I negozi sono come dei porti di mare, ai quali non approdano solo compratori, ma anche persone che cercano ispirazione e desiderio di scambio e calore umano. Nel lontano periodo in cui mio marito Fulvio ed io avevamo il negozio a Corso Trieste, passava spesso per la strada un personaggio particolare, Attilio, vestito da pescatore, capelli lunghi raccolti alla nuca, con al collo, attaccati a lacci in caucciú, vistosi pendenti di tipo marino: conchiglie, chele di granchio e rametti di corallo. Si fermava spesso davanti alla vetrina, e ogni tanto entrava, per commentare la bellezza delle cose esposte e scambiare qualche chiacchiera. Fulvio gli faceva tante domande riguardo ai suoi viaggi, e lui rispondeva volentieri, sempre con dovizia di particolari. Aveva una sua concezione del Divino molto personale: si trattava, secondo lui, di una Entità sottomarina, sorridente e burlona, che viveva allegramente fra sirene e tritoni in un ambiente naturale lontano da tensioni, preoccupazioni e problemi di cui l’uomo sulla terraferma si era reso schiavo. Attilio diceva di avere un vecchio peschereccio a Fiumicino, con cui faceva ogni tanto qualche trasporto di piccolo cabotaggio nelle zone laziali. Ma in genere lo si incontrava in quella parte di Roma, lontana dal mare, perché probabilmente in quel periodo era lí che viveva. Di fronte al negozio c’era un bar, molto frequentato dalla gente del quartiere. Quando Attilio vi si fermava a prendere “qualcosa di forte”, che regolarmente gli veniva offerto, si fermava a parlare e intorno a lui si faceva sempre un capannello di gente. Raccontava di aver girato il mondo lavorando su grandi navi cargo, portando merce in Oriente e riportandone altra sulle rotte di ritorno. I suoi racconti erano sicuramente conditi di molta fantasia, ma erano affascinanti, per cui non gli mancavano amici che si divertivano in sua compagnia. Poi non l’abbiamo piú visto e mai pensavamo di rincontrarlo a distanza di tanti anni. C’eravamo da poco trasferiti ad Ostia, in un appartamentino sul Lungomare. Una mattina, affacciandomi al balcone, l’ho subito riconosciuto. Il tempo era passato, i capelli erano tutti bianchi, ma lui era sempre uguale, con le sue vistose collane e un gruppo di amici ai quali raccontava le sue avventure di mare.
Un altro personaggio interessante che veniva regolarmente nel negozio era fra Giacinto, un frate francescano “cercatore”, che distribuiva noci e raccoglieva l’elemosina. Arrivava ogni mese dall’Umbria e portava con sé una serenità d’altri tempi, l’atmosfera di un mondo diverso da quello della rumorosa città, fatto di quieto raccoglimento interiore e di parole sante per tutti. S’interessava alle notizie della nostra famiglia, che commentava con grande saggezza, poi dava una benedizione a noi e al negozio.
Persone molto particolari erano i Losito, due anziani coniugi “pentecostali”. Venivano regolarmente nel negozio, difficilmente per acquistare, ma per parlare delle loro esperienze spirituali e per conoscere qualcosa del nostro mondo, l’antroposofia, alla quale erano interessatissimi. Compravano i libri di Steiner e di Scaligero, e segnavano le frasi che volevano commentare insieme. Non trovavano difformità o disaccordi tra la via che continuavano a seguire nella comunità di cui facevano parte da anni, e la Scienza dello Spirito che, dicevano, approfondiva significati che per loro erano fondamentali nella conoscenza del vero cristianesimo. Erano grati della nostra amicizia, e anche del fatto che dedicavamo loro del tempo durante il lavoro, anche quando entravano nel negozio persone che volevano acquistare. Per sdebitarsi in qualche modo portavano buste del supermercato con pasta, marmellate, frutta e verdura. Dicevano che l’amicizia andava consacrata con l’“agape santa”, che riguardava la comunione con Dio e il nutrimento del fisico.
Non mancavano altri amici generosi, tra i quali una signora molto speciale, veneziana, la signora Padoan, che per anni aveva lavorato negli uffici comunali di Venezia, prima di trasferirsi a Roma per il lavoro del marito, un importante ingegnere che stabiliva la solidità di un ponte camminandoci sopra e battendo il piede per testarne la sicurezza. E non aveva mai sbagliato. La moglie era un’appassionata sostenitrice dell’impero austro-ungarico per quanto riguardava l’organizzazione burocratica, snella ed efficace. A Roma invece aveva trovato bizantinismi e complicazioni che la disturbavano profondamente, oltre a una disfunzione generalizzata che lei diceva voluta, per coprire raggiri e macchinazioni da cui era sicura che si traessero ricavi illeciti. Ma a parte questa sua nostalgia per una Venezia sognata, la signora Padoan era una cuoca eccellente, e preparava quotidianamente nuove ricette gustose per il marito. Ogni tanto arrivava dalla sua casa, proprio di fronte al negozio, con un vassoio pieno di contorni vegetali fatti apposta per noi, ed era felice dei meritatissimi complimenti che le facevamo. Anche lei s’interessava all’antroposofia, che conosceva sin dalla gioventú, e diceva di aver seguito per un periodo un gruppo di Mestre intorno agli anni Cinquanta.
Un personaggio molto interessante era un anziano aristocratico, il duca Bianchi di Castelbianco, che s’intratteneva a lungo nel nostro negozio per parlare in particolare di poesia, di letteratura italiana, di cui era un appassionato cultore, e di fonologia, della quale era un esperto sin dagli anni Sessanta, quando questa disciplina era ai suoi albori. Leggeva le poesie di Fulvio e le trovava talmente importanti da voler rendere l’autore di quelle meraviglie un nobile! Voleva nominarlo barone, con tanto di accollata di spada sulla spalla come quella degli antichi cavalieri. Diceva di poterlo fare, essendo di purissima nobiltà, ed era sicuro che l’autore di tanta grazia e bellezza lo meritasse in pieno. Non conosceva però il carattere di mio marito, che rifuggiva da lodi e lusinghe, preferendo confronti di vedute e scambi di idee stimolanti. Le dissertazioni letterarie del duca erano infatti avvincenti, e le persone che entravano, magari per chiedere il prezzo di una collanina esposta in vetrina, finivano per restare a lungo ad ascoltare l’appassionante conferenza.
Tanti nel tempo sono stati i clienti che sono entrati per comprare e poi sono diventati amici, e tornavano per avere un colloquio, per raccontare i loro problemi e tentare di risolverli insieme, o per condividere le loro gioie, i loro raggiungimenti. Una delle funzioni dei negozi di quartiere, di qualunque cosa si occupassero, era proprio questa: rappresentavano luoghi di incontri che si trasformavano in vere amicizie, una funzione che poteva essere molto positiva. Oggi ce ne sono sempre meno di questi porti di mare, aperti ad accogliere quelli che da clienti possono trasformarsi in amici sinceri. Vengono sostituiti dai grandi magazzini, dai centri commerciali, dagli “outlet”, dove il rapporto umano è ridotto al minimo indispensabile, dove il tempo è denaro, e si considera perso quello dedicato alle “chiacchiere”.
Marina Sagramora