Il calore del cuore

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Il calore del cuore

Il caffè sospeso

Il caffè sospeso

C’è a Napoli una consuetudine, che oggi pare si sia sparsa un po’ ovunque in Italia e anche oltre, chiamata “caffè sospeso”, in napoletano “‘o cafè suspiso”. Un cliente che va al bar a prendersi un caffè, ne paga due, uno per sé e l’altro per un avventore che non può pagarselo da solo. Me ne parlò un giorno un caro amico napoletano, proprio mentre bevevamo insieme un caffè. Aveva messo nella tazzina due abbondanti cucchiaini di zucchero, e forse colse nel mio sguardo un interrogativo: non era troppo? La risposta fu semplice, oltre che maliziosa: «Dolce il caffè, amare le donne!». Non colsi subito il doppio senso, ma poi il mio sorriso gli fece capire che c’ero arrivata… Dunque, questo amico, pur essendo una persona di grande cultura, quindi non uno sprovveduto, beveva a mio avviso troppi caffè, almeno secondo il modo di considerare sano e giusto il quantitativo di caffeina da ingerire in un giorno. Lui però aveva un sistema: quando pagava il suo caffè, ne lasciava sempre uno sospeso. Questo, diceva, gli dava un senso di gioia, perché pensava alla soddisfazione che poteva procurare a chi l’avrebbe bevuto. Sentiva quella gioia come un calore del cuore, e se anche il caffè si dice che faccia male al cuore, era sicuro che quel calore compensasse e riparasse all’eventuale danno.

 

Una logica stringente, anche se non proprio accettabile dal punto di vista medico. Però è vero che la donazione, dalla piccola elemosina a quella fatta a un’organizzazione umanitaria, e ancor piú per risolvere qualche caso drammatico per cui si attiva una raccolta fondi, fa bene al cuore. Cosí come giova al nostro organo cordiale il dono di una giusta parola di consolazione, detta in occasione di una dolorosa vicenda. Il cuore partecipa, si scalda, si espande.

 

Sappiamo che riunirsi per meditare rende l’esercizio fatto in comune molto piú efficace. Non è l’unio­ne delle menti che compiono insieme l’esercizio a giovare: è l’unione dei cuori. E cosí una riunione fatta per affrontare temi spirituali o leggere testi che aiutano la formazione interiore, riscalda i cuori e ne deriva un affetto profondo, che supera quello di una comune amicizia: c’è la comunione d’intenti che rende, piú che amici, veri fratelli.

 

Viviamo un’epoca nella quale deve affermarsi l’Io individuale, un Io che è segno, sulla Terra, dello Spirito incarnato. Questo dovrebbe avvenire con una maggiore presa di coscienza non solo di sé ma anche dell’altro, secondo il dettame del Cristo: «Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te». Il piú delle volte è però l’ego ad affermarsi, e la presa di coscienza di sé avviene non in comunione con gli altri ma contro di essi. Possiamo vederlo negli Stati, avversari uno dell’altro, ognuno pretendendo per sé e difendendo i privilegi acquisiti; cosí pure nella contrapposizione all’interno della società, con il benessere dei pochi ai danni dei tanti in difficoltà; e inoltre, purtroppo anche nella stessa famiglia, con rapporti sempre piú difficili fra genitori e figli, e dei genitori fra loro.

 

Ognuno pretende per sé ed è poco disposto a donare all’altro quel “caffè sospeso” che fa scaldare il cuore. Il detto evangelico dovrebbe essere integrato in maniera altruistica: «Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te». Concedi anche agli altri ciò che consideri giusto ti sia riconosciuto per il tuo valore di individuo, portatore di un Io, sede dello Spirito.

 

L’Io spirituale dell’uomo, la sua essenza immortale che sempre torna sulla Terra per sperimentare e per evolversi, si rafforza man mano che l’io ordinario umano supera la proprio natura egoistica, affrontando il quotidiano in maniera altruistica, sviluppando senso di responsabilità, devozione, creatività e fantasia morale.

 

L’egoismo inizia ad affacciarsi in genere con l’adolescenza. Terminato il rapporto di dipendenza dai genitori, ci si vuole affrancare, affermando la propria individualità ancora in formazione ma già esigente spazi interiori e di movimento esteriore. Non ho fatto eccezione a suo tempo, e questo inaridimento coinvolgeva non solo l’affettività familiare ma soprattutto la religione, dalla quale avevo operato un distacco totale e ipercritico. Non trovavo le risposte che andavo facendo e delle quali nell’infanzia mi ero accontentata, accettandole e vivendo addirittura momenti di grande fede, di appassionato misticismo, infantile ma molto sentito.

 

Ero diventata un’agnostica e rifuggivo ogni manifestazione esteriore religiosa, come le cerimonie, alle quali alle volte dovevo partecipare, in occasione di comunioni o matrimoni di amici o parenti, che oltre ad annoiarmi finivano con l’indispettirmi.

 

Cercavo di trovare un succedaneo a qualcosa che evidentemente, pur senza accorgermene, mi mancava. Come è accaduto per molti, mi ero rivolta ai testi orientali e ai vari maestri e guru che passavano per Roma come meteore, raccogliendo soprattutto fondi e distribuendo una saggezza sclerotizzata, liofilizzata, arida, che non riusciva a sciogliere quel blocco che aveva fatto della mia anima un monolito.

 

L’arte occupava ogni mio pensiero, a parte lo studio e subito dopo il lavoro. Attraverso la pittura pensavo di esprimere qualcosa che urgeva dentro di me, e che tentavo di comprendere io per prima. In uno dei periodi che passai a Parigi, ospite di una cara amica italiana, Franca, pittrice di grande talento, dipingevo con lei argomentando sull’arte. Aveva sistemato un cavalletto per me vicino al suo, e cercava di spingermi a cambiare il mio modo di dipingere, sempre poco materico e molto sfumato, verso una corposità che riteneva essenziale per l’epoca.

 

Valle della Loira, il castello di Chenonceau

Valle della Loira, il castello di Chenonceau

Un giorno mi propose di fare il giro dei castelli della Loira. Il marito ci mise a disposizione una piccola due cavalli della Citroen, che nonostante la limitata cilindrata reggeva benissimo il continuo saliscendi delle strade in Francia degli anni Cinquanta e inizio Sessanta. Fu un viaggio di grande interesse dal punto di vista culturale, anche se il mio animo proprio in quel periodo sembrava indurirsi ogni giorno di piú.

 

Franca mi chiese se me la sentivo di guidare per un percorso piú lungo. Voleva andare a Lourdes. Considerava una notevole esperienza per entrambe esaminare da vicino il fervore delle persone che lei giudicava inebetite dall’“oppio dei popoli”, credulone e addormentate mentalmente, sicure di ricorrere a un aiuto sognato e fantasticato, là dove la scienza aveva detto chiaramente che ormai non c’era piú nulla da fare. Accettai la proposta, e con quel fine, che aveva del blasfemo, guidai per tutti quei chilometri, dalla valle della Loira fino ai piedi dei Pirenei, a Lourdes.

 

Il Santuario di Lourdes

Il Santuario di Lourdes

Arrivammo di notte e trovammo con difficoltà una sistemazione. Il paese rigurgitava di visitatori, di fedeli e soprattutto di malati. Una pensione un po’ fuori mano ci rimediò una minuscola camera con un letto singolo e un piccolo divano da due posti, dove tentai di arrangiarmi, e solo per la grande stanchezza riuscii tutta accucciata ad addormentarmi.

 

La mattina dopo però eravamo entrambe piene di voglia di sperimentare quello che ci eravamo riproposto: non proprio un dileggio delle persone, ma un’osservazione distaccata, quasi scientifica, di un fenomeno di stupidità di massa. Di questo discutevamo avvicinandoci al cancello del santuario. Tutt’intorno, fra bancarelle cariche di rosari, statuine, crocefissi e simboli religiosi vari, si accal­cavano le persone comprando, contrattando, spin­gendo le carrozzelle dei malati, in una confusione che poco aveva di mistico.

 

Varcammo il cancello. In fondo al grande viale si ergeva maestoso il santuario. Franca commentava con tono di commiserazione quello che aveva appena visto, usando termini decisamente irriverenti. La sentivo parlare, mentre camminavo, con una voce sempre piú lontana, finché non udii piú nulla. Intorno a me c’era una grande luce fortissima, ma che non dava alcun fastidio agli occhi, in un silenzio profondo, totale. Davanti, alta e candida, c’era una figura di donna, di una bellezza indescrivibile, dolcissima, sorridente, che mi guardava con infinito amore. Sentivo il suo amore in ogni parte del mio essere, interiore e fisico, in ogni cellula. Il blocco dell’anima si sciolse di colpo. Tutto mi sembrava meraviglioso, la vita degna di essere vissuta, amando tutto e tutti.

 

Poi, lentamente, quel candore svaní, e tornai a sentire la voce della mia amica, che continuava a irridere, a criticare. Ma parlava a una persona diversa, che non poteva piú condividere il suo disprezzo, la sua dissacrazione. Se ne accorse poco dopo. Mi guardò con sorpresa, senza capire quello che mi era accaduto, ma cercando di indagare se fosse intervenuto un problema fisico, un malore. La tranquillizzai, ma non potei condividere con lei quello che era appena successo. Le avrei procurato una forte delusione: mi considerava una sorta di discepola, non tanto di pittura, quanto di filosofia di vita, ben sintonizzata sulla sua lunghezza d’onda.

 

Il viaggio di ritorno fu molto silenzioso da parte mia. Fortunatamente lei aveva argomenti continui di cui trattare a ruota libera, ed era contenta che l’ascoltassi con apparente attenzione. In realtà sentivo ben poco, Una grande trasformazione era avvenuta dentro di me e tentavo di portare l’accaduto a piena coscienza. Al ritorno a Parigi avevo un quadro sul cavalletto appena iniziato. Lo tolsi per mettere una tela nuova. Dipinsi il viso di una Madonna, cercando di trasfondere in quell’immagine ciò che avevo sperimentato. Franca non approvò il dipinto, troppo etereo, poco carnale, poco attuale: non ero stata una brava allieva. Ripartii pochi giorni dopo.

 

Avevo ritrovato quella gioia del cuore, quel calore che avevo ibernato sotto una scorza di freddo egoismo, forse piú recitato che vissuto veramente fino in fondo. A Roma una coppia di cari amici mi propose di incontrare il loro Maestro. Era Massimo Scaligero. Lourdes aveva operato uno dei suoi tanti, veri miracoli.

 

Marina Sagramora