Caro amico ti scrivo...

Considerazioni

Caro amico ti scrivo...

Il politico…Per due ragioni che mi sembrano ugualmente opportune, direi quasi necessarie. La prima è che tu sei un grande uomo politico, destinato a cose importanti per la vita pubblica del Paese; un uomo che ha davanti a sé un cammino sicuramente difficile ma indelebile per quella che sarà la storia a venire, in cui, sono certo, rimarrà forte e nitida la traccia della tua presenza.

La seconda è che io, non avendo molto da fare, mi diverto a dare consigli, dispensandoli naturalmente in modo del tutto gratuito ma, appunto per questo, posso permettermi la franchezza e l’onestà intellettiva che di norma una segreteria, pur d’altissimo livello e conformata all’aulica bisogna, ricca di conforti cerebrali da parte di fini pensatori, non sa esprimere, vuoi per una forma di eccesso zelotico nei riguardi di chi, come te, è investito (in senso buono) dal potere, vuoi, piú semplicemente per la necessità, forse plebea ma molto umana, di sopravvivenza.

Ho pensato cosí di congiungere le due cose, oggettiva la prima e soggettiva la seconda, perché ho sempre tenuto in evidenza che laddove vi è un Consiglio ci deve stare un “consigliatore”; magari anche solo una voce esterna e lontana, ma in compenso talmente disinteressata da risultare, secondo il calcolo delle probabilità, quasi veritiera.

L’antica saggezza di cui oggigiorno rimangono poche pillole, da sciogliersi sotto la lingua (prima di parlare), come si fa con i granuli omeopatici, offre una visione piuttosto interessante a chi occupandosi dell’esistenza altrui, anzi in questo caso di un’intera nazione, abbia in animo di amministrare la cosa pubblica, salda manu, e sistemare mediante una nuova impostazione tutto ciò che la richiede, e la sta richiedendo da anni se non da secoli.

No, non alludo alla Salerno-Reggio Calabria; infierire non è il mio compito presente; richiamo invece un antico detto, che alcuni esperti attribuiscono a Confucio, anche se, come prova, non vanno piú in là della semplice dichiarazione verbale. Raccontano cosí: «Se vuoi introdurre nel mondo una vera innovazione, sappi che avrai contro: 1) quelli che vogliono attuarla, ma a modo loro; 2) quelli che non la vogliono attuare affatto; 3) buona parte di quelli a cui l’innovazione non interessa un fico secco, ma che non sopportano l’idea che sia tu a farla» (l’inserimento del “fico secco” fa sospettare un rimaneggio tardivo dell’originale, ma non crea interferenze all’insieme).

Mi pare che ci siamo; qui abbiamo la foto di gruppo di un intero arco costituzionale del Parlamento e dei Partiti che vi si sono ammucchiati, i quali, nonostante la promessa implicita nel nome, non sono “partiti” ma sono “restati” e continuano a farlo, in nome di una fraintesa curiosità sperimentale spinta a vedere quale altro danno possano ancora arrecare che non abbiano già fatto.

Posso quindi procedere con i miei consigli con una certa tranquillità. In fondo è tutta roba teorica che ai piú dice poco, ma potrebbe germogliare nella testa, e magari nel cuore, non mettiamo limiti, di chi voglia, in un’epoca come questa, assumersi le responsabilità generali della Patria, in nome e per conto pure degli irresponsabili che da tempo formano una silenziosa maggioranza trasversale, andando dai nullatenenti fino ai nullafacenti; i quali, come si sa, rappresentano il polo opposto della “Realpolitik”.

Non sto qui a dilungarmi; entro subito nel vivo dell’argomento: ti darò dunque qualche spunto di riferimento, che potrai poi allargare e aguzzare a piacere, secondo la tua sensibilità filologica, su tre basilari pilastri necessari all’arduo compito preposto, che sono: la Democrazia, la Costituzione e la Sovranità Popolare di cui all’Art.1 della medesima. Se riuscirai ad assimilare questi fondamentali di peso, ma poco metabolizzati dagli organismi di coltura in cui si dicono cresciuti, forse avremo delle possibilità in piú e magari un giorno i nostri figli e nipoti, studiando la storia nazionale, tireranno un sospiro di sollievo, e partecipare al “Progetto Erasmus”, ovvero all’equivalente di allora, potrà venir vissuto a testa alta.

Una delle cose piú elementari da dire sulla Democrazia, è spiegare l’origine etimologica della parola, e raccontarne le varianti applicative avvenute nel corso dei tempi, nel cambio dei luoghi e situazioni geopolitiche. Cosa noiosissima e completamente inutile su cui si sono sprecate tonnellate di carta e che hanno dato possibilità a molti addetti ai lavori di riunirsi in convegni, simposi e tavole rotonde, scambiandosi tra loro premi, riconoscimenti, tripudi e onorificenze.

Il risultato dell’oneroso maneggio, è lampante: al mondo non c’è stata, e non c’è, alcuna democrazia. Occorrerebbe piuttosto chiedersi: cos’è la Democrazia? A cosa serve la Democrazia? E a chi giova parlarne?

Supponiamo che esista o sia esistita, in qualche tempo e in qualche luogo, una popolazione perfettamente felice, ove ogni membro benefici al massimo grado della comune situazione paradisiaca; ebbene, saresti disposto a credermi se ti dicessi che costoro parlano continuamente di felicità, di antifelicità, di attacchi alla felicità, di felicità “sospesa” o di guasti all’apparato felicitario popolare? Ma è evidente che no! Perché uno dovrebbe crearsi un problema su una realtà che è già sua e condivide serenamente con ogni altro?

Se se ne parla, se se ne discute, se ci si accapiglia, si lotta, si combatte e si muore per una cosa, significa che quella cosa è ancora molto lontana. Ci può essere un orientamento, una tendenza, uno sforzo collettivo, ma allora vale la regola di Confucio, che ognuno voglia e si sforzi a modo suo, e questo nel migliore dei casi.

Vedi, mio caro, qui la teoricità si sposa alla pratica: la filosofia si chiede a qual scopo un fenomeno avvenga, la scienza si chiede in qual modo esso avvenga. Hanno ragione tutt’e due, ma se vogliamo trattare l’argomento “Democrazia” dobbiamo riconoscere che al pari di tante altre splendide idee tipo Libertà, Amore, Lavoro ecc., la parola Democrazia porta già in sé, bene impressa, la sua finalità; non necessita di ulteriori escatologie e teleologismi, dal momento che indica una meta o una prospettiva da raggiungere chiara a tutti.

TriremiMeno chiare sono invece le modalità esecutive, e quindi gli intenti umani che vi si muovono dietro. Vari ostacoli si frappongono all’attuazione di uno stato di democrazia perfetto, e guarda caso tali impedimenti nascono spesso là dove nessuno avrebbe mai pensato potessero nascere, voglio dire tra gli stessi uomini che affermano di volerla e di sostenerla con tutte le loro forze. Lo trovi strano ? Eppure il termine di “opposizione interna” non dovrebbe risultarti del tutto nuovo. È vero che grosso modo l’umanità intera viaggia nella stessa barca, ma tra i vogatori c’è una certa indisciplina che andrebbe risolta dall’origine. Lamentarsi dopo, dicendo che rispetto alla rotta voluta ci siamo scostati di un po’, a volte pure di un bel po’, non giustifica nulla. Evidenzia soltanto l’incapacità del nocchiero.

L’uso del termine “Democrazia”, che nella pratica giornaliera viene adoperato ormai per qualsiasi motivo, anche il piú sconcertante, ci porta l’esempio significativo del “come” siamo de-caduti a un livello in cui piú che guardare all’ideale della libertà, che sarebbe quasi un lusso, le nostre anime debbano fare ogni giorno i conti e scegliersi quale padrone servire. Ce ne sono di molti tipi e stampi: una delle astuzie del molteplice è presentarsi sempre con una vastità di offerte, tutte egualmente letali e pervasive. Siamo letteralmente frastornati dalla democrazia, siamo letteralmente asfissiati dal sentirci dire ogni momento che qui la democrazia non c’è, la democrazia è sospesa, che il governo del paese è antidemocratico e le sue leggi, e/o provvedimenti, non sono mai adeguati allo spirito di democraticità che dovrebbero avere. Ce lo dicono pure! Perché? Ma perché sono democratici! E cosí agendo credono d’esserlo ancor piú. Si sentono talmente democratici che dicono pane al pane e vino al vino, e, per coerenza democratica, lo fanno anche dopo aver adulterato il pane, sofisticato il vino, e inquinato coltivazioni e vigneti.

Il concetto di Democrazia è servito ad incantare l’opinione di coloro che per varie ragioni, alcune davvero misteriose, amano lasciarsi incantare; è servito a illudere i fautori della libertà sociale a immaginarla come una specie di marmellata da spalmare sul biscotto del welfare, una cosa che non costi seri sforzi, perché ci sono loro, i maestri e tutori dei diritti della collettività, a sacrificarsi per tutti e reggere il grave peso del potere.

Perché quel che continua a sfuggire anche all’analisi piú minuziosa è il paradosso che la democrazia è una vera e propria forma di potere; un potere, si dice, riservato al “demo”, ossia a quel popolo che nel corso della storia ha spesso dovuto lottare contro il potere dell’ “uno”, o dei “pochi” per arrivare al “potere di tutti”.

Già una tale concezione non si regge in piedi; che vuol dire il potere di tutti? Hai mai partecipato ad un’assemblea di condominio o ad un direttivo di partito? Il potere di tutti sta a significare il potere di quelli che sono sopravvissuti al massacro. Che altro?

Cercare la democrazia, lottare per la democrazia, convinti che il potere popolare e collettivo, capace di abbattere ogni ostacolo, possa sfociare prima o poi in una situazione di pace stabile e di felice convivenza, equivale a credere che per essere felici tutti assieme bisogna prima annientare la felicità del singolo o di gruppi di singoli. Non viene recepita la verità sulla democrazia teorizzata, non si sospetta che il suo uso propagandato ad arte, smuova popoli e masse verso la contropartita antievolutiva; non filtra nemmeno l’intuizione di venir quotidianamente manipolati, non solo sul piano concettuale, da quanti hanno l’interesse a mantenere incandescente la situazione politica movendola e spostandola a macchia di leopardo sulla scacchiera del mondo.

A poco sono giovate le parole espresse da Rudolf Steiner, quasi cent’anni fa (Dornach 28 ottobre 1917, O.O. N° 177) in merito alla democrazia ed alle “potenze oscure” che l’hanno ridotta ad essere l’efficacissimo strumento d’epoca. La diffusione di questo termine e la sua estensione anche a categorie sociali che fino al secolo scorso non ne facevano uso, è stata voluta, forzata, indotta e orchestrata proprio da coloro che della vera democrazia non saprebbero che farsene ‒ anzi, se ne guarderebbero bene! ‒ ma sbandierando la quale hanno ottenuto il via libera a razziare, indisturbati, nazioni, risorse e mercati.

La devastazione del globo causata dalla corsa al potere, di qualunque provenienza e matrice esso sia, dal capitalismo opprimente, mascherato in volto amico nella finzione di un senso umanitario del tutto inesistente, e dalla vergognosa complicità dei mezzi di comunicazione e d’informazione completamente in balía dei nemici dell’uomo, ha trasformato il termine Democrazia in un orrido sghignazzo verso quanti hanno pensato, e pensano ancora, di esporsi nel tentativo ‒ idealistico quanto si vuole ma completamente anacronistico e irragionevole ‒ di perseguirla, attuarla e darle un assetto definitivo.

La Storia dovrebbe essere la Magna Magistra Vitae: ma questa Democrazia si sta mangiando pure la Storia; col suo comportamento sonnacchioso e acquiescente l’uomo d’oggi fa la guardia a questa mostruosa digestione che si sta compiendo alle sue spalle.

Amico caro, sospetto che avrai a questo punto qualche difficoltà a seguire il corso dei pensieri, ma se vai avanti e proseguirai nei compiti che sostieni aver voluto intraprendere, senza renderti conto di questo retroscena, può essere allora che il teatro debba chiudere prima che la recita sia finita. Sarebbe un grosso peccato, piuttosto duro da gestire perché, ammesso che vi possa essere un’assoluzione, quest’ultima non potrebbe consistere se non nel far macerare le anime degli uomini nel loro errore, e in tale stato di recalcitrante omissività presentar loro il vero conto della presupposta Democrazia.

Se questa è la Democrazia, c’è da chiedersi che mai sarà la Costituzione, che – stando almeno alle intenzioni degli animi buoni ‒ dovrebbe risultare il “vademecum “ istituzionale per eccellenza ai fini di un risultato adeguato a quelle predeterminate intenzioni. Ma qui, col tuo noto acume, non privo di una certa arguzia, dato l’incipit e fatte le debite proiezioni, comincerai a domandarti dove stia la fregatura.

Fai bene; non tanto per l’evidente sfiducia che in questo caso dimostri (del resto di fiducie ne hai incassate parecchie, e quindi alla distanza i conti tornano) ma per la lucidità obiettiva con la quale sarà bene iniziare a riesaminare l’ordinaria visione del mondo e delle cose, cominciando da quelle pubbliche. In questa proiezione retrospettiva, nel senso che fruga dietro le apparenze, la Carta Costituzionale è la prova che i redattori dell’epoca, reduci da una pesantissima sofferenza appena trascorsa, non si fidavano a loro volta di parole astratte, al solito usate da chi canta vittoria e ne sbandiera i bollettini. Tanto piú che il costo di certe vittorie, nell’immediato dopoguerra, fece perdere a molti la voglia di cantare. Hanno quindi voluto mettere in scrittura, nero su bianco, come si dice, i princípi fondamentali dedicati ai futuri amministratori politici, ai quali poter informarsi e far base per mantenere integro e compatto paese e popolo.

Chi è stato boy scout in gioventú deve aver conosciuto il Manuale delle Giovani Marmotte. Ebbene, correggendo il tiro e immettendovi qualche effetto speciale, sul tipo dell’Inno di Mameli, o il “Va’ pensiero…” di verdiana memoria, cosí cari al sentimentalismo patrio, il senso della nostra Charta Magna è tutto lí. Un manuale di sopravvivenza democratica destinato a tempi democraticamente preoccupanti.

Lo so, qui uno può saltar fuori con un: «E allora che scopo c’era a riformare?». Se dovessimo prendere per buono quel pensiero che parifica il riformare al rottamare, dovremmo dar atto che in effetti le rovine di riforme malriuscite somigliano molto ai resti di rottame. Ma non voglio cavillizzare, avevo compreso da tempo che le riforme erano una cosa e le rottamazioni intendevano un’altra, sebbene non tutti abbiano voluto fare un tale distinguo e anzi alcuni hanno speculato sulla sovrapposizione dei due concetti.

Sono convinto che avevi in testa di rendere piú moderna ed efficiente la Costituzione, forse anche piú bella, ma vedi, il fatto estetico qui gioca poco. Ti ricordo un episodio di Montalbano, in cui l’agente Cantarella, vedendo uscire dalla doccia il suo superiore, scatta sull’attenti e lo gratifica con: «Che bella costituzione tenete, Commissà!». Voleva offrire un contributo estetico al comandante istituzionale…

Come in tante altre cose della nostra vita, pubblica o privata, non abbiamo il compito di rendere piú bello e buono quello che c’è, dovremmo semmai lavorare sul brutto e sul cattivo, ma mi rendo conto che in tal caso non basta rimboccarsi le maniche, bisogna anche sprofondare le braccia nell’impasto melmoso e male­odorante che abbiamo fin qui, in svariati modi, evitato di affrontare, anche grazie all’aiuto, consapevole o meno, dei servizi preposti alla pulizia e alla nettezza urbana.

Gli antichi sofisti oggi si ritrovano nei panni di Operatori Ecologici. Con il busillis “Chi ha detto che un addetto al servizio rifiuti non possa rifiutare il servizio?” si creano un bel sofisma di difficile sbocco.

Su questo la Carta Costituente tace, ed io comprendo la tua voglia di metterci mano; abbiamo spesso confermato la sua datazione e quindi, pure nelle sfere di competenza, c’è una vaga tendenza a qualche ritocchino qua e là, con riferimento ovviamente alla seconda parte del Testo.

Una medicina che si assume quotidianamente, dopo un certo numero di anni può o cessare gli effetti voluti, o addirittura agire negativamente sull’organismo sotto cura. Questo mi è stato confermato da una esperta ed anziana capo-infermiera, che un giorno ebbe a soccorrermi in un mio breve malore. Non appena mi fu possibile, girai la domanda ai miei amici medici. Uno di loro, dotato di un orizzonte maggiore, mi spiegò l’arcano in questo modo: «Quando prescrivo un farmaco al paziente e lo avverto che quella terapia avrà un decorso lungo, forse anche irreversibile, devo basarmi su come l’organismo malato mi si presenta in quel determinato momento. Dopo anni di terapia, nulla vieta che la situazione cambi in peggio o in meglio, ma in tutti i casi non è piú quella di prima. Se questo accade ‒ e non può non accadere, perché noi tutti non solo esistiamo come fatto statico, ma siamo anche nella corrente del divenire, per cui tutto il nostro apparato subisce continue modifiche in ogni istante ‒ ci siamo dati un bella omissione. Se non la rileviamo, ci creiamo il problema di credere d’essere ancora oggi quelli di dieci o vent’anni fa».

Capisci ora come va interpretato quel monito infermieristico che al momento lascia un po’ perplessi e a qualcuno fa fare le spallucce, come di fronte a una diceria di bassa lega? Dobbiamo quindi chiederci: quel popolo cui l’Assemblea Costituente del ‘47 rivolse il suo pensiero, è oggi lo stesso popolo di allora?

Messo in questa nuova chiave di lettura l’interrogativo è tanto affascinante quanto sorprendente. Necessita un esperimento, perché viviamo in un’epoca in cui senza la scienza non c’è l’essenza. È un esperimento che compiamo tutti, ogni giorno, ma senza accorgercene, quindi privo tanto di scienza quanto di coscienza, però dobbiamo farlo avendo nel centro dell’anima l’interrogativo di cui sopra.

Facciamo un giretto nel centro città in un’ora di punta, e sforziamoci di pensare come tutto ciò che ora vediamo, sarebbe stato 60, o 50 o anche solo 30 anni prima; noi c’eravamo, no ? Quindi, senza essere Napoleone a Sant’Elena, pure a noi non tarderà il souvenir . Osserviamo bene il comportamento delle persone, l’andamento del traffico cittadino, il mantenimento delle strade, il modo di vestire, di parlare e di gesticolare della gente che passa, l’uso misto degli idiomi, dei beni comuni, l’atteggiamento dei piú giovani, la gradazione e il livello dei rumori, la qualità dell’aria e la fragranza dei bottini straripanti. Questo soltanto per avere un piccolissimo indizio. L’ho fatto personalmente e il risultato è che dopo ho dovuto sedermi su una panchina malconcia e sgangherata, per riprendermi dallo shock.

blade-runnerChi dall’esperienza ordinaria della città d’un tempo, ripiomba in quella odierna, in cui siamo cresciuti e macerati, si ritrova nelle scena iniziale del film “Blade Runner”, con la peggiorazione comparativa che, in quanto spettatore, dal cinema si può comunque uscire.

Quali sarebbero state, a tuo giudizio, gli articoli della Costituzione che avrebbero dovuto essere riscritti o perfezionati per andare incontro alle variazioni, direi alle “mutazioni generazionali”, avvenute nella popolazione in queste neppur troppe decine di anni? Secondo la mia esperienza, minima quanto si vuole ma compiuta sul campo, l’uomo moderno avrebbe bisogno di qualsiasi strumento possa aiutarlo a tirarsi fuori da un’esistenza oramai completamente materializzata. Egli pensa, ama, gioisce e soffre con un’interiorità neuro-senziente devastata dalla materia; se e quando vuole, non sa volere altro che trovare nuovi legami e vincoli che lo incatenino alla realtà in cui è caduto, dalla quale non vuole rialzarsi, e per il mantenimento della quale teme ogni potenziale prospettiva di cambiamento. È un ipocondrismo a rovescio: non piú l’uomo sano che s’immagina ammalato, bensí è l’uomo ammalato che vuol pretendersi sano, vigoroso e libero artefice del proprio destino.

Per ristabilire il giusto equilibrio evolutivo, tre vie possono ancora fornirgli qualche possibilità di ripresa: la cultura, non come nozionismo ma come conoscenza del mondo; l’arte come svelazione fatta a se stesso della propria piú intima struttura biografica; e la capacità di relazionare mente e cuore chiedendo loro d’incontrarsi, di congiungersi, e non vivere separatamente l’istanza, quasi sempre contrapposta, delle loro esigenze.

Possa un tale pensiero accompagnarti nell’avventura d’un eventuale futuro, dato che per il presente non hai saputo fare nulla di meglio che proporre un progetto molto discutibile, difficilmente realizzabile e, diciamocelo francamente, redatto un po’ alla garibaldina, senza tener conto degli ostacoli applicativi che tale riforma avrebbe sicuramente incontrato impattando la realtà del territorio e degli enti coinvolti.

L’innovazione c’era; di questo posso darti atto; l’opposizione politica e referendaria però non l’avrebbe voluta neppure se fosse stata compilata dal migliore statista esistente al mondo (sempre che ce ne sia uno).

Ho conservato la ghiotta argomentazione relativa alla Sovranità Popolare per ultima, in quanto mi pareva un dulcis in fundo irrinunciabile a completamento di questo memorandum, piccolo, privo di alte intuizioni cortigiane, ma in compenso largheggiante di comprensione, condita da un rimasuglio di senso civico.

Se tu avessi avuto tendenze davvero innovative, avresti potuto scatenarle sull’incipit della Carta. Non occorreva toccar altro: bastava illustrare meglio che cosa debba intendersi con la frase, un pochino sibillina: «La sovranità appartiene al popolo che la esercita…ecc.» (Art.1).

Lo so, lo so; non era tua intenzione modificare i fondamenti della prima parte, ma bastava tentare di illustrare meglio quello su descritto, e null’altro ti sarebbe occorso per insufflare un respiro di validità al tuo riformismo. Qui finalmente troviamo una perfetta adesione tra teoria e realtà; perché vedi, non serve assolutamente ricordare ai cittadini di questo paese d’essere dei “sovrani”; l’ego si sente già tale dalla notte dei tempi. Ognuno vuole, cerca e trova un potere; perfino il mendicante sa scegliersi con cura i luoghi in cui elemosinare (in genere i sagrati delle chiese alla fine delle messe). Anche l’ultimo arrivato dei “vu’ cumprà” lotta con tenacia per la migliore posizione in qualche centro commerciale, o all’uscita dei supermercati; in estate i venditori di gadget, teli da bagno e “cocco-bello” perlustrano il periplo dei lidi balneari, e altri extracomunitari, tecnicamente preparati, si disputano con fiera animosità l’ambíto incrocio stradale dal semaforo rosso duraturo, per mungere la sfilza di malcapitati automobilisti sottoposti alle loro crude esigenze.

Il re di denariTutti sono in qualche modo “Re”, da Muhammad Alí a Emanuele Filiberto; da Nat “King” Cole a Joe Bastianich. Abbiamo il Re dei Tarocchi, il Re di Danari, il Re delle Banane; ci sono i Re dell’Edilizia e del Volteggio con lo Skateboard; i Re della Moda, della Ceramica e dei Babà al Rhum; della Porchetta Artigianale e dell’Haute Hairstyle; sul Lungomare di questa mia città c’è pure il baracchino del “Re della Frittura del Golfo”. Non c’è soluzione di continuità araldica: dal capoufficio al caporeparto, dall’ispettore al sovraintendente, siamo tutti sovrani. A volte illuminati, a volte dispotici ma sempre nevrotici, ben intenzionati a vender cara la pelle fin dalla prima comparsa all’orizzonte di un eventuale concorrente, aspirante, emulo o rivale.

Per il posto di re, sia un trono d’oro massiccio sia una cassetta di verdure rivestita di carta stagnola, l’ego vive, lotta e muore. Adopera ogni sistema lecito, illecito, folle, machiavellico e fantascientifico; se non ne trova uno di suo gradimento, se lo inventa lí per lí. Gli accadimenti di un recente passato nelle municipalità capitolina e milanese avevano attratto centinaia di papabili candidati desiderosi della seggiola di “Primo Cittadino”. Oggi, le “guerre di successione al trono” scoppiano ancor prima della tumulazione dei Re.

La “sovranità che appartiene al popolo” ricorda l’addestramento di certi cagnolini da circo equestre (in genere dei bastardini): per mantenerli ritti sulle zampette posteriori l’allenatore tiene sospeso sopra il loro muso un osso, un pezzetto di carne o un biscotto, e le povere bestiole imparano cosí a compiere quei balletti che strappano poi risate e applausi a grandi e piccini durante le esibizioni.

Non credi che il voler continuare ad attribuire la sovranità della nazione ai cittadini del terzo millennio, che si son visti in questi anni infrangere uno dopo l’altro tutti i loro sogni di gloria con relativi castelli in aria, possa essere considerato una deludente e insulsa presa per i fondelli?

Non serve risposta. Permettimi invece di offrirti il mio punto di vista (altrimenti che “consigliatore” sarei?). Ti dico subito che è una visione piuttosto personale ma forse non del tutto inutile, specie se servirà a farti riflettere un po’ piú approfonditamente del solito.

Il problema d’una eventuale sovranità spettante all’uomo risale a tempi antichi, quando i sovrani oltre che cingersi con scettro, corona e manto, erano distinguibili anche per altre particolarità. Ma i tempi cambiano, a volte velocemente a volte meno, e si giunse ad un tempo in cui l’elemento spirituale non era piú compatibile con il tratto evolutivo imboccato dall’umanità.

Fu allora che il Governatore designato di Galilea, interrogò l’Uomo, che rappresentava l’intero assieme di tutti gli uomini, e gli chiese, con il tono che soltanto il Potere è capace di usare quando crede di essere assoluto, di quale Regno mai Costui fosse il Re. Conosciamo bene la risposta: «Il mio regno non è di questo mondo».

Se confiniamo l’episodio dentro il significato generale di “regno”, non ne veniamo a capo; ma se prendiamo per buona l’interpretazione data da padre Carmignac e sostituiamo la parola regno con la parola “regalità” (o “sovranità”) allora avremo per risultato una frase diversa: «La mia regalità non mi viene da questo mondo».

Perché ci fu un tempo, ed era proprio quello, in cui chi pensava, sentiva e voleva in modo regale, usava parole, atteggiamenti e compiva azioni regali, era considerato dal popolo un Re. Ma, ripeto, le sue erano veramente parole di Re, e le sue gesta erano inconfondibilmente quelle di un Re.

E quel che un Re poteva fare, in mezzo ai tanti che non lo erano piú, perché avevano da tempo cessato di sapere d’esserlo, era incredibile: sappiamo che le mani di un vero Re sono mani di guaritore.

Cosí Gesú, divenuto il Cristo, offrí all’uomo la possibilità di sentirsi nuovamente un Re, in una nuova luminosa consapevolezza; d’essere Re in un mondo che da lui attendeva solo la regalità, quella specifica dello Spirito, che nessuna natura umana e terrena avrebbe mai potuto concedere, ma che l’anima dell’uomo, di qualsiasi uomo, correttamente orientata, sa esprimere.

Questo fu il Patto tra il Divino e il Terrestre, ed è anche Mistero dell’Amore sceso nell’umano affinché questi possa rivestirsi di quella luce che lo fa apparire Re allo sguardo timoroso e riverente di chi ancora non ha cominciato a scrivere la propria biografia; di chi ha versato, per un tempo infinitamente lungo, sangue e sudore senza poter mai leggere nemmeno una parola di quel che scorrendo dal suo corpo era stato scritto nel corpo della terra.

Ma si sa; democrazia su o democrazia giú, l’uomo è libero tanto di accogliere queste verità quanto di respingerle, tacciandole di follia allucinata e perversa e odiandole con tutte le forze che crede di possedere; mentre in realtà, possiede un’unica cosa: la possibilità di amare sempre di piú e sempre meglio tutto ciò che lo circonda, nel rispetto e nella comprensione delle leggi che animano il creato e le creature.

Cosa questa che, ovviamente, non sfiora nemmeno l’ultimo dei suoi abituali pensieri.

Ogni tanto, specie nei momenti di crisi, può tentare di raccogliere i princípi e le leggi che, a sua insaputa, gli parlano dell’amore universale, in codici, testi unici e documenti ispirativi, credendo poterne fare buona scorta per i tempi bui.

Ma stretto in circostanze simili, l’amore si comporterà come i governi che tu hai conosciuto: non reggerà nel tempo, non si effonderà nel territorio, non promuoverà la vita; e tanto meno quella politica, che, come forse ricorderai, dovrebbe rappresentare la piú alta forma d’amore fra gli esseri umani.

Questi sono i miei consigli. Se vorrai accoglierli potrai farne buon uso e ottenere qualche risultato per future iniziative. Se invece non ti interessano, allora è meglio che tu li dimentichi quanto prima, perché avrai molto da lavorare per ricostruirti come personaggio credibile.

 

Angelo Lombroni