio “battaglie-guerra”, nel secondo sta altrettanto bene quello di “battaglie-vittoria”.

Tanto, dicono gli esperti di passatempistica, la finalità è analoga.

Rimane tuttavia la questione: dire “guerra” non è dire “vittoria”; c’è un finalismo concomitante che lega i due concetti, ma non li assimila. La Vittoria prevede la guerra e le battaglie; prevede che ci sia qualcuno che ne resti vivo. La guerra, da sola, prevede solo la distruzione e la morte. Non necessitano eventuali superstiti.

Adesso forse possiamo accostare maggiormente il binomio in epigrafe e vedere quali spunti ci possa offrire. Sempre che tali spunti abbiano qualcosa a che fare con le situazioni reali che viviamo; altrimenti restano campati per aria; semmai andranno a far parte delle belle teorie che l’umana fantasia ha saputo ricamare fin qui con notevole dispendio di tempo ed energie.

Distacco

Distacco

Attraverso il prefisso “dis-” la nostra lingua esprime, o rife­risce quasi sempre, una negatività: disperare, disturbare, distrug­gere, dissentire, dissimulare, distorcere, disonorare, distrarre, di­sagiare, ecc. È vero che ci sono anche altri impieghi del “dis-“ che hanno invece un valore propositivo, come discutere, discor­rere, distendere, discolpare, districare, ma se con l’aiuto di un dizionario andiamo a stilare una classifica, vedremo che il primo raggruppamento “dis-tacca” il secondo di gran lunga. Si deve quindi concludere che il prefisso “dis-” introduce, oppure pone fine a qualcosa che, in linea di massima, non è piacevole.

Ad esempio, col verbo disidentificare si compie l’azione in­versa dell’identificazione. Io credevo che quella cosa fosse cosí e cosí, la identificavo in quel suo aspetto, per quella sua funzione, e invece le cose stavano in modo completamente diverso. Pren­derne atto può essere a volte seccante e perfino doloroso. Infatti chiede di compiere una rettifica del proprio pensato, cosa che può svolgersi pacificamente se siamo noi stessi la causa dell’errata corrige; un po’ meno, qualora i motivi vengano dall’esterno.

Per quasi quarant’anni sono stato fumatore; non eccessivo, però sigarette, sigari e anche la pipa non me li sono fatti mancare. Oggi, pur avendo smesso da diciassette anni, mi ritrovo alcune placchette di colesterolo nei tronchi d’aorta superiori; non mi posso lamentare, è andata piuttosto bene. Capisco per­fettamente che stando alle premesse, il risultato è adeguato alla mia poca lungimiranza. Quando per contro si cambia il peso e la direzione del discorso, lasciando il corporeo alle sue vicende, e s’incomincia a parlare di spazio interiore, di anima, di coscienza, il tema si fa estremamente serio, perché qui il danno emergente potrebbe anche rivelarsi irreparabile. Non ce la caveremo con qualche arteria otturata.

La connessione tra una causa e i suoi effetti, che possono verificarsi anche a notevole distanza di tempo, è semplice da determinare quando il tutto è racchiuso in un singolo spazio individuale Basta ri­cordare bene come sono andate le cose, essere onesti con se stessi nella ricostruzione dei fatti e poi sommare uno piú uno. Quando invece questa connessione è intervallata da periodi molto lunghi; quando non siamo piú in grado di ripescarli dagli archivi della memoria; quando, a volte, non siamo nemmeno consapevoli della loro esistenza, allora, non intravedendo una ragione sufficientemente valida a creare un cambiamento interiore, dobbiamo attendere, per forza di cose, un coinvolgimento esterno; e non di rado esso si presenta con i caratteri di uno sconvolgimento. Può sembrare spiacevole, ma per quante alternative si possano almanaccare, non ci sono altri modi per avviare una disidentificazione.

Con grande sorpresa di tutti, il Maestro dell’ashram fu costretto ad allontanare Ananda dal gruppo, proprio perché il discepolo Ananda (il migliore) era stato colpito da una malattia letale, altamente con­tagiosa: era fermamente convinto di essere Ananda.

È un fatto di maturazione dello sviluppo interiore: arriva il momento in cui viene richiesta la disiden­tificazione. Se è dolorosa, se fa male, ciò è dovuto soltanto al fatto che il processo evolutivo del mondo vuole portarci avanti, mentre noi (ovvero, i nostri egoismi) vorremmo poter restare fermi al palo.

Se la disidentificazione è quindi sofferenza inaspettata, la disinfestazione invece è un termine diversa­mente preoccupante; quando si è costretti a disinfestare, allora vuol dire che presenze cattive, ostili, forse pericolose, hanno invaso uno spazio, un ambito solitamente non riservato a loro, e da lí tendono a dila­gare. Fintanto che lo spazio è quello urbano dei cassonetti d’immondizia o discariche di pubblici rifiuti, il problema è grave, ma i rimedi ci sono; ovviamente richiedono mezzi, lavoro e tempestività. Se aggiun­gessimo anche volontà, competenza e alacrità, avremmo fatto l’en plein. Ma, valutata la situazione socio-politico ambientale, è meglio non esagerare.

purificazioneC’è però disinfestazione e disinfestazione: applicata a quanto abbiamo di piú intimo, la chiameremo con un termine diverso: “purificazione” sarebbe la voce piú adatta.

Le riflessioni che si sono succedute fin qui ci portano dritti ad una conclusione che già prima aleggiava ma non riusciva ancora a concretizzarsi in un convincimento preciso: disiden­tificazione e disinfestazione, applicabili ad una entità umana che voglia crescere, sono attuabili solo in senso concomitante: la prima è un moto di pensiero, la seconda è uno slancio del­l’anima che sorge a sostegno di quel moto.

Ovviamente mi limito a osservare quanto accade, o è acca­duto, nella mia personale esperienza; ma devo e voglio dire che l’invocazione alle Forze Micheliane è stata per me determinante; non avrei potuto accedere all’incipit del Trattato di Massimo Scaligero senza la carica positiva racchiusa in quella.

All’uomo d’oggi, e a me pure che sono piú di ieri che di oggi, capita cosí: non riesco ad aprirmi alla luce conoscitiva di un concetto, se non svolgo prima un’intensa opera di pulizia nell’anima. Solo dopo averla fatta, posso tentare di staccarmi dalla morsa egopatica divenuta condizione esistenziale.

Per cui il livello dell’Io Sono, o Io superiore, o del Pensiero Vivente, si rende sempre accessibile a quanti abbiano saputo sviluppare in sé il grado di catarsi sufficiente per individuarlo non soltanto come traguardo raggiungibile, ma proprio come mèta da conquistare: mèta esclusiva e individuale. Senza di essa, i vissuti trascorsi, qualsiasi siano stati, giacerebbero nel buio dell’insignificanza.

Tra il pensare di agire e l’agire c’è un punto quasi invisibile ma di grandissima importanza: il punto, o momento, della decisione. Sono convinto che invocare l’Arcangelo Michele secondo il mantra citato, rappresenti l’acme di quel momento.

La nostra mente avanza sempre dei dubbi; è una sua funzione preziosa, da non trascurare mai. Ma i dubbi possono venir fugati con delle semplici constatazioni. Invocare un’Entità spirituale per compren­dere a fondo un principio filosofico che in apparenza si presenta con un carattere dogmatico, come appunto il pensiero di Massimo Scaligero che dà inizio al Trattato, può sembrare fuori da ogni limite di ragionevolezza. Tuttavia sappiamo che nei momenti piú intensi di dolore fisico, l’adulto sofferente non esita a invocare la mamma oramai scomparsa da tempo, e nessuno si stupisce se di fronte ad un impegno severo, riguardante una competizione sportiva, l’atleta si prepara isolandosi in ritiro qualche giorno prima.

Questo significa che pure quella logica orizzontale che vorrebbe governare il mondo, conosce bene il valore e la virtú della preparazione interiore. Fare un passo nel vuoto richiede coraggio e nonostante l’opi­nione dei vari don Abbondi, il coraggio “uno se lo può dare”: basta volerlo e studiare il modo.

Molti anni or sono, quando udii per la prima volta il mantra di Michele, lo appresi con la parola “battaglia” al posto di “battaglie”. Poi, recitando e meditando, mi persuasi che il plurale, battaglie, espri­meva in modo piú compiuto il senso della frase. Per me, piú di un’invocazione è un’evocazione. Ma non è su questo che voglio soffermarmi. La logica della meticolosità richiederebbe che se nell’inciso si po­nesse “battaglie”, allora si dovrebbe immettere in chiusura, la parola “vittorie”, anch’essa volta al plurale, per risaltare la simmetria dei due concetti. La dimensione del pensiero capace di rivolgersi correttamente all’Arcangelo Michele pronunciandone il mantra, sa tuttavia che la logica del mondo, grammaticale, lessicale o psicologica che si voglia, è una logica orizzontale che col Mondo dello Spirito non c’entra per niente. O meglio, c’entra (non potrebbe non entrarci) ma lo fa come la luna quando di notte si specchia nelle acque di un mare agitato.

«Vittoria alata» Faro di Trieste

«Vittoria alata» Faro di Trieste

Lo stesso pensare ci viene incontro e fornisce una spiegazione umanamente plausibile: le battaglie ci sono sempre, ma la vittoria è una sola. Per ogni occasione di lotta, di contrasto, di disperazione, per ogni velleità di distruzione o di autodistruzione (che non sono poi tanto diverse tra loro), ci può essere una sola unica Vittoria: ogni volta è una Vittoria nuova che rinnova noi stessi dal profondo, che ci fa restare in piedi nonostante tutto, perché di fronte a quella nostra Vittoria, il mondo non può piú permettersi di crollare. Ove stesse veramente per farlo, ora deve risorgere con noi, per noi, e grazie anche a noi.

Un’altra obiezione fondamentale, molto frequente, vorrebbe convincerci che, se da una parte emettere una invocazione sincera e profonda è cosa certamente im­pegnativa ma non troppo difficile, dall’altra il pensare di poter accedere al livello del Pensiero Vivente mette un po’ di soggezione, almeno quanto basta a creare una corrente di tensione che si pone di traverso alla spinta decisionale, tentando di infiacchirla e quindi di annientarla. È una bella prova, mette in discussione il concetto stesso di libertà. Io sono libero di invocare, evocare ed elevare il pensiero fin là dove ho deciso di farlo; in questo non mi interessa se i vari passaggi interiori che svolgo con il pensiero, con i sentimenti e con la volontà portino nomi propri o riferimenti nozionali. So soltanto che voglio fare cosí, e quindi agisco cosí. Devo in quanto voglio. Sono sempre io a dirigere l’azione.

Rivolgo una preghiera a san Francesco, ma la preghiera va bene, se dopo averla fatta nel cuore e nella mente mi rimane san Francesco con accanto la consapevolezza di essere stato io a volerlo pregare. Se ho solo san Francesco, o se ho solo me stesso come orante, non ho compiuto un bel niente.

Ora, quando nel bel mezzo del cimento saltano fuori degli impedimenti psicologici, o anche psico­fisici, è chiaro che è sempre il sottoscritto a crearseli. Perché mai? Da dove vengono? C’è qualche altro volere in me, oltre a quello di cui sono consapevole, che mi costringe in qualche modo a ripensare, a rivedere ciò che ho intrapreso? Da dove mi sorge questa sovversività clandestina?

È il caso di ricordare quanto abbiamo appreso dalla Scienza dello Spirito sulle origini dell’uomo e sul significato del suo esistere sul piano fisico. Le quattro domande sopra formulate –ma potrebbero esser­cene a centinaia, tutte equivalenti – non trovano soluzione fintanto che non consideriamo la posizione assunta dalla nostra anima quando, per la prima volta, si è trovata davanti a queste affermazioni:

 

  • siamo cittadini di due mondi: quello in cui lo Spirito vive la sua eternità e quello in cui lo Spirito ha voluto autosospendersi;
  • tale sospensione è motivata dal fatto che il Divino ha deciso di dar spazio allo Spirito umano con­cedendogli la possibilità e la responsabilità di continuare, da dentro il fisico-sensibile, la creazione universale in corso;
  • per cui il senso della vita, e delle ripetute vite dell’anima, consiste nel fatto che ogni individuo si attivi nella sua libertà (e nella sua corrispondente moralità, perché senza moralità nessuna vera libertà potrebbe mai sussistere) svolgendola nell’unica direzione che gli è concepibile, in quanto connaturata a lui e modulata sulla sua capacità di evolversi: ovvero, far luce nella tenebra della materia.

 

Come abbiamo reagito di fronte a queste elementari conoscenze spirituali che l’Antroposofia ci ha tramandato in modo forte e chiaro? Esse sono ricorrenti; costituiscono l’ossatura dell’opera di Rudolf Steiner e di Massimo Scaligero. Ricorrono pure in noi? Sono l’ossatura dei nostri pensieri e delle nostre concezioni?

Forse ce ne siamo riempiti a sazietà; magari, leggendo e rileggendo, ci siamo detti: “Che belle parole!”. Ce ne siamo beati, convinti di aver capito, e con ciò, di aver appreso insegnamenti cosí elevati, che soltanto a ripensarli ci si sente subito meglio. Momentaneamente meglio.

Tuttavia, riuscire ad accorgersi di aver sbagliato, accorgersi di portare in noi due centri contrapposti e sovrapposti di volere, analizzare ogni volta lo svolgimento delle azioni, comprendere quando stiano sotto l’influsso del Polo A e quando sotto l’influsso del Polo B; quando nel corso di una azione decisa in un dato modo, la si tradisce cambiando registro e continuandola nel modo inverso; tutto questo non può essere altro che il risultato – piú che evidente – di possedere un libero osservatorio interiore dal quale scrutare ogni movimento, ogni fluttuazione, ogni variante che provenga da noi, e saperla ogni volta ricondurre alla sua specifica causa.

erroreCome in molti marchingegni si accendono i sensori a segnalare un funzionamento non consono all’idea per cui furono inventati, allo stesso modo attraverso altri sensori, veniamo a conoscere se il percorso di vita che abbiamo intrapreso è in corretta connessione con lo sviluppo che ci siamo proposti di attuare, quando abbiamo voluto incarnarci; quando le Forze reggitrici dell’universo, acco­gliendo la nostra richiesta, ce ne dettero la facoltà.

Di tutto questo pare se ne sia perduta la traccia; non parlo degli amici volutamente e dichiaratamente laici, atei o materialisti; parlo degli stessi seguaci della Scienza dello Spirito che non perdono occasione di riunirsi per ascoltare le conferenze del Dottore, o di qualche altro spiritualista emerito, per scam­biarsi affetti e sospiri, e combinare una qualche festicciola che unisca al dilet­to dell’anima quello del corpo. Anche questo fa parte di una certa liturgia, difficile da sfatare, perché è radicata la convinzione che sia parte delle cose buone e oneste.

Lebbrosario di Mehendipara

Lebbrosario di Mehendipara

Non dico di no, ma le anime gene­rose e soccorrevoli che entrano in un lebbrosario, portando come unico ri­medio pomate e sedativi, mi creano sempre una certa apprensione.

Succede fin troppo spesso: a parole diciamo di sapere quello che facciamo ma con il comportamento e con l’azione riveliamo quello che non intendiamo dire.

Nemmeno questo tuttavia è il problema: non siamo ancora pronti per la disidentificazione? Non sappiamo come mettere in atto la vera disinfestazione? Pazienza. Ci sarà una crescita, magari improv­visa, da percorrere a tamburo battente, e dopo, ciò che prima era inconcepibile diventerà parte del normale quadro della situazione.

Anch’io come tutti, stando sul tavoliere, aspetto il picco; solo che non mi riferisco al contagio in atto oggi; mi riferisco al contagio che è in corso da secoli e il cui andamento viene rappresentato con una linea, purtroppo, ancora molto serpentina.

Ho imparato ad osservare con attenzione le mille sfumature del reale, ho imparato che dietro quelle piú terribili e mastodontiche, si nascondono altre infinitamente piú subdole e pericolose, ed altre che invece stanno lavorando indefessamente a mio favore, senza che la visione ordinaria del mondo me ne fornisca la benché minima traccia. Il madornale, il catastrofico, il “si salvi chi può” pretende di avere sempre la prevalenza su tutto. Fin qui gliel’abbiamo accordata.

Fioritura

 

Nel mese di maggio, sugli alberi, nei prati, nelle aiuole, è tutto in fiore. Forse i poteri della Natura e la forza della Stagione sono piú potenti e invincibili di un esercito di nanerottoli pestiferi?

I Moai, monoliti dell’isola di Pasqua

I Moai, monoliti dell’isola di Pasqua

 

 

Credo che oggi il compito giusto per l’essere umano sia quello di saper guardare in faccia il divenire, in modo totalmente atarassico, con la serenità granitica scolpita nei monoliti di Rapa-Nui; sapendo che chiedersi i perché dei singoli fatti è una residua ingenuità dell’ego il quale, se non può fare il dominatore, si finge bambinetto sparuto, bisognoso di carezze e conforto. Qualunque masche­ramento, pur di non concepire l’impresa che è venuto a compiere e che vorrebbe poter obliare.

A questa opinione, mi dicono: «Tu sei freddo, insensibile e calcolatore!». Tut­t’altro: sono caldo quanto basta, subisco frequenti coinvolgimenti emotivi, e mi imbroglio spesso quando eseguo calcoli numerici con piú di due cifre.

Però voglio andare verso l’Io Sono; verso il Pensiero Vivente. Strada facendo mi sbarazzo di molte cose che credevo necessarie. Invece alcune erano soltanto inutili e ingombranti.

Mediante “Disidentificazione e Disinfestazione” sono tornate lievi e corroboranti.

Ad esempio, una: per quanto possa sembrare strano e provocatorio, l’emergenza sanitaria in corso, offre ai salutisti un’incredibile opportunità per attuare l’impresa.

Sempre che l’io riesca ad intendere l’impresa dell’Io.

 

Angelo Lombroni