Momenti

Considerazioni

Momenti

È un momento qualunque di un giorno qualunque. Inoltre, come non bastasse, credo di star male. Almeno mi pare. Forse farei meglio dire d’essere in una di quelle situazioni in cui uno dovrebbe star male o, altrimenti, proprio stringendo all’osso, dovrebbe sentirsi poco bene. È la stessa cosa, ma la prospettiva lievemente modificata può concedere un’alternativa significante, che poi non è detto sia migliore, ma tanto vale.

Sí, rileggendo quanto scritto devo ammettere di star male; ma so anche il perché, ed è già qualcosa. Nel­l’accingermi a spiegare la sintomatologia, comprendo la difficoltà di venir capito in modo completo, ma non posso indugiare ulteriormente, sobbarcandomi, oltre al guaio in corso, anche l’afflizione del non essermi saputo raccontare quando ancora in grado di farlo. Cosí vorrei poter credere e sono quasi certo che è per questo che ci credo.

Guardare la tvDunque, tutto ha inizio con uno spot televisivo; un semplicissimo spot, uguale a tanti altri, di quelli che si seguono a palpebre semi­chiuse, bocca semiaperta e con la coscienza che, indossato il pigiama, se ne è andata a dormire da tempo, lasciandomi solo e abbandonato tra i cuscini del divanone domestico, in complice semioscurità, attenuata dalla fatua luminescenza del “mostruositor”, o scher­mo tv per i piú precisini.

Sono i momenti in cui la via di reintegrazione verso i mondi dello Spirito si riduce a un ricordo asfittico pressoché incomprensibile, simile a una storia per adulti ascoltata con orecchi di ragazzino; per cui capisci che, in effetti, c’è qualcosa di fondo che potrebbe eventualmente avere un valore, ma non capisci cosa, né sai perché attorno ad essa si crei un’intesa ammiccante e compiaciuta. Allora, per non svelare la propria inadeguatezza alle regíe d’avanguardia, sfoderi anche tu uno di quei sorrisini alla “cosí mi voglio mostrare”, sentendoti peggio di prima.

Niente paura; sono i danni collaterali degli spot pubblicitari; ogni slogan è una mazzata sulla testa, e piú sono ripetitivi e insistenti, piú la testa comincia a sfasciarsi, affrettando il principio entropico caro ai disfattisti e difficile da rintuzzare senza commettere ulteriori danni. Come nei castelli multipiano, fatti con le carte da gioco: se ne togli una dalla base, vien giú tutto.

Gli Autori (una mutazione in chiave ipertecnologica degli Ostacolatori) hanno studiato un tormentone pubblicitario su una particolare crema di bellezza per vecchie signore. Sarebbe già un fatto esilarante di per sé, ma, noblesse oblige, non si rileva la contraddizione, ci si sciroppa lo spot con un atteggiamento di seria attenzione, simile a quello che assumono le Autorità invitate ai convegni pubblici, prima dell’intervento sul palco. Stanno seduti in prima fila, onorabilmente presi dall’elevatezza dell’incarico, il volto atteggiato in compunto transfert eginetico, ripassando il discorsino preparato loro da qualche sconosciuto viceapplicato aggiunto del palazzone, sperando di non impappinarsi nei passaggi piú ardui, che l’ignoto delinquente (per scusarsi? per far carriera? al soldo di fazioni avversarie?) s’è preso la briga di porre in rilievo con l’evi­denziatore arancione.

Acqua micellareNei 45 secondi di pubblicità la prima parte se ne va in cachinni d’uso; quando tutto sembra concluso, e la mia larva di telespettatore comincia già ad agognare lo spot successivo (qualunque esso sia) ecco che una donna con voce d’istitutrice teutonica, infilza “quel-che-resta-di-me” con la punta crudele di un interrogativo che il buon Umberto Eco non esiterebbe a definire ermeneutico. La domanda irrompe e dilaga: «E per detergere?». Senza nemmeno lasciarmi il tempo di rifletterci sopra, come avrei voluto tanto per rabbonire i carnefici, la medesima valchiria sbotta la risposta, abbaiando secco l’ordine: «Acqua Micellare Pirimpipí»! seguito da una buona dozzina di punti escla­mativi. Ma in tempi di ristrettezza, ce ne metto uno solo. Orbene tutto ciò era un fatto assodato; io mi mettevo lí, buono buono, sul divanone, mi tru­gugliavo ore e ore di malware cibernetico contaminato da RAI/Mediaset (Entità rivali, ma d’accordo tra loro sulla corsa ai dominions) e infine, prima o poi, ma in genere molto poi, arrivava lo spot che attendevo con appannata fedeltà, simile al cane di Ulisse che guardava il mare dormendo con un occhio solo, e che mi avrebbe per l’ennesima volta svelato con quale maledettissima acqua avrei potuto finalmente detergermi, nella deprecata ipotesi che la dementia precox, coadiuvata da un reiterato sfrucugliamento di scatole, avesse avuto la meglio su di me.

Ma una terribile sera accadde che lo spot fosse mandato in onda monco; avevano tolto la domanda/risposta dell’acqua micellare Pirimpipí, ed io ero rimasto lí come un cretino, con il fiammifero acceso in mano, senza saper piú con cosa detergermi, sempre ammesso e non concesso che ecc…

Un amico avvocato mi disse che, secondo lui, si profilava il caso di “circo-involuzione amorfica di seduzione telematica d’incapace”; c’era materia per citare in giudizio l’emittente, lo studio pubblicitario, l’industria cosmetica e anche molti altri enti che ora non ricordo, ma credo c’entrassero pure gli Emirati Arabi in quota di partecipazione. Avrei però dovuto illustrare in modo convincente lo stato psichico cui m’ero ridotto, e ciò mi seccava non poco. Preferivo stendere i panni sporchi in famiglia; prima o poi li avrei lavati. Perciò rinunciai all’azione, anche se, in cuor mio, l’idea che il mondo delle telecomunicazioni avrebbe ignorato per sempre il pericolo scampato, continuava ad opprimermi quasi quanto la sottrazione coatta dell’ineffabile eau de toilette.

Per tutto questo io soffro. Ed è per questo che io, ora, cambio registro. È un momento qualunque di un giorno qualunque. Ma alle 23,15 p.m. decido di fare l’esercizio della concentrazione. A partire da adesso, non è piú un momento qualunque di un giorno qualunque. Anzi. È un momento speciale di un giorno particolare.

matitaDecido di prendere come oggetto base del mio esercizio una matita. Quale matita? Di che tipo? Ce ne sono di tutte le forme e di tutti i colori. Io voglio concentrarmi su un particolare tipo di matita; deve essere quella che voglio io e null’altro. Quindi scelgo. Penso a una matita che in realtà è una matitina, semplice e modesta, se cosí si può dire, nel suo genere. Una matita piccola, non piú lunga di 12 centimetri, con un diametro di base di 8 millimetri; è di pianta rotonda e questo la differenzia subito dalle altre matite aventi quasi tutte base poligonale. Questa invece è tonda, ed in piú è fatta di puro legno dolce; pertanto è di un colore piuttosto neutro, stinto, tipico del legno naturale levigato. Diciamo che la tinta è di un noce chiaro con una puntina di rosato, quasi color tortora opaco. Naturalmente, se la si osserva alle estremità si vede il bastoncino di grafite interno, di colore ovviamente scuro, non piú largo di 2 millimetri. Si presenta, alla base, come dischetto centrale del corpo legnoso, mentre dall’altra emerge come punta per 3-4 millimetri, a forma di cono, in concomitanza con la parte del lapis assottigliata anch’essa a cono per sostenere e presentare la punta di grafite. Tale parte non è piú lunga di 2 centimetri. In essa e con essa si esplica la funzione grafica voluta e resasi condizione necessaria all’ideazione e alla costruzione della matita.

Dato il particolare formato, nonché colore, posso dirmi che tale matita fa parte dei cosiddetti prodotti di cancelleria “ecologici”, ovvero costruiti esclusivamente con sostanze naturali, privi di trattamenti chimici e rivestimenti con pellicole di vernice, con i quali normalmente vengono prodotte le matite. Hanno ovviamente una minore attrattiva commerciale rispetto alle altre, ma l’esiguità del costo e l’attinenza alle moderne esigenze ambientalistiche e di consumismo mirato, le rendono appetibili specialmente in occasione di manifestazioni e/o convegni, dove non di rado vengono distribuite in omaggio ai partecipanti.

Il loro essere oggetto diretto di fonti naturali, o quanto meno l’aver subito un trattamento ridotto delle sostanze usate, si nota ancor piú se mi pongo l’oggetto vicino al naso e lo fiuto lievemente. Traspare un certo odore di legno dolce, che sembra quasi profumato; accostando poi la punta, avverto qui l’odore amarognolo della grafite fare da pendant all’altro. Ciò fa parte di un mio ricordo ripescato in occasione dell’esercizio e dal lavorío dei pensieri chiamati in causa.

La modestia delle dimensioni, la naturalezza dell’oggetto e il suo semplice presentarsi pronto alla funzione, potrebbero convincermi a smuovere anche dei sentimenti di simpatia nei suoi confronti; nulla di piú sbagliato. Nella concentrazione, le mie simpatie e antipatie devono starsene fuori e alla larga.

La concentrazione è un atto della libertà; è un’azione della mia volontà cosciente in quanto volontà pensante; essa nasce dall’autocoscienza e non la legherò mai e poi mai alle categorie della mia personalità, del mio carattere e della mia psicologia.

Ove questo accadesse, la concentrazione finirebbe lí.

Ad un certo punto di questo percorso pensante mi accorgo di essere entrato in una fase nuova: l’oggetto prescelto (la matita), il suo ricordo e la sua immagine mentale scompaiono; spariscono in quanto non sono piú necessarie a richiamare quel pensiero che ora può proseguire a pensare l’elemento-oggetto senza però aver bisogno di supporti immaginativi.

La fase dialettico-discorsiva con la quale avevo realizzato la promenade mentale si è esaurita da sola, in quanto la coscienza si è convinta di aver saputo tirare fuori dal mio ambito interiore tutti i pensieri che potevano essere in ragionevole rapporto con l’oggetto dell’esercizio; se ne accorge perché capisce che se volesse dire qualche altra cosa sull’oggetto, dovrebbe, per forza di cose, ripetere parti già dette in precedenza e quindi completamente inutili alla finalità voluta.

Per cui, posso trovarmi nella non abituale situazione di continuare ad avere l’oggetto sotto il controllo dell’attenzione, senza che esso espliciti ulteriormente le sue caratteristiche percettive, che prima invece sono state indispensabili alla composizione e al mantenimento della parte immaginativa.

È un po’ come avviene con il varo di una nave; ad un certo punto vengono tolti i puntelli “terrestri” e la nave scivola dolcemente nell’elemento acqueo che l’aspetta. Cosí il pensiero di quel che fu l’oggetto prosegue ora il suo cammino, al di fuori del mio mondo sensibile che, per quanto interiore, avevo allestito come cantiere di lavoro, e si mette a navigare in una nuova dimensione, la miglior confacenza la cui struttura viene avvertita in modo non dissimile dal passare improvvisamente da uno spazio angusto a una vastità senza limiti, la cui accoglienza armoniosa pare sottintendere un’immensità da scoprire.

Sarebbe inutile e dannoso proseguire in questa descrizione; ciò che può avvenire dopo, ciascuno sperimentatore lo vive individualmente e non c’è nessun motivo valido per fare commenti o paragoni. Ho voluto soltanto illustrare quelle che io chiamo le prime due fasi dell’esercizio della concentrazione, per poter costruire un contrappeso all’esperienza letale, drammatica e vergognosa di me-telespettatore, vinto dai mostri info-tele-genetici.

Naturalmente nella prefazione ho esagerato in modo istrionesco la condizione di asservimento agli influssi dei pixel e alla miseria dei loro contenuti, sia pubblicitari che di palinsesto. Ma non sono andato troppo lontano dalla situazione, in cui io, e con me molti, siamo sprofondati alla grande, scambiando per vita quella che da un punto di vista strettamente spirituale è invece un’agonia.

Mettere a confronto due posizioni opposte e antitetiche come queste, non ha senso; si rivelano da sole per quel che sono e quel che rappresentano. Ma ho voluto metterci mano ugualmente perché ritengo sia sempre troppo scarsa l’evidenza che bisognerebbe tenere ben presente, specie in quegli attimi in cui siamo ancora consapevoli di star perdendo lo stato di veglia interiore, per quel che è possibile averne in questa epoca, e di smarrirci nel mare dell’esistenza.

Anzitutto, mi pare opportuno e doveroso rilevare una cosa: noi parliamo spesso di libertà, di amore e di conoscenza; ce ne riempiamo la bocca e qualcuno, come il sottoscritto, ne imbratta carte su carte. Non è un male, ma con l’esercizio della concentrazione ci si affranca subito da una leggenda metropolitana: l’amore, la libertà e la conoscenza di cui rendiamo aulici i nostri discorsi, o le nostre parole se ci limitiamo al dialogo interiore, sono lontani piú di quanto si possa immaginare da quel che in verità lo sia l’essenza dei corrispondenti concetti.

Ed è proprio per questo che ne parliamo; proprio per questo le nostre indagini culturali e filosofiche vi si affaticano cosí tanto, da riuscire magari a redigere qualche testo “illuminato”, che diventa subito un bestseller per i cultori del momento, e torna anche subito nell’oscurità dell’oblio dopo la trascorsa enfasi.

Abbiamo bisogno di libertà, di amore e di conoscenza. Ne abbiamo una fame atavica, nervosa, quasi isterica, e continuiamo a comportarci come se il pensiero di cui attualmente disponiamo (quello che non conosce ancora l’esercizio della concentrazione, tanto per capirci) prima o poi ce li farà trovare davanti, come esaltanti prodotti della tecnica moderna, per l’ennesima satisfaction del fruitore finale.

Non ci si avvede che l’elevatura dell’attuale processo pensante medio, non è neppure in grado di afferrare la follia di questa pretesa; solo anime materializzate di brutto possono essere indotte a sostenerla e alimentarla.

La concentrazione è la prima, semplice, sicura, efficace terapia per oltrepassare il trattamento subíto dalla sottomissione a pratiche mondane e stregonesche, scorpacciate pubblicitario-televisive incluse, e accedere a una zona di piú vasto e sano respiro, ove, almeno, all’intossicato si palesa chiaro ed evidente il suo stato di coma, e di conseguenza l’urgente, estremo bisogno di un’impennata di coscienza, onde prendere in mano il bandolo perduto della matassa.

Questa analisi è fatta col senno di poi, quindi è tardiva. Ma se ci viene concesso lo spazio e il tempo sufficienti ciò significa che possiamo ancora tornare utili a noi stessi, e adoperare l’unica via rimasta per il recupero di tutto ciò che nel corso degli anni abbiamo sciupato, corrotto e smarrito. Abbiamo parlato di libertà, di amore e di conoscenza; saremmo incompleti se non mettessimo in evidenza il fatto che, nello stato d’abban­dono, la nostra anima viaggia in direzione opposta: operiamo al servaggio, all’odio e all’ignoranza.

Mappa del tesoroPerché uno dei temi maggiormente invocati e discussi è quello della libertà? Esso può venir affrontato e vissuto in modi diversi, ma la conclusione che se ne trae resta una per tutti: la nostra testa e la nostra anima sono piene della parola “libertà” proprio perché non possediamo quel che con tale parola crediamo di esprimere e significare. Vorremmo possederlo, probabilmente – dico io con una punta di cattiveria – per poi sciuparlo e perderlo come molte altre cose agognate. Ma a questo continuo desiderio di possesso si oppone, con altrettanta tenacia, l’illusione di poter conquistare la libertà all’interno del­l’esistenza fisica, come un tesoro da rintracciare seguendo le indicazioni criptate di una mappa antica.

Si continua a non comprendere che l’esistenza fisica, in quanto concetto, è stata da noi accolta, al tempo in cui le anime non erano ancora ricoperte di corporeità, proprio per incontrare e sperimentare lo stato di non-libertà che la caduta nel fisico avrebbe inevitabilmente comportato; e da questa esperienza, direi traumatica, vedere poi in quale misura sarà possibile per l’anima incarnata, ritrovare le forze spirituali originarie, oltre e malgrado quelle necessariamente impiegate nell’oceano delle umane vicissitudini. Ogni altra forma di ricerca della libertà, con slogan, rullio di tamburi, sventolio di bandiere, contese, dissidi e spargimenti di sangue, teatrini di martiri e monumenti ai caduti, a null’altro porta se non al contrario di ciò che credevamo di fare.

Risultato: non occorre aggiungere altro per apprendere che il travisamento di quel senso di libertà che abbiamo invocato dall’Età della Pietra ad oggi, è causa e contemporaneamente effetto di odio e di ignoranza. L’aver ignorato fin qui l’idea della libertà, scambiandola ora per il problema del Libero Arbitrio, ora per un valore da mercificare, ora per una tesi da dibattere accademicamente, è stata un’omissione, tragicamente compiuta. Dal Vaso di Pandora scoperchiato sono discese le forme di odio, di avversione e di antipatia, di cui le news quotidiane riecheggiano da ogni angolo del pianeta. Ignorandole, trascurandole, tappandoci le orecchie, continuiamo imperterriti a disconoscere in esse l’impronta del nostro DNA, che ci accusa e ce ne addebita la pesante corresponsabilità.

Un popolo di corrotti, a livello politico può esprimere solo una classe di amministratori corrotti; non necessita essere maghi d’introspezione o politologi di particolare ingegno per capirlo. Una collettività di invasati da un materialismo talmente spinto e codificato da divenire spesso l’unico surrogato in fatto di educazione, cultura, socialità, e in taluni casi perfino di religiosità, non può esprimere altro che una civiltà ammalata, artefatta e menzognera. Pure questo è facile da capire, anche se è amarissimo il doverlo ammettere. Difficile è invece valutare da dove e fino a qual punto abbiamo lasciato crescere in noi il germe di questo corrompimento, e come, a volte senza rilevata intenzione, l’abbiamo diffuso e propagato ai quattro venti, contagiando tutto ciò che ci capitava a tiro.

Per cui, sperando in un futuro ancora fattibile se non clemente, bisogna fermare le macchine e invertire la rotta. Non occorre abbandonare quel “nostro” mondo dei sensi e delle sensazioni che ci ha fin qui galvanizzati asservendoci al burattinismo delle emozioni facili e plateali; basterà rammentare l’esistenza di quell’altro “nostro” mondo, quello dello Spirito, da cui ha avuto origine ogni essenza/esistenza e che di continuo vive e muore in ogni nostro pensiero, per accordare alla Sua virtú il preoccupante eclettismo della nostra recalcitrante anima.

ConcentrazioneIl diapason di un simile rammentare è dato, nell’attuale presente, dall’esercizio della concentrazione. Perché qualsiasi sia il tipo di svincolamento richiesto a noi stessi per risorgere alla vita dello Spirito, esso non può che iniziare dal pensiero. È l’impresa cui, avvalendoci di infiniti sotterfugi, uno piú retorico e dialettico dell’altro, cerchiamo di sfuggire.

Eppure, se affrancato anche solo di poco dal giogo sensibile, il pensiero può realizzare la propria natura e conferire all’anima la memoria perduta del suo passato universale; è una fase di enorme importanza e di grande delicatezza, perché ogni pensiero liberato può venir riacciuffato da influenze fisico-sensibili, le quali vorrebbero cosí riconquistare il terreno perduto e perpetrare il loro dominio.

In tale situazione l’uomo è chiamato a decidere se riprendere la marcia verso la redenzione della propria anima, oppure ripiombare nel baratro incosciente del degrado. Non è un fatto moralistico su cui dissertare. È un elemento della decisione, ed è individuale, talmente individuale che di piú non si può. Spetta esclusivamente a me. Da questa decisione dipende la sorte non soltanto degli altri uomini, ma della terra e dell’universo stesso al quale essa appartiene. Avrò esagerato?

Posso verificare subito. Se lascio la situazione come sta, letteralmente in balía del mondo e delle forze telluriche, dominata e corrotta da una visione incredibilmente stupida e riduttiva della vita, desertificata da ogni potenzialità vivificatrice insita nel pensare, e quindi annientatrice di quelle che dovrebbero essere le prerogative basali dell’anima e della coscienza umane, sfocianti in un volere e in un sentire adeguati e soccorritori, tutto proseguirà come fin qui raccontato dagli avvoltoi e dagli sciacalli delle radiocronache, dei tele-notiziari, nonché della stampa sguazzante. Se inizio a svolgere con costanza, frequenza e assiduità l’eser­cizio della concentrazione, e magari anche gli altri esercizi fondamentali indicati dalla Scienza dello Spirito, inizierò un movimento che pur nel suo minuscolo andrà tutto controcorrente.

L’intento di oppormi con fermezza e decisione all’andazzo generale, mi farà bene e comincerà a caricarmi di nuove energie, forse prima mai conosciute, o conosciute solo in particolari attimi subito riassorbiti nelle penombre della mediocrità. La nuova situazione interiore darà impulso anche a qualche azione esterna, almeno nei settori della vita quotidiana in cui sono solito muovermi. Verrà notata da parenti, amici e colleghi che, incuriositi dal mio cambiamento, se ne interesseranno e vorranno saper il come e il perché dell’ac­caduto. A qualcuno di costoro, secondo caso e misura, potrò rispondere, cominciare a parlare di quel che vera­mente è diventato per me importante, essenziale. Magari indicargli un libro da leggere.

In fondo non è sempre stato fatto cosí? Solo che forse non è stato fatto bene, non è stato fatto con cura, con perseveranza, ovvero senza quella dose di modestia, di riservatezza, di spontaneità e di competenza che, mancando da una parte o dall’altra, non ha sorretto in modo adeguato la contingenza del momento.

L’esercizio della concentrazione, l’unica soglia per accedere alla realtà umana e spirituale di se stessi, non chiede proselitismo, propaganda o indottrinamenti. Deve svolgersi nel silenzio interiore. Se da questo trasparirà poi qualcosa e qualcuno ne resterà interessato, nascerà un contatto.

Nel mondo subatomico delle particelle, gli scambi, i rapporti, le collusioni e le inferenze sono all’ordine del giorno (anzi, analisti esperti affermano che a quei livelli lo scambio d’informazioni potrebbe navigare a una velocità superiore addirittura a quella della luce) cosí, forse per una ragione se non maggiore almeno migliore, i contatti fra le anime incarnate, svolgendosi al di là dei limiti spaziotemporali, sono proliferi all’ennesima potenza.

Nulla di strano quindi che, data una certa qualità del lavoro svolto, non si possa raggiungere un numero critico, composto da esseri viventi, i quali abbiano scelto d’intraprendere questa progressione metodologica, non perché affascinati o ridestati, non perché compiaciuti o inebriati, non perché sollecitati da idealismi o pervasi da misticismi sognanti, ma per il semplicissimo fatto che è la via piú giusta per uscire dall’inferno esistenziale che ci siamo creati e ci stiamo creando giorno dopo giorno con il vivere abbandonando la salute dell’anima e permettendo che altre forze, potentemente ostili all’umano, se ne impadroniscano con l’espe­diente lento e inavvertibile della goccia continua.

Perché credo nella giustezza di questa via? Pare un’obiezione retorica, ma sicuramente la domanda ha una sua validità. Comunemente si dice: ognuno cerca la propria strada e nulla garantisce su quando o come essa possa venir trovata. Quanto affermato sul pensiero e sulla forza della logica è plausibile sul piano umano. Ma la logica della vita, secondo opinione corrente, non chiede salti qualitativi da compiere mediante esercizi che, in fondo, non sono diversi da tutte le altre tecniche usate per conseguire un potenziamento mentale, tentando un “distacco” dai vincoli psicofisici. La logica, come la natura, è sempre giusta perché non inganna, non oscilla secondo opinabilità soggettive e non suggerisce di avventurarsi in prospettive che valichino i limiti dell’esperienza.

Se non vado errato, con un giro di argomenti popolari si sta qui tirando in ballo il vecchio tema del primato tra ciò che è Logico e ciò che è Giusto, tenendo conto che per una lunga serie di motivi sia l’uno che l’altro possono apparire entrambi perfettamente validi e risolutivi dei problemi momentaneamente in corso.

Non risponderò discorsivamente. La disquisizione tra Logico e Giusto è del tutto dialettica e aggravarla d’altre parole produrrebbe solo ulteriore confusione, senza apportare alcun chiarimento.

Mi affido invece a tre ricordi che ho impressi nella mente e nel cuore, e che – illo tempore – mi sono stati d’aiuto.

1. Massimo Scaligero ha scritto uno dei suoi libri intitolandolo La Logica contro L’Uomo.

2. Lo stoico Catone (il Censore), chiamato in una disputa tra Logica e Giustizia, pur sapendo già l’esito della tenzone, e consapevole di fare la scelta errata, optò per la Giustizia, in quanto piú consona al suo cuore. Infatti una Logica voluta solo perché vincente, sarebbe del tutto ingiusta.

3. In un vecchio film di molto tempo fa, basato su un processo in cui venivano espressi e dibattuti dei valori che coinvolgevano l’intero mondo dell’ultimo dopoguerra, il Giudice protagonista, dopo il verdetto finale, ebbe cosí ad esprimersi: «Non sempre tutto ciò che è logico è anche giusto. E se non lo è, non c’è nessuna cosa al mondo che possa farlo diventare tale».

Queste mie deduzioni hanno i loro oppositori: l’idea di mettere assieme una certa sintesi combinando tra loro un’opera di Scaligero, un aneddoto su Catone e uno spezzone cinematografico è apparsa a piú di qualcuno, a dirla con diplomazia, poco opportuna e sconsiderata. Rivendicando i diritti del puro raziocinio, costoro non possono che vederla come artefatta e destituita d’ogni logica.

Si consolino, sapendo che per me invece l’idea è giusta e quindi va bene cosí.

 

Angelo Lombroni