Pochi giorni fa, mi sono imbattuto in questa frase che ho voluto porre qui come titolo: sei parole semplici, sentimentaleggianti ma efficaci, di quelle che abitualmente stanno scritte sui foglietti in cui si avvoltolano i cioccolatini o le caramelle. E devo dire che mi ha creato una certa reazione, ho provato subito il bisogno di lavorarci sopra. Non perché la frase necessitava di spiegazioni o di commenti, ma piuttosto per il motivo che avvertivo in essa la presenza di un qualcosa di costruttivo, celato dietro la sua espressione, una base capace di stimolare i miei circuiti mentali, normalmente assestati sul livello medio (spero), e sulla quale avrei potuto erigere ulteriori riflessioni, forse interessanti, per poi, dall’insieme di queste, giungere ad una concezione di sintesi allargata, fortemente significativa. Per lo meno questo era il mio desiderio.
Mi sono quindi messo al lavoro, partendo dal contatto logico-razionale piú elementare (è buona regola cominciare sempre dalle cose elementari).
In sostanza il senso della questione consiste nel credere in ciò che affiora dalla nostra interiorità: «Io credo in questa cosa che sento nascere dentro di me: mi attrae, mi convince, mi è simpatica». Fin qui tutto bene, purché quella tal cosa non sia un derivato qualsiasi di tutto ciò che un essere umano porta in sé, ma sia piuttosto frutto di una scelta deliberata tra quanto il medesimo può compiere, qualora le condizioni di natura cessino, anche temporaneamente, d’incombere come imposizioni, e gli si schiudano nuovi orizzonti, con le relative opportunità.
Perciò ritengo opportuno, prima di ogni altro indagare, prendere in considerazione il fatto che l’accendersi di un improvviso interesse può venir suscitato sia da motivi idealistici quanto da altri motivi che con gli ideali hanno ben poco da spartire.
Chi è dotato di temperamento artistico conosce questi particolari momenti: si sente spinto a creare nel suo specifico campo, ne è ispirato; normalmente però non ha riguardo alcuno per l’origine dell’impulso che prova: non si perita a decifrarne la natura e la provenienza. In tal caso, egli, si può dire, è costretto a seguire il proprio sentire e volere: ignorando la causa, ignora le conseguenze, non ha dubbi sul fatto che gli impulsi gli appartengano; ciò gli dà la garanzia per ritenerli reali. Mentre invece una meditazione approfondita gli avrebbe potuto svelare un retroscena contrario: sono il sentire e il volere, sorti da una zona ancora sconosciuta dalla sua coscienza, i quali , appropriatisi di lui, ora lo conducono e lo manovrano.
L’artista, come disse lo scorpione traghettato dalla rana, può dire in sua difesa: «È la mia natura». Però nella maggioranza dei casi la natura degli uomini coincide con la corporeità e con la psiche vincolata ad essa. Per cui, ammettendo che l’obiettivo perseguito fosse l’amore, quella propensione ad amare, vissuta e attuata in tale misura, rappresenterebbe l’inversione della forza che l’artista si sforza di esprimere come amore, credendo che davvero lo sia.
Disse un tempo il sommo Poeta: «I mi son un che quando Amor mi spira noto e a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando…» (Purgatorio, XXIV).
La testimonianza è tanto celebre quanto onorevole. Conferma che in ogni epoca è necessario credere a quel che si prova; premessa inconfutabile, perché altrimenti il fatto non darebbe frutti; resterebbe sterile; ma, quale risultato della scienza moderna piú avanzata rispetto a quella dell’epoca di Dante, l’esperienza acquisita fa comprendere con forza sempre crescente che adesso si rende altrettanto necessario conoscere la qualità e la sorgente del sentimento o del volere che ci pervade. Conoscenza determinante per un distinguo oramai indispensabile.
Il credere che un impulso, un sentimento o una particolare volontà, ci siano, nel senso che si percepiscono come esistenti, non basta; dobbiamo andare a vedere da dove vengono e quali “impurità” potrebbero contenere. Un po’ come l’assetato e l’acqua con cui vuol dissetarsi; dovrebbe fare attenzione a come si presenta: se sia limpida o torbida, ma chi è sospinto dall’impellenza del bisogno, non ci pensa su due volte, sa solo che deve e vuole bere. Viene dunque richiesto un distinguo, che non sempre l’anima dell’uomo è in grado di compiere, anche se la possibilità di farlo c’è sempre, ove gli riesca di guardare spassionatamente dentro la vastità delle sue occorrenze e scorgere la fonte della pulsione.
C’è tuttavia il pericolo che la capacità di distinzione, una volta attivata, diventi un meccanismo dialettico e porti quindi alla mania di classificazione; il che farebbe perdere di vista il nostro traguardo, arenandolo nelle secche della pignoleria. La classificazione infatti è utile, solo quando l’operatore si assume l’incarico di mettere in ordine una quantità di elementi; non lo è piú, se l’operatore deve prima conoscere quel che ha da ordinare ed il motivo per cui ha deciso di farlo, ma non esegue tale esame in quanto, preso nel suo proposito, non ne scorge il motivo.
Le suddivisioni a volte possono apparire farraginose, e quelle che non riguardano gli oggetti del mondo fisico ancora di piú, ma se si pensa alla pratica quotidiana, si vede che perfino nelle cose meno elevate ognuno compie le sue abituali classifiche in modo del tutto automatico e dice a se stesso: «Questo è di prima scelta, questo di seconda, e cosí via». Il che vale tanto per i generi alimentari quanto per gli abiti, per i profumi o per i manufatti ecc. Sta a significare quanto la facoltà del distinguere piú che all’oggetto bada alla collocazione del medesimo in una scala di valori.
Per quanto concerne le percezioni sensibili, il fatto è assodato: si può guidare una Maserati senza sapere nulla di come funziona il motore. Ma per quanto riguarda ciò che può sorgere dai piú intimi recessi della nostra anima, la non conoscenza diventa un’insidia: provoca scelte sbagliate, equivoci madornali e successive tragedie umane.
Tutti scegliamo: anzi, si sostiene da piú parti che il diritto di scelta sia affine al “libero arbitrio”, e quindi faccia parte dei nostri diritti; ne abbiamo fatto un’icona e gli abbiamo concesso d’essere un riferimento perfino nel campo del moralismo, se non in quello della moralità, dove le percezioni sensibili scolorano e valgono meno di un ricordo.
Si sceglie però con la testa, con il cuore e – riservato ai ghiottoni – perfino con la pancia; sono almeno tre modalità (escludo quelle miste, perché in tal caso le varianti aumenterebbero a dismisura) con le quali si deve fare i conti: meglio sarebbe farli prima d’intraprendere le azioni della scelta sul piano concreto, perché – dopo – un eventuale recupero può diventare pesante, e a volte impossibile.
Come tutte le scale, anche quella dei valori sale dal basso verso l’alto; inizia coi motivi piú strettamente legati alla nostra natura inferiore, al nostro ego; man mano che si sale, tuttavia essi tendono a sciogliersi in un certo senso dai limiti costrittivi, diventano piú lievi, piú rarefatti; si trasformano in limiti psicologici, intellettuali, sempre piú vaghi e complessi, fino ad accostare il mondo delle pure idee, ovverosia il punto piú elevato della possibilità di spersonalizzazione.
Una spiegazione immediata ci conferma che l’amore (come del resto le altre forme del sentire) trae le sue radici dalla nostra interiorità di essere umani, ma a differenza di quelle sorte dalla corporeità e dalla psiche legata al sensibile, il sentimento dell’amore non sopravvive, oltre il suo primissimo manifestarsi, se non è sorretto dal pensare, dal senso stesso del pensare. Si tratta di una concentrazione di forze sublimate nella classica triade del pensare, sentire e volere, ma, tenuto conto degli abbinamenti e delle inferenze miste, esse varrebbero nulla se in capo a tutto non primeggiasse il pensare.
Il pensare, quando funziona nel modo giusto (che poi è l’unico in grado di evolvere l’essere umano verso il suo compimento) è la bussola orientatrice del volere e del sentire; senza di essa le nostre facoltà resterebbero prive di un vero obiettivo, o peggio, si disperderebbero in tante direzioni.
Anche il sentire piú purificato e nobile, guidato da un pensare grezzo, mal coltivato, fermo ai suoi primi livelli di sviluppo, vanifica la virtú del cuore; non perché il puro o l’ingenuo o l’innocente non possano procedere sul cammino dell’evoluzione spirituale, ma per la ragione che il dono del pensare è un dono che va fatto maturare, crescere, come un buon padre sa crescere e allevare i suoi figli.
È soltanto il primo grado di una scala molto lunga; di norma non lo si sa, o non lo si vuol sapere: nessuno è stato preparato adeguatamente a questo tipo di conoscenza; né essa ha mai fatto parte dei programmi dell’istruzione obbligatoria. Abbiamo permesso alla nostra natura di farci da guida e l’abbiamo seguita da appassionati, ogni volta che l’intensità vissuta del momento magico si è impadronita del nostro intimo essere.
Sentimenti e volontà chiedono di essere impiegati come elementi energetici, come propellenti; il pensare invece richiede di essere sperimentato nella sua infinita, misteriosa “forza di luce”, ancora sconosciuta all’uomo.
Si può essere e rimanere delle brave persone senza mai impegnarsi in nulla; ma per coloro che aspirano ai mondi dello Spirito e hanno incontrato nell’Antroposofia non solo una lettura edificante e di conforto, la forza del pensiero deve diventare, grazie alla loro assiduità, tenacia e costanza, l’elemento principale dell’impegno quotidiano in tutti i settori della vita.
Credere in qualcuno, o in qualcosa, significa essere stati capaci di pensare: aver sviluppato in sé una minima attività intellettiva in grado di sostenere e di fornire alla nascente forza di attrazione e di empatia le ali per andare lontano.
Credere in qualcuno o in qualche cosa significa inoltre provare la fiducia; non è possibile credere senza avere e dare la fiducia, cosí come – facendo un passo avanti – non è possibile avere la fede senza aver sperimentato la virtú della fiducia. La fiducia è infatti l’aprirsi dell’intimo cuore da cui solo possono sgorgare la fede e l’amore per il divino. Per usare una terminologia maggiormente appropriata, la fede, a questo punto, porta il nome di devozione.

Eros, Philía, Agapè
Ma tutto questo percorso di crescita interiore sarebbe impossibile se un pensare volitivo non guidasse l’intero moto d’ascesi.
L’antica saggezza dei Greci intuí nel sentimento d’amore tre fasi iniziali, indicative, oramai perdute nella caterva delle nozioni astratte dell’epoca moderna: l’eros, che rappresentava l’amore nel senso carnale, la philía che nasceva dal legame di una vera amicizia del cuore, e infine l’agapè, grazie alla quale le anime umane condividevano e partecipavano coralmente alla luce dell’idea, al calore della fede, e alla devozione per un principio.
Si potrebbe a questo proposito paragonare la triade concepita dai Greci a quella indicata dalla Scienza dello Spirito: il pensare-sentire-volere. Giacché ciò che proviene dal mondo celeste si inverte, scendendo e penetrando la tenebra della materia, ne conseguirebbe che l’agapè è il pensare divino che si fa amore umano, la philia è il sentire inteso come trasporto di affetto e dedizione a ciò che si manifesta come altro da noi, e infine l’eros, la forza-volere primigenia, piú profonda e intestina, che protegge e garantisce l’esistere delle creature sulla terra.
Ma questa conoscenza non è ancora alla portata di tutti. Nel vortice di sensazioni e sentimenti che chiamiamo amore, la facoltà di distinguere i gradi dello spirituale è stata smarrita; può tuttavia venir recuperata cominciando a chiedersi, volta per volta, quanto peso abbia, nel rapportarci con l’altro, l’amore per noi stessi.
Si vede, si osserva e si scopre, molto spesso, che lo chiamiamo “amore per qualcuno o per qualche cosa”, mentre stiamo solo assecondando e beatificando il nostro ego: per sua natura esso non conosce altre forme d’amore se non quello adoperato per soddisfare le proprie necessità primordiali, brame e impulsi finalizzati all’immediata fruizione; un concentrato di forze centripete che l’ego si ostina a proporci come fosse l’“amore” , traendo in inganno l’occasionale inesperto sperimentatore.
Non abbiamo mai prestato una sufficiente attenzione nell’investigare la provenienza dei nostri sentimenti: in tale mancanza del discernere, può aiutarci solo il pensiero, ma non un pensiero qualunque, bensí un pensiero rafforzato dall’esperienza che può derivare tanto dallo studio e dall’applicazione della disciplina spirituale, quanto dal soffrire esistenziale, che non manca mai di intervenire nelle nostre vicende; esso ha il compito di toglierci dall’errore, di riportarci sulla strada giusta, anche se un simile correttivo non è compreso, né accolto; solitamente viene vissuto come onere non gradito; perciò respinto.

Pinocchio e la medicina amara
Abbiamo tutti letto Pinocchio: il “burattino” dovette apprendere a sue spese che la medicina, quella vera, quella benefica, quella che ti restituisce la salute, ha un sapore spiacevole ed è sempre un sorso amaro da inghiottire. Senza volerlo (o forse no) il Collodi ci ha indicato, velandola nella fiaba, una legge karmica di estrema importanza. Il soffrire, nel corpo e nell’anima, può venir sentito come un’occasione che il mondo dello Spirito ci offre, con infinita e ininterrotta donazione, per darci la possibilità di riscattare le nostre omissioni, le deviazioni, le manchevolezze compiute e commesse anche in tempi lontani, delle quali non ci siamo mai resi conto.
È un offerta che non si arresta qui; va oltre la guarigione, oltre il benessere del singolo. Amare se stessi infatti non ha senso alcuno, perché è un’inversione della corrente dell’amore, che per sua natura irraggia nel mondo come la luce del sole. Non ha altro moto che darsi, offrirsi a tutti, senza condizioni. Questo è il segreto della salute delle anime capace di guarire anche i corpi.
Ricordo Massimo Scaligero: «Il non chiedere nulla per sé, perché tutta la luce risplenda nell’altro, è il segreto per cui la luce si dia» (M. Scaligero, Dell’Amore Immortale).
Perciò nell’epoca attuale dell’anima cosciente, l’amore non spetta piú a chi soltanto ci crede; non è un sapere, o una cognizione o un capire: è una dinamica interiore, un’azione diretta, proiettata al di fuori del proprio limite personale. È il sacrificio di sé, richiesto dall’Io superiore, che soltanto nell’ego dell’uomo, sensibilizzato al punto di crisi, può trovare la volontà di compiersi.
Un Qualcosa di Universale, una forza di amore superumano, dall’Eternità si rispecchia in ciascuno di noi, affinché, a nostra volta, diventiamo in grado di donarlo al mondo e agli esseri che lo attendono.
Angelo Lombroni