Il Tantra e lo Spirito dell'Occidente

Orientalismo

 

Il Tantra e lo Spirito dell'Occidente

Tantra

 

Che bisogno c’è del Tantra quando abbiamo i Veda? In risposta a questa domanda il commentatore del Tantra vi dirà che esso incontra i bisogni degli uomini del nostro tempo, il bisogno dell’anima di quel­l’uomo moderno che sembra essersi separato dalle tradizioni e dalle rivelazioni e sente di essere una individualità autosufficiente, un essere libero: noi occidentali la esprimeremmo come “autocoscienza”.

 

Abbiamo infatti l’impressione che i libri del Tantra parlino soprattutto del tipo faustiano, anti-mistico dell’uomo nuovo, come Goethe lo concepiva; il quale vuole basare le sue esperienze interiori sui fondamenti granitici di realtà, coraggio, libertà dai pregiudizi. Anche l’amore del figlio per la Madre non significa nulla se non è un atto di volontà, la donazione di qualcosa di organico che si possiede veramente. Tale devozione è, infatti, un aspetto del potere. Come si può dare qualcosa che non si ha?

 

Principi del Tantra

 

Queste considerazioni sono sorte in noi nel vedere la bellissima nuova edizione del Tantra Tattva di Shriyukta Shiva Chandra Vidyârnava Bhattachâryya Mahodaya, pubblicata con il titolo di Princípi del Tantra (Editori: Ganesh & C°, Madras, 1952, pp. 1.200). Com’è noto, il Tantra-Tattva, la presentazione sistematica del Tantra-sâstra, è stato pubblicato quarant’anni fa a cura di Arthur Avalon (Sir John Woodroffe), che ebbe come collaboratori Shrî Jnanendralal Majumdâr e Shri Baradâ Kânta Majumdâr. Questa seconda edizione contiene in un volume i due pubblicati allora, ed è ancora il testo di base necessario per una comprensione del Tantra-shastra, grazie in parte al chiaro riassunto contenuto nell’introduzione di Arthur Avalon. A lui è dovuto il merito di avere, con i suoi saggi successivi e con la pubblicazione dei testi, permesso al mondo occidentale di venire a conoscenza delle dottrine del Tantra.

 

Il tema centrale dell’opera è quello della Şakti, ovvero il tema del potere cosmico primordiale. Cos’è la Şakti? L’idea usuale delle forme umane di potere è di qualcosa che ha a che fare con il suo modo di essere e di conoscere; ma questo modo, fintanto che non è posseduto nel suo pieno valore, non può essere la misura del potere in sé. È evidente che il sistema tantrico in cui convergono e s’interpenetrano tutte le concezioni metafisiche dell’India, dall’antico ritualismo vedico al recente misticismo visnuita, porta un nuovo elemento nel mondo della tradizione: la consapevolezza dei cambiamenti che sono avvenuti nella mente interiore dell’uomo, nel suo Kali-yuga, e l’intuizione di un nuovo tipo di attività spirituale.

 

Sembrerebbe che i cultori del Tantra possedessero quella conoscenza (che in Occidente sta alla base della filosofia moderna) della caduta delle antiche concezioni metafisiche, secondo cui l’uomo è guidato dagli Dei, da rivelazioni, ispirazioni. Gli Dei ora lasciano l’uomo da solo: egli deve stare da solo: deve realizzare in se stesso con i propri sforzi e senza aiuto, la natura di cui è stato dotato fin dall’inizio. Quelli che desiderano tornare indietro, seguono “il sentiero dei morti”, perché essi semplicemente disseppelliscono in se stessi precedenti stati di coscienza, oltre i quali l’uomo deve ora passare se vuole essere se stesso: è la via della liberazione. Gli Dei attendono che l’uomo cammini lungo quel sentiero: non deve ritornare a uno stato di dipendenza e di remissività passiva, giustificato solo nei tempi antichi, quando l’uomo non era ancora realmente nato come personalità (Şiva), ma giaceva immerso nel seno della Madre (Şakti).

 

Gradualmente, con il passare del tempo, accompagnato dalle corrispondenti rivelazioni (lo Yoga tradizionale), l’uomo ha acquisito una personalità indipendente; ma ha pagato, per questa individualità, con la perdita degli antichi stati di coscienza trascendente. L’esperienza dell’uomo diventa sempre piú di questa terra: è il Kaliyuga, la notte oscura che precede l’alba. L’antica Madre lascia adesso l’uomo da solo, nella solitudine dell’esperienza dei sensi, perché egli ora deve affrontare le responsabilità della libertà. Ed è proprio per questo che la Madre deve ora essere ritrovata nel mondo materiale, il mondo delle sensazioni, nel corpo fisico. E questa riscoperta non può piú essere fatta come dono degli Dei: deve essere un’azione libera, un’iniziativa personale presa dall’uomo, qualcosa che egli può decidere di fare, ma che può anche rifiutare. Questo è il sentiero della libertà, ma è anche la via della riscoperta della Madre secondo un nuovo Yoga, che rimane un mistero impenetrabile per coloro che sono immersi in quel tradizionalismo in cui la Tradizione non fluisce piú. Se non fluisce è perché la tradizione non può essere confinata una volta per tutte in questo o quel sistema; non si lascia fissare in forme ritualistiche, in usi e costumi umani, poiché il suo carattere perenne e immutabile risiede nelle sue perpetue trasmutazioni.

 

Ritrovare la Madre, il potere primordiale verso il quale la coscienza umana è oggi immersa in un sonno senza sogni: questo è il compito al quale punta il sat-çakra-sâdhana: il principio della stessa coscienza, di Şiva, deve essere raggiunto nella sua dimora, il sahasrâraçakra, da cui trarrà forza per discendere nel mûlâdhâra-çakra, e unirsi con il principio del potere creativo, Şakti, dormiente là nella forma del serpente, Kundalinî.

 

Il mezzo per svolgere un tale compito è quello che, nella terminologia occidentale, può essere descritto come “assoluta immanenza”. Tutte le forme di trascendenza sono ora delle astrazioni per l’uomo che non ha piú la percezione diretta del Divino. Quella consapevolezza dalla quale si parte non può essere sostituita da postulati intellettuali che non costituiscono un sostanziale cambiamento nella condizione fattuale della natura umana. La consapevolezza che l’uomo ha già, la sua costituzione fisica, il suo corpo, sono i punti positivi dai quali partire. Si tratta di riconquistare quei modi di essere nella loro essenza. Se le fondamenta del mondo sono realmente nel Divino, allora il Divino sarà trovato lí come una essenza positiva. Tale è la premessa al metodo insegnato dal Tantra.

 

La loro teoria si sviluppa in conformità con una dottrina della conoscenza che non cerca conferma in se stessa ma nel metodo che implica. Non è dunque questione di tornare indietro, di cercare il cadavere in se stessi – che è ciò che sta facendo inconsapevolmente l’Occidente con la psicanalisi, la psicologia analitica, di cui hanno parlato, con giustificata severità, personalità di spicco come Shri Aurobindo e Ramana Maharshi – si tratta di andare avanti, non di instillare vita fittizia in ciò che è morto, con il ricorso a mezzi che sono essi stessi connessi con cose morte, ma di resuscitarlo, impossessandosi dell’essenza del proprio essere, trasmutandosi.

 

Shiva e Shakti

 

Secondo il Tantra, l’“essere” – in quanto è una realtà esteriore fisica o superfisica – si oppone al pensiero, in quanto il pensiero stesso si oppone all’essere, vale a dire in quanto pensiero, inconsapevole dell’atto stesso attraverso il quale consacra la vita, vive come una funzione astratta, distaccata dal nucleo centrale dell’in­dividuo. Il Tantra concepisce cosí la realtà dell’essere, non come procedente da un principio riconducibile a quella realtà, ma come scaturente dalle relazioni attraverso le quali l’Io se ne può appropriare. Ciò che distingue le varie forme di esperienza alle quali essa dà origine, è il grado di unione esistente tra Şiva e Şakti, ovvero il grado in cui la forza divina diventa azione.

 

Cosí vengono eliminati i metodi puramente intellettuali o devozionali delle scuole precedenti, facendo spazio alla conquista del centro piú profondamente radicato della personalità, che è il punto di partenza lungo il sentiero che conduce alla possibilità di dominare la vita e la realtà fisica. L’ordine esteriore delle cose è in se stesso potere, e il potere conferito a una cosa non dipende dal riconoscimento intellettuale, cioè il pensiero riflesso. Qui, dunque, la Mâyâ non è un valore in sé, ma uno dei modi in cui Şakti si presenta; è, quindi, Mâyâ-Şakti. Il jîva può anche permettersi di concepire il mondo come un gioco di illusioni, un sogno, un fantasma; ma questo fantasma potrà sempre imporsi su di lui come necessità bruta, qualunque sia la sua posizione mentale.

 

Madre

 

Il Tantra, d’altra parte, cerca di acquisire una conoscenza sicura dei princípi dai corrispondenti risultati. La prova del potere è nella sua azione. La stessa Potenza Divina, la Madre, diventa azione in tutte le sue forme di manifestazione, fino a ciò che può sembrare Mâyâ; ma ad ogni grado, poiché conoscenza e azione sono una cosa sola – una posizione di assoluta immanenza che in qualche modo ricorda per analogia il verum et factum convertuntur di Giovan Battista Vico – può essere nuovamente risvegliata dal sâdhaka. Questo risveglio non è né il movimento intellettuale del Jñâna-yoga, né la posizione idealistica presa dal Vedânta: è la realizzazione, l’identificazione con il potere stesso della Madre, la trasmutazione radicale di sé, la capacità risolutiva della natura naturata, ovvero di quella Prakriti inferiore che si afferma costantemente come necessità nelle persone comuni, anche se nella sua forma piú nobile, che è quella sattvica.

 

Lo spettacolo che il mondo ci offre non è qualcosa di finale e inspiegabile in sé, se non nella misura in cui lo vediamo accadere davanti a noi, mentre siamo incapaci di collegarlo con la nostra decisione interiore: ma quello che dobbiamo capire è che noi siamo non solo gli spettatori ma anche e soprattutto gli attori responsabili di questo spettacolo. Dobbiamo renderci conto che questo spettacolo è davanti a noi perché è la somma totale in continua evoluzione delle nostre percezioni sensibili, e che vedere questo spettacolo sistematicamente, non come una confusione di note esteriori ma come un insieme armonioso fatto di molti elementi – minerali, vegetali o animali – culminante nell’uomo, è in sé un atto della mente. Dalla percezione e dal controllo di questa prima azione immediata dello Spirito deriva la possibilità della libertà: l’uomo comincia ad acquisire la libertà nella sorgente interiore del proprio essere, nel punto in cui la sua realizzazione di sé come coscienza e il fatto concreto del suo essere coincidono in una unità che è il processo di potere del mondo. Qui inizia l’unificazione della sua anima con l’anima stessa del mondo, cui si allude nel Tantra quando si parla dell’unione del deva (Şiva) con la devî (Şakti): una unione che, realizzata in tutti i suoi gradi in virtú della Kundalinî-Şakti, è il compimento finale della sâdhana.

 

Non garantiamo la liberazione mediante l’obbedienza a una legge, poiché una tale legge, nonostante la sua natura metafisica, sarebbe comunque una necessità, un vincolo, una condizione – una catena d’oro lega non meno di una catena di ferro – ma la garantiamo identificandoci con il principio da cui derivano le leggi. Queste leggi sono necessarie solo ai jîva, ai non iniziati, ai non liberi, che non possono stare da soli, che non possono trovare in se stessi il principio del loro essere, che è il principio del mondo stesso. Il sentiero del Tantra è quindi adhârmic. Non si può non percepire in questa dottrina una posizione sorprendentemente simile a quella dell’idealismo filosofico occidentale, là dove tende a eliminare non solo tutta la metafisica tradizionale e tutti i miti relativi a una realtà a sé stante, sia sensibile sia sovrasensibile, ma anche a liberarsi dai limiti posti alla conoscenza da Emmanuel Kant, che, dopo tutto, ha continuato quei miti, dando loro una forma moderna. Il percorso verso l’immanenza assoluta iniziato da Hegel, che ha cosí superato ogni residuo “realismo”, tutte le concezioni che vedono nel mondo una realtà, fisica o superfisica, indipendente dall’individuo che la contempla, ignaro di questa sua fondamentale azione che è la contemplazione, questo percorso perseguito fino alle sue logiche conseguenze da Giovanni Gentile, è, anche se nella forma riflessa e nella terminologia della filosofia occidentale, sostanzialmente lo stesso di quello che nel Tantra è visto come premessa metodologica.

 

L’idealismo occidentale, portato alle sue logiche conclusioni, può essere considerato come introduttivo alla metafisica del Tantra. Il pensiero è colto nel momento in cui diventa potenza, quando sorge continuamente nella coscienza senza preliminari, Una ragione di per sé solo, senza necessità di una ragione logica o di un previo pensiero per rendere conto del proprio essere. È evidente che quando il ricercatore spirituale cerca di tradurre in azione questa intuizione dell’idealismo, portandola oltre il mero piano della cognizione filosofica, dovrà mettere da parte argomentazioni e ragionamenti. Da lí in avanti l’unica via che potrà seguire sarà quella della concentrazione, della meditazione, della contemplazione.

 

Meditazione

 

Consideriamo il significato ultimo del “pensiero pensante”: esso può diventare esperienza pratica solo mediante il possesso dell’atto del pensare; e questo può essere il risultato solo della concentrazione mentale. Questa è la scoperta che deve essere fatta. Lo spirito dell’Occidente cerca quello dell’Oriente attraverso le conclusioni positive cui è condotto dalla propria concezione filosofica, dalla visione lucida del “pensiero pensante”. Questo postula la meditazione. È tutta questione di percepirlo.

 

Nella realizzazione del pensiero pensante, l’uomo occidentale può cominciare ad acquisire l’esperienza della pura volontà, per il fatto che comincia a desiderare qualcosa che non gli è richiesto né dalle leggi della sua natura fisica né da quelle dell’astratta sfera mentale. In questo pensiero, desiderato per sé, e in questa volontà, messa in moto dal pensiero che non è soggetto alla “natura” fisio-psichica, è evidente che l’uomo inizia a realizzare la sua essenza shivaica, cioè la sua libertà che lo pone di là da ogni dharma. L’argomento finale del sano pensiero occidentale – non di quello che è caduto nel vicolo cieco del problematicismo – riguarda coloro che hanno una chiara comprensione e che sono ancora in contatto con il significato interiore della philosophia perennis, l’urgente necessità della meditazione, dhârana, dhyana.

 

Non è facile comprendere il valore di questa meditazione; come punto culminante dell’esperienza filosofica, non implica l’eliminazione del pensiero, ma la sua acquisizione a un livello superiore nel quale il pensiero non ha ancora assunto la forma della logica (dialettica) né si è ancora rinchiuso in una forma concettuale. Ovviamente una tale acquisizione è possibile solo se quella forma concettuale, quella logica dialettica, sono state possedute e poi risolte. Altrimenti, pur credendo che si stia meditando e contemplando, si cade in uno stato di illusionismo psichico, cioè in stati mentali ancora legati al dinamismo del sistema nervoso. Una mente ancora legata al processo cerebrale, ovvero condizionata dalle esperienze sensibili, non può avanzare verso una esperienza sovrasensibile, se non ha prima realizzato in che modo e in quale forma è legata al mondo corporeo. Qualsiasi forma di metafisica, sia orientale che occidentale, che crede di poter eludere la funzione cognitiva del pensiero, è destinata al fallimento.

 

Purtroppo oggi è consueto, tra coloro che seguono le dottrine esoteriche, rivolgersi al Mondo Spirituale, o alla Tradizione, o allo Yoga, con una disposizione d’animo che non tiene conto dei cambiamenti verificatisi nella costituzione interiore dell’uomo moderno rispetto a quella dell’uomo dell’antichità, al quale, quando erano presenti determinate condizioni speciali, la Tradizione parlava senza bisogno di alcuna mediazione.

 

concentrazione mentale

 

Un “oggetto spirituale” ben definito, focalizzato secondo le regole di una sottile critica esoterica, è il punto di partenza, e dato che è stato cosí chiaramente fissato, si crede di avanzare verso di esso; ma non ci si accorge che, al fine di entrare in una vera comunione reale con il sovrasensibile, non conta l’oggetto della conoscenza, ma l’atto interiore suscitato da quell’oggetto. L’oggetto è solo un mezzo, un pretesto: può essere un albero, il sole, la Tradizione, il concetto, qualsiasi cosa. Il Mondo Spirituale non va ricercato al di fuori dell’attività meditativa che lo cerca, perché è in quell’attività che il Mondo Spirituale già si esprime. Pensare ad esso come un “oggetto” che è da qualche parte aspettando di essere conosciuto, e che quindi può essere conosciuto o meno, è un atteggiamento della mente non dissimile da quello dell’ingenuo realista che crede di avere davanti a sé, come realtà di per sé, una “materia”, una “natura”. La tradizione quindi non può esistere senza l’atto della mente che la resuscita in sé: vive lí in sé sola. Credere che esista una tradizione che stia davanti a noi come una “cosa”, che possiede in sé un aspetto misterioso, che può anche essere identificato, e che quindi può essere avvicinato o meno, essere dentro o fuori della sua “ortodossia”, significa che si è ingenuamente confuso un oggetto o un motivo di attività spirituale per quell’attività stessa; ciò sarebbe una sorta di naturalismo metafisico. Abbiamo in mente in particolare la posizione assunta da René Guénon, un ammirevole critico ed esponente di dottrine, ma non certo uno che indica la via per raggiungere i valori essenziali adombrati in quelle dottrine. L’errore consiste nel cercare lo spirito o la realtà al di fuori di quell’attività interiore in cui lo spirito comincia ad esprimersi. Şakti, Şiva, il potere primordiale, l’Io trascendente, il principio essenziale a priori dell’essere, tutto ciò di cui la mera concezione, in termini familiari all’intelletto occidentale, ha permesso a Kant di concepire una nuova, anche se ristretta, visione del mondo, in primis et ante omnia, non può essere altro che azione, funzione, pensiero puro, attività interiore, l’Io nel momento della meditazione.

 

Kant cominciò a falsificare la sua intuizione iniziale quando provò ad analizzare le diverse forme di opinioni in modo da ricavarne delle categorie. Queste categorie sono derivate dall’analisi delle opinioni cosí da dedurne delle categorie. Tali categorie, derivate dall’analisi delle opinioni in sé, considerate come prodotti della mente, effetti cristallizzati dell’attività del pensiero, non potevano essere, e infatti si sono rivelate, nient’altro che modalità astratte prive della vita del pensiero, peraltro obbligate a svolgere la parte delle funzioni spirituali. Le categorie in effetti non sono modi di pensare ma espressioni di cose pensate, che esse stesse hanno pensato come loro premessa. Kant non ha compreso questo, e quindi non ha potuto risolvere il problema della gnoseologia, ma lo ha reso piú complicato. Ha dovuto fissare dei limiti alla cognizione, preparando cosí, nel campo della filosofia, l’asservimento dell’uomo al materialismo moderno con tutte le conseguenze catastrofiche che ha provocato e provoca tuttora.

 

Il Tantra è certamente un sistema molto moderno dello Yoga; a condizione che si possegga realmente la chiave per accedervi. Quella chiave rimarrà sempre perduta per coloro che vedono nel Tantra un sistema che sarà realizzato come risultato del solo fatto di conoscerlo, la mancanza di tale conoscenza costituendo un ostacolo alla sua realizzazione. Il Tantra come metafisica vivente non può essere un oggetto di conoscenza, un mero sforzo filosofico o un incontro casuale. Colui che senza conoscerlo apprende da sé come vivere l’atto della meditazione, dovrebbe restare in contatto con la sua essenza eterna; purché la meditazione non sia studiata e astratta, determinata senza il possesso del problema del valore, condotta come risultato di uno “sviluppo spirituale” attraverso il quale l’egoismo, adornato di virtú ascetiche, torna alla ribalta. La meditazione richiesta deve essere un processo di cui si è maestri; deve essere meditazione per sé, segno vivo e inconfondibile dello spirito in cui si trova lo spirito stesso.

 

È possibile che un pensiero inconsapevole dei propri limiti, della sua conformità profondamente radicata nell’esperienza sensibile arrivi a una tale meditazione? Non è possibile eludere il compito di una conversione della forza-pensiero, che è un chiaro problema di conoscenza, e quindi, in primo luogo, un problema di valore, di consapevolezza di ciò che si vuole veramente, e non di accettazione e di pratica del Tantra solo perché si simpatizza con la sua dottrina. Deve essere meditazione vivente, non coltivazione astratta o intellettuale o sentimentale di un tema posto come studio, che lega sempre inevitabilmente l’attività mentale al suo strumento, il cervello. Se l’atto dell’essere non è esso stesso un mondo ideale ma una mera categoria, e se – come insegna il Tantra – una categoria è un’azione interiore, come è possibile che si compia l’atto della meditazione se non come identità dell’essere e il non essere, ovvero come creazione, o come potenza? Questa azione che sgorga dentro di sé, che non presuppone nulla prima di sé, è puro pensiero. Esso esiste nella misura in cui crea se stesso, attingendo ad una universalità in sé completa. Non può esistere finché non è creato in sé. Non appena definisce se stesso come “essere”, “categoria” o “concetto” cessa di essere, muore come astrazione o come conoscenza.

 

Platone

 

Secondo Platone esiste l’essenza di una cosa o di un’idea, ma secondo la nuova metafisica l’esistenza di un cogitatum, in quanto è cogitatio, è sempre nascente; si crea da quel nulla che è tutto; la misura della sua esistenza è la sua infinita capacità di realizzarsi. Una verità, questa, che ci riporta al pensiero centrale del Tantra.

 

L’aprirsi alla Şakti – secondo la moderna interpretazione del Tantra di Shrî Aurobindo – in cui la bhakti e il samarpana non sono altro che atteggiamenti di mediazione, porta alla identificazione con la Madre, cioè all’attività indicibile del sâdhana. Nella sua essenza deve essere riconosciuto come un atto puramente interiore, il recupero della vita spirituale originaria; è un approfondimento e un rafforzamento interiore che tende al bhâva, una espressione che non può essere definita, la quale esprime quello stato di perfetta lucidità grazie al quale il pensiero sorge come essere, essere di per sé, esprimentesi nelle cose, in tale assoluta identità con esse che l’Io e il mondo sono uno. Attraverso il processo della filosofia occidentale l’esigenza del bhâva è postulata come ultimo termine, rappresentato come il raggiungimento del “pensiero puro”, o pensiero creativo, che rimarrà come una pura e immobile intuizione mentale, a meno che l’evoluzione della filosofia, che avviene attraverso l’attività di grandi figure come Fichte, Schelling, Hegel, Gentile, concepisce un pensiero il cui scopo è quello di accompagnare con il proprio sviluppo questo aspetto spirituale della storia mondiale.

 

La risposta positiva dell’Oriente a questa necessità è data dal Tantra, che indica il dhârana e il dhyâna come le strade che portano al bhâva.

 

Fedeli al principio che lo spirito è una realtà, aggiungiamo che, cosí inteso, il punto di contatto tra Oriente e Occidente, prima che nella sfera della politica o della sociologia o della cultura, può essere trovato nell’anima dell’uomo, che diviene adatto a questo perché trova in se stesso la sacra fonte della meditazione.

 

 

Massimo Scaligero

 


 

Tradotto da: East and West, Gennaio 1955, Vol. 5, No. 4.

 

Link all’articolo originale inglese: “The Tantra and the Spirit of the West”