Schengen: il confine dei limiti

Considerazioni

Schengen il confine dei limiti

Potevo intitolare: “Schengen, il confine dei nostri limiti”, o “Il confine dei limiti di coscienza”, o magari “la coscienza dei limiti”, ma mi accorgo che il nome di Schengen è sufficiente per indirizzare le menti, e forse qualcos’altro, verso i temi che quel nome si porta dietro.

CometaCome senza particolare preavviso una cometa dalle profondità siderali dell’universo appare nel cielo affascinante e minacciosa, il fenomeno tran­sita ora nella fase di piena visibilità; dal solco della scia seguiranno inevitabili conseguenze. Alcune passeran­no sulla terra sorvolandola senza dan­no, altre ricadranno in forma di pioggia meteorica, altre ancora provocheranno guai notevoli, forse irreparabili. A tutto questo si darà poi il nome di “avvenimento epocale” con “danni collaterali”.

Volendolo possiamo trovare denominazioni piú specifiche per gli aspetti connessi e soprattutto per quelli preparatori: trattati iniqui, accordi internazionali surrettizi, pressioni geopolitiche incandescenti, flussi migratori manovrati, accoglienze piú misere dei soccorsi, decisionalità verticistiche trasversali, organizzazioni sul territorio velleitarie e scoordinate; di tutto ciò non desidero parlare perché completamente inutile.

Predicare ai sordi è forse meglio che spiegare ai distratti, ma tentar di suscitare attitudini al beau geste, o al rispetto verso un valore qualsiasi, pure di modesta dimensione , in chi abbia già scelto il sottoterra, e i caveau delle banche, per custodire le proprie sicurezze, è veramente fatica sprecata.

Ma è pur sempre comprensibile: di fronte agli accadimenti è difficile formulare un pensiero chiaro, e il buio non ha mai alimentato il coraggio. Tanto piú il decidere di porre in atto una serie coerente ed efficace di azioni mirate. Sarebbe ottimismo esagerato se i Paesi sostenitori dell’integrazione europea si trovassero allineati e concordi di fronte ai fatti; immaginiamoci come si stanno mettendo le cose dal momento che tali nazioni appaiono invece peggio che indecise; oscillano tra il “vorrei e non vorrei”, vacillano tra “domani forse, ma oggi non si può”; e non si dà risultato che non sia espressione di una politica confusionaria, separatistica, pericolosamente suggestionata dalle piazze e capace solamente di imbrogliare la matassa che sostiene voler dipanare.

Lo scenario ci offre tuttavia la possibilità di chiedere a noi stessi, a meno di non aver già trovato rifugio metaforico nel fatidico: «Io non c’entro; voglio solo vivere in pace», la capacità di inserire l’intero quadro problematico in una visione maggiormente dilatata, molto piú realistica e, alla fine dei conti, piú consona al momento evolutivo, di quella che ci proiettano i filmati e di cui riecheggiano stampa e mezzi d’informazione.

Per evidenziare un minimo risultato, che è poi quello di affrancarsi per prima cosa “da quel che si vocifera in giro”, ho provato a ricorrere a delle analogie. Le analogie sono interessanti, non perché in esse si nascondano le soluzioni, ma piuttosto perché allargando o restringendo, a seconda dei casi, il campo a cui si rivolge l’attenzione, danno la possibilità di ritornare sul problema principale, vedendolo da un’angolatura alla quale prima mancava l’accesso.

Prendo in considerazione tre vedute: una puramente astratta e oggettivamente scientifica; un’altra con valore di esperienza individuale, e quindi tutto sommato rappresentativa; l’ultima riguarda invece un nostro modo di prendere (o di non prendere) posizione di fronte a un fatto unico e ben noto, e vedere in quale senso la sua importanza diviene inversamente proporzionale, possiamo dire lontana dalle nostre necessità quotidiane, rispetto al suo inequivocabile significato, al punto che pensiamo sia meglio riservarla a quegli studiosi che, con, o in, buona fede, vi si applicano, ottenendo risultati diversi, talvolta contradditori.

C’è un infinitamente piccolo e c’è un infinitamente grande. Che vuol dire? Vuol dire che i due concetti di micro e di macro si reggono sul fatto (sottinteso e mai esplicitamente dichiarato) che sono io, nella mia posizione di uomo, corredata da tutti i riferimenti e connotazioni individuali, a fare da spartiacque tra ciò che mi appare grande (maggiore di me) e quel che mi sembra piccolo (minore di me).

La relatività dell’ordine delle grandezze vale anche per l’età (imperituro-caduco), per il vigore (potenza-astenia), per la bellezza (bello-brutto) e, a Dio piacendo, per tutto quanto fa parte di quella realtà che abbiamo imparato a pesare, misurare e classificare.

Coltivare i soldi

Coltivare i soldi

Abbiamo sempre creduto che il sistema delle misurazioni si basasse su una chiara evidente oggettività; invece basta fare alcuni semplici ragionamenti e si capisce subito che il tutto s’in­centra sull’uomo preso come misura di riferimento. Abbiamo codificato leggi matematiche, ma non sono leggi del mondo; sono una nostra comodità di servizio, come lo è la suddivisione del tempo in ore, giorni, mesi ed anni e come altrettanto è per tutti i modi con i quali gestiamo il nostro esistere, all’interno dei confini fissati ex natura.

Ci sfugge sempre l’accorgimento che gran parte delle cose che facciamo non sono vere, o meglio, non hanno una realtà loro, nella quale tuttavia vogliamo supinamente credere, e viceversa ci sono dei limiti oggettivi contro i quali proviamo a combattere per superarli, e pure qui non ci accorgiamo che l’eventualità di un loro superamento non si dà se non all’interno di una realtà rappresentativa che inconsapevolmente gonfiamo sempre piú, e vedendola cosí ‘maggiorata’, riteniamo d’aver abbattuto i limiti che la contenevano.

Tale andamento spiega la bella pensata della “finanza creativa” la quale avanzava l’insana pretesa che i soldi producessero da soli altri soldi; ma dopo le batoste bancarie e borsistiche (stavo per dire borsaiole, e non andavo lontano), la leggenda metropolitana, per alcuni tragedia, si è sgonfiata, ha la­sciato il tempo che aveva trovato, anzi, le rovine procurate, insegnan­do a chi non lo vuol capire che il moto perpetuo (e senza sudori) non è di questo mondo.

Particelle gemelle

Particelle gemelle

Un docente di fisica parlava un giorno del moto di “rotazione” delle particelle, il famoso “spin”, e diceva: «Vedete, supponiamo che da un unico fenomeno nascano due particelle che si allontanano all’infinito; noi ne osserviamo una e vediamo che essa si presenta con lo spin in su (↑); allora possiamo essere sicuri che in quel momento l’altra, la sua gemella, avrà lo spin in giú (↓)».

Al che, un ascoltatore replicò: «Scusi, ma che vuol dire su e giú nel mondo delle particelle? Su e giú rispetto a che?».

La risposta del fisico: «Rispetto allo stru­mento attraverso il quale stiamo osservando».

Dove sta Schengen, in su o in giú?

E l’infinitamente grande si trova a destra o a sinistra?

L’eterno sta sopra e il deperibile sotto? O no?

Come si vede, la povertà dei concetti che adoperiamo per fare la spesa al mercato è del tutto insufficiente a spiegare ciò che sta fuori dal mercato. E sembra sia parecchia roba.

Vado al secondo punto. Avevo in testa un motivetto che mi piaceva, però ogni tanto mi spariva, e per quanto mi sforzassi, non riuscivo a riprodurre in me quella piccola melodia che mi aveva colpito. Riuscivo solo a trarre dei suoni consimili ma del tutto sbagliati, che mi deviavano su altre musiche, sicché m’inalberavo e lasciavo perdere la faccenda.

Tuttavia, in un momento in cui avevo riacchiappato per la coda quel jingle, decisi di scriverci sopra dei versi che potessero stare nella breve partitura, una semplice questione di metrica: non aveva alcuna importanza che le parole fossero quelle del testo originale. Nel caso in esame, la cosa era resa ancora piú semplice, in quanto il motivetto cercato era di pura musica.

Risultato incredibile ! Il ricordo delle parole, anche se fittizie e create apposta, era in grado di richiamarmi in mente la parte sonora che prima era “volatile”; in qualche modo l’espediente delle parole aveva legato il tema melodico, e da quel momento se voglio ricordare il motivetto, mi basta ripetere i due o tre versetti inventati lí per lí.

Anche tra la musica da ricordare e il suo vincolarsi alle parole c’era uno Schengen, un confine, o un limite. Ma assumersi la consapevolezza che quel determinato limite consiste nel “me stesso” che se l’è voluto prefissare, nell’ora dell’incertezza e del dubbio, fa cadere il confine, e con esso anche i dubbi e le incertezze che l’avevano costruito. Mi pare che la storia del Muro di Berlino sia sintomatica.

Sempre restando nel secondo analogismo, c’è da chiedersi come abbiano fatto i nostri avi contadini, che a mala pena sapevano leggere e scrivere, ad essere perfettamente informati di quanto c’era da sapere sulla terra, sui campi, sull’arte del coltivare, seminare, accudire e crescere orti, frutteti e piantagioni; oggi, un biologo, un chimico e un perito agrario potrebbero illustrarci con una certa chiarezza quali siano i fenomeni di natura attivati attraverso il lavoro agrario; ci parlerebbero di atomi, di molecole, di processi di forze connesse con il sottosuolo, con l’aria, l’acqua e la luce solare; e pure cosí, forse, finiremmo per capirne poco.

Coltivazione delle patate

Coltivazione delle patate

Ma il contadino di due o trecento anni fa, come faceva a sapere che rivoltando a vangate le zolle del campo le patate sarebbero cresciute meglio e piú rapidamente?

Tra l’esperienza umana acquisita e le leggi che governano la natura campestre c’è un confine enorme che sembra invalicabile; e invece è stato valicato fin dalla notte dei tempi, dapprima in mo­do rozzo e primitivo, ma poi con una saggezza sempre piú informata ed acuta, da venir considerata una vera e propria scienza.

La fame aguzza l’ingegno; l’abuso delle comodità, dell’agiatezza non riconosciuta, delle libertà e dei diritti sociali e civili di cui nemmeno ci accorgiamo se non quando s’inceppano, no, non aguzzano un bel niente.

Il Trattato di Schengen (ma poteva anche essere quello di Versailles, o di Cateau-Cambrésis, o qualunque accordo tra nazionalismi in armi) è dunque, come le patate, frutto di accorti e sudati rimestamenti di terreno, o è un parto isterico, nato da incapacità menzognere e disattente?

La differenza tra i due sta nel fatto che mentre il secondo non regge l’urto di sopravvenienze difficili e caotiche, e finisce presto a gambe all’aria, il primo continua a mantenere in vita quelli che sono stati ridotti a contarsi le ore.

Gesù e San Giuseppe

Gesù e San Giuseppe

Ma temo che questo intermezzo sull’utilità spicciola si areni, deviandomi dal percorso, che deve e vuole riguardare invece la vita dell’anima, quella parte di noi a cui non bastano le patate (e neanche i trattati) per sentirsi viva.

Affronto adesso il terzo analogismo e devo dire subito che è un bel macigno, sotto il cui peso non si può non vacillare, ma il risultato è sempre ampiamente positivo, sí che la fa­tica vale l’impegno profuso. Senza girarci troppo intorno, poniamoci la seguente do­manda: la realtà storica dell’uomo-Gesú, figlio di Maria e del falegname Giuseppe di Nazareth, e la dimensione cosmica del­l’Entità Cristo, ovvero quel Logos che era nel Principio presso Dio, stanno unite nel­la mia coscienza o sono separate da un qualcosa che ancora non riesco ad afferrare bene?

Il problema è tutto qui. E non è solo un problema di confine, non è una questione di trattati o di accordi, tenuti in piedi con cemento, cartapesta e collanti vari: è piuttosto la svelazione, messa alla fine in piena luce, di una crisi interiore da lungo tempo latente, che non riguarda soltanto il cristianesimo in sé, bensí apre lo sguardo sul motivo che proprio dal modo in cui la cristianità deciderà di vivere quest’ultimo dipenda la possibilità d’una futura evoluzione dell’umano ricalcante la via dello Spirito.

Papa Francesco e Kirill

Papa Francesco e Kirill

Recentemente Papa Francesco, abbracciando Kirill, ha esultato per l’abbattimento degli ostacoli che tenevano la Chiesa Ortodossa discosta dalla Chiesa Romana, e ha affermato che se tale risultato si è verificato, è stato per il lavoro delicato e indefesso di tanti bravi vescovi cui va la sua pontificia gratitudine.

Ma si è trattato di un lavoro tra uomini svolto in un’epoca (questa) che permette, ove non agevoli, l’opportunità di una ricongiunzione confessionale; il mondo è un focolaio di incendi alimentati da venti di guerra che soffiano da ogni parte: compito delle Chiese è dare almeno un segnale di speranza, un accenno alla fraterna composizione dei dissidi. Ripeto, è un’opportunità, non un opportunismo.

Ciò non toglie tuttavia che la coscienza del singolo uomo moderno sia insufficientemente preparata ad accogliere il significato di un Cristo-Logos come invece fu addestrata per secoli ad accogliere il Gesú della Passione e della Croce. Anche il buon cristiano osservante, di fronte a tale argomento, si ritira in buon ordine, quasi spaventato; avverte solo l’eccesso, ignorando la dimensione dell’anima, non riesce a contenere la sconfinata grandiosità che ne costituisce l’unica esclusiva centrale verità, forse in via di smarrimento.

Glorificazione della croce

Glorificazione della croce

È il tempo della Pasqua, il tempo in cui la glorificazione della croce lega solidariamente il destino dell’uomo all’essenza del Dio. Ma come già per l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, l’essenza del Dio rimane nella misteriosa penombra delle credenze e delle liturgie.

L’opera di Rudolf Steiner, la sua determinazione a volerla focalizzata incentrandola nel Mistero del Golgota, quale evento irripetibile della storia dell’uomo, della Terra e dell’universo (assieme a quella di coloro che dopo di lui hanno accolto il suo insegnamento) trova in questa epoca una fase topica del suo cammino; al contempo, mai c’è stato in precedenza un simile bisogno di Spirito per le molte anime assetate di verità, da troppo tempo estraniate alla fonte.

Chi osserva, vede; e capisce chiaramente la non casualità della concomitanza.

La distanza tra la figura di un Cristo Cosmico e quella del Gesú storico non è diversa da quella che intercorre tra chi esercita la fede secondo la dottrina impartitagli (e nulla vieta che la eserciti in modo onorevole) e chi sente in sé la forte, impellente necessità di capire la ragione e l’importanza di questa o di quell’altra fede; l’avverte in modo cosí potente da ritenere che la sua vita non avrebbe piú senso alcuno se non affrontasse i labirinti della conoscenza spirituale, consapevole dei rischi e degli abbagli che, in quanto uomo, potrà e dovrà subire.

Un recinto di filo spinato fra Israele e la Palestina

Un recinto di filo spinato fra Israele e la Palestina

Questa distanza è colmata per ora dal nulla; fat­ta eccezione per muri, sbar­ramenti, paletti, regolamen­ti ricamati con il filo spinato e cartelli monitori. In tut­te le lingue indicano la me­desima cosa: il limite cui abbiamo affidato la tutela dei nostri ignorabimus.

Poco tempo fa ho assistito, del tutto casualmente, ad un evento tenutosi in una libreria del centro di Trieste, dove una poetessa presentava al pubblico la sua ultima opera. S’era intrecciato un dialogo tra lei, protagonista, e alcuni giornalisti di critica letteraria intervenuti per l’occasione.

Non saprei come (il dialogo era già iniziato da un po’) ma nel mezzo del discorso udii la poetessa esprimersi con queste parole: «L’amore? E che c’entra l’amore con la religione? Sono due cose nettamente separate; richiedono disposizioni intime per due settori diversi!».

Uscii dalla libreria contrariato: non che l’intervistata avesse detto qualche corbelleria insostenibile; sono abituato alla dialettica e al suo continuo vorticare costruttivo/demolitivo. So che molte delle cose che si affermano vengono dette per quel solo momento e in quella specifica circostanza. Non pretendono un peso particolare.

Mi disturbava piuttosto il fatto che fosse stata una poetessa, pure brava nel suo genere, a pronunciarle come sentenza scontata. Secondo me uno scrittore può anche permettersi il lusso di mostrarsi superficiale o indelicato, senza per questo far perdere valore ai suoi scritti; ma un poeta no, non lo fa perché non può farlo. Non ne è capace. Almeno cosí credevo.

Lo scritto, mi dicevo, viene dalla testa; la poesia viene dal cuore; e se la testa può fingersi amorevole, il cuore invece no, non gli riesce d’offrirsi diverso da quello che è. Per questo l’in­congruenza non mi andava giú.

Soltanto dopo, nel comporre questo articolo su Schengen e dintorni, credo di aver colto il nocciolo della questione, che tocca tutti, poeti e analfabeti, romantici e grezzi, senza distinzione alcuna; ed è l’essenza della nostra totale impreparazione di fronte ad una richiesta karmica, diretta ad una gran parte dell’umanità; un vero appuntamento del destino all’interno del processo evolutivo. Un po’ come a scuola; quando giunge il momento in cui chi si è preparato (o dovrebbe esserlo) è pronto a sostenere l’esame, arriva la prova; ma questa prova, davanti ad una marea di impreparati, impatta da far paura, e conseguentemente la si legge quale catastrofe.

La Scienza dello Spirito ha collezionato infinite possibilità di recupero per quanti siano rimasti avvinghiati ai loro personali confini e alle regole formulate da quelli che del gioco delle regole hanno fatto un mestiere. Ma grosso modo, per tentare un primissimo ricongiungimento, il meno dialettico possibile, tra amore umano e amore divino, i punti di partenza sono due; dalla testa o dal cuore.

Per la testa, abbiamo un pensiero che viene attratto, mostra degli interessi verso una determinata cosa, la studia, si applica ad essa con volontà, traendone piacere; è molto di piú d’un semplice hobby: diviene parte essenziale della vita di un uomo. Costui, tuttavia, sarà portato a negare la via del cuore in quanto non compresa nella sua esperienza, se non in minima dose.

Per il cuore, d’altro canto, sorge una disponibilità tutta affettiva, una simpatia, una propensione verso un qualche cosa che può essere persona, animale, oggetto, studio, disciplina, attività, o, perché no? anche fede. È evidente che una tale sensibilità colma di devozione sa riempire un’intera vita, ripagandola perfino di amarezze, sacrifici e negazioni. Un tale soggetto sarà quindi indotto a ignorare la via della testa perché a livello iniziale le due strade sono disgiunte e poche anime acquisiscono consapevolezza del fatto che si possa percorrerle entrambe contemporaneamente.

Ma se si pone attenzione a questa ipotesi, non si può non vedere che il duplice percorrimento presuppone comunque un pensare; un pensare voluto e in buona attività, altrimenti non si va lontano. O meglio, non si va da nessuna parte.

Il pensare, che da un canto, permette al fedele di rinnovare continuamente il suo amore per la divinità, o l’idolo o il totem, e dall’altro offre al ricercatore meditativo moderno tutta l’avventura, a volte epica, di accostare la dimensione metafisica, è sempre e solo uno. Anzi, è lo stesso.

La difficoltà di riconoscere la sua traccia è che in ogni attimo d’impiego esso diviene pensiero pensato, si lega a sensazioni e sentimenti, che hanno sí il loro valore, ma puramente contingente, e rivolto sempre e solo al proprio sé, non a ciò che si sarebbe dovuto o voluto cercare oltre se stessi.

Mente e cuoreLa via della testa e la via del cuore non possono che convergere, ma la confluenza non è gratuita: pensare e amare sono le immediate manifestazioni dello Spirito nel­l’essere umano; e l’essere diventa umano, ossia entra nel Mondo spirituale, quando capisce che la vita sulla terra gli è stata concessa per la possibilità di renderle in lui tutt’uno; di attuare l’unificazione che è sem­pre stata, ma che nella dimensione fisico-sensibile si è sdoppiata come gli organi corporei da cui essa dipende ed alla quale sono preposti.

Lo Spirito non conosce confini, limiti o barriere; questi sono semmai gli elementi con i quali l’uomo, per forza di cose, si aiuta nel condurre la propria esistenza dentro un percorso di materialità, dove peso, misura e quantità, specie se pecuniaria, dominano la scena, estraniandolo sempre piú dal vero motivo per il quale il suo Spirito accolse l’idea dell’incarnazione.

Ma se lo strumento, il mezzo viene scambiato per il fine, allora la crisi si aggrava, e ove non sia l’uomo stesso a cercare di risalire dal livello in cui è caduto, allora necessariamente i suoi errori gli vengono incontro sotto forma di imprevisto, i cui connotati possono essere grevi e preoccupanti nella misura in cui la sua situazione interiore sia greve e preoccupante.

Ma lo incontrano per il motivo che nell’affrontarli come esterni a sé, egli impari a tirar fuori di sé quelle forze di vita che credeva d’aver accantonato a risparmio e trasformate in rendita vitalizia.

Se si riesce a formulare questo pensiero e mantenerlo intatto nel consueto disordine interiore, si vedranno molte cose vecchie con occhi nuovi.

Tutti gli Schengen della storia sono ripetizioni di compromessi defatiganti, semplici aggiustamenti con i quali rinviare al futuro le cause condizionanti il loro ripresentarsi:

le ondate invasive di gente disperata che si abbattono sui nostri confini sono un esplicito invito al senso della misericordia cristianamente vissuto; lo stesso che lo Spirito ha per i Suoi figli della Terra; lo stesso con il quale l’uomo Gesú è salito al Calvario;

non le religioni ma il senso della religiosità insito nelle anime è la catechesi dell’Amore Divino; tutti gli altri amori (“anche il piú oscuro e ottuso”, per dirla con Massimo Scaligero) o sono orientati verso la luce oppure non sono;

il vuoto, o la frattura tra l’anima e il cuore, creatosi tra l’Entità Cosmica del Cristo e il Gesú di Nazareth, va riempito; è il compito di questa nostra epoca; è il compito dell’anima cosciente.

Tutto ciò che sta accadendo, accade per ricordarcelo.

Il significato della parola Pasqua, dall’antico etimo, è “Passaggio”; molti studiosi lo attribuiscono al momento dello storico attraversamento del Mar Rosso da parte del popolo ebraico, in fuga dall’Egitto

In senso metafisico attuale, avvedutamente rivisto, possiamo cercare oggi di dare a questo nome un elemento individuale di esperienza vissuta e maturata nell’interiorità: il passaggio dalle forze del cuore a quelle del pensiero, l’unificazione tra ciò che di noi è umano e lo Spirito che ha voluto farsi tale per chiunque sia venuto alla luce in questo mondo.

Anche, e soprattutto, in un mondo come questo.

Non saprei cos’altro dire; mi pare che ci sia tutto e non manchi nulla.

Forse posso aggiungere un paio di righe lette pochi giorni or sono in un quotidiano, e se pur provenienti da una fonte lontana da ogni conoscenza esoterica, il loro contenuto risuona come il rintocco d’una campana a morto: «Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. In questo chiaroscuro nascono i mostri».

La Pasqua sia dunque il fenomeno epigenetico della vita dell’anima; l’immanente si liberi nel trascendente che scende ad accogliere il suo primo involarsi verso l’alto.

La Pasqua del 2016 sia davvero una Pasqua di Resurrezione, il Grande Passaggio offerto all’umanità da Colui che lo percorse per primo sotto il peso della croce.

Che sia la Pasqua dell’uno verso tutti, nessuno escluso.

La Pasqua del Cristo-Logos.

La Pasqua della Luce e della Pace, della reale Fraternità e della vera Misericordia.

Una Pasqua senza muri e senza confini.

E i mostri ritorneranno nelle tenebre.

 

Angelo Lombroni