Gli anni della memoria

Considerazioni

Gli anni della memoria

È meglio ricordare o dimenticare? Si può rispondere in molti modi, e di conseguenza portare validi argomenti in entrambe le direzioni. Alcuni sostengono che la memoria, per restare viva, deve essere sempre voluta, mentre, per dimenticare, il volere c’entra poco o niente.Ricordi cancellati Ma a ben guardare, non è proprio cosí; ci sono ricordi talmente impressi nella nostra interiorità, al punto da consolidarsi e permanere indelebili anche contro il nostro desiderio, come d’altra parte esistono numerose persone che hanno voluto, per mille ragioni, dimenticare determinate cose o situazioni e si sono notevolmente sforzati in tal senso, fino ad annientare nelle loro coscienze la traccia di quel particolare vissuto.

In tale contesto, porsi il problema di cosa sia meglio o cosa sia peggio, non ha molto senso; bisognerebbe ogni volta valutare la decisione per cui è stata presa una delle due strade; ma in questo caso, assieme ad essa, si fini­rebbe inevitabilmente per giudicare l’attore umano che ha compiuto il passo e, forse, se ne è assunto pure le conse­guenze, giacché ogni tanto succede anche questo. Giu­dizio inammissibile e poco rispettoso per quanti abbiano imparato a rispettare la vita, in particolare quella degli altri, non perché la propria sia di maggior importanza, ma piuttosto perché il valore conferibile a ciascuna, non può venire da chi non l’abbia vissuta a fondo, con i relativi annessi e connessi.

A questo punto, rigirando la domanda iniziale, ci si può chiedere se il ricordare abbia un valore intrinseco superiore al dimenticare, ma anche qui dovremmo ogni volta analizzare il contesto, i precedenti e i motivi che hanno indotto il soggetto alla decisione.

In linea di massima, il ricordare sembra essere un’azione giusta e proficua: esprime un lavoro propositivo, là dove invece il dimenticare appare un’attività in perdita e porta con sé il sapore amaro della delusione, o della sconfitta.

Tutto dipende dalla modalità della questione, di come venga posta e dentro quali limiti essa abbia a valere; anche il meno dotato degli chef, nel preparare le sue portate, sa di dover fare molta attenzione ad evitare i due pericoli tipici dell’arte culinaria: l’eccessivo insaporimento, oppure lo squallore dell’insipidezza.

È fondamentale, prima d’ogni altra cosa, cogliere l’aspetto primario sui cui si basano le tema­tiche della memoria: ricordi e dimenticanze sono ambedue attività del pensare; poco conta che una sia (quasi sempre) utile e l’altra (quasi sempre) no. Esse fanno comunque capo alla prin­cipale facoltà umana; sono sue estrinsecazioni dirette. Ricordare ci testimonia la continuità dello scorrere del pensare in noi, mentre non ricordare, o dimenticare, ci fa prender atto di come tale continuità presenti a tratti dei “buchi” di contenuto. Ma sono i contenuti scomparsi a sem­brarci temporaneamente inagibili, non certo il pensare in sé.

Fin dai suoi primi passi di apprendimento, la Scienza dell’Antroposofia ha distinto i pensieri dal pensare. Il motivo è evidente: il pensare è l’attività superiore, i pensieri (o pensati) sono i prodotti di quella attività. Possiamo dire meglio: sono i risultati o i frutti di quella attività, dal momento che il termine “prodotti” ci farebbe cadere di colpo in un saggio di economia moderna, dal quale sarebbe faticoso uscire indenni.

Come i pensieri-pensati si differenziano dal pensare, e possono quindi venir impiegati bene o male, anche i ricordi si staccano nettamente dall’atto del pensare che li regge (o, all’opposto, che li lascia andare, dal momento che, sia pur in modo negativo, gli oggetti della dimenticanza sono sempre i ricordi).

È pertanto da tenere debitamente in conto che ricordi e non-ricordi sono dei “pensati”; presuppongono e manifestano la presenza di un’attività pensante.

In seconda battuta, mi sembra giusto evidenziare un fatto di norma poco rilevato, anche se per questa défaillance esistono buone giustificazioni. Oltre il nostro modo abituale di rappor­tarci con il mondo interiore ed esteriore, si entra in un campo in cui la verità sovverte le regole della realtà apparente, cioè quella cui siamo abituati e rimaniamo aggrappati con notevole impiego di risorse.

Tra le infinite avvertenze che scendono fino a noi da questa sovradimensione, ce n’è una che risolve ogni discussione circa il ricordare/dimenticare. Si tratta di un processo che si svolge indipendentemente da quel che vogliamo, desideriamo e comprendiamo.

Ciò che capita nella vita, dal granello di sabbia che abbiamo raccolto nella scarpa, camminando quel giorno d’estate sulla sabbia del litorale, al bus che ci ha investito, in quella notte di pioggia, distruggendoci l’automobile seminuova e mandandoci all’ospedale per un bel po’, tutto è stato ugualmente (sottolineo “ugualmente”) accolto, scrupolosamente annotato e debitamente regi­strato negli archivi della nostra organizzazione psicofisica.

I nostri atomi, le nostre molecole, le particelle materiali e immateriali che ci compongono, si sono imbevuti di ogni evento vissuto e incontrato da sperimentatori volenti o magari per pura combinazione; la quale (è bene, dopo, ricordarlo) esiste solo per chi abita la sottodimensione e non ha mai avuto modo di allungare il collo oltre questa.

Dimenticare è quindi impossibile; ogni cosa è inscritta profondamente, radicalmente incisa, nei recessi della nostra intimità e da lí trasmette incessanti informazioni e messaggi all’unità vivente nella quale ci siamo identificati e con la quale amiamo rappresentarci.

Che di questo continuo lavorío la nostra coscienza abbia o no, dopo, un minimo sentore, ovvero sia rimasta a guardarsi il telefilm della vita, convinta nei diritti tutelanti il fruitore finale, questo è lasciato al karma individuale, alle disposizioni prenatali ricevute e all’esperienza di vita che siamo riusciti a mettere insieme. C’è chi, cogliendo uno o due aspetti del reale, ci trova dentro il vero e se ne illumina; c’è chi, prima di uscire di casa, apre gli armadi stracolmi di vestiario e sospira: «Non ho niente da mettermi!».

Siamo fatti cosí, anche se non siamo stati fatti cosí; però questo è il rischio connesso alla libertà, e quindi il costo è commisurato al valore del traguardo. Un buontempone, amante dei giochini di parole, ha coniato lo slogan: «O t’accorgi della mission, o resti nella fiction».

La Terra sta correndo il pericolo di essere rinominata nel Sistema Solare come il “Pianeta dei Famosi”.

I ricordi non sono dunque cancellabili; poco importa che appaiano tali alla consapevolezza legata alla coscienza ordinaria. Non ricordiamo nemmeno quel che abbiamo mangiato ieri o ieri l’altro; ben poco ci rimane del passato se non a grandi linee; come si può possedere il vissuto nel dettaglio del particolare? È piú pratico cadere nella supposizione che i ricordi presto o tardi vengano inghiottiti dall’oblio.

Per terzo, dobbiamo affrontare un lato dei ricordi che non si lascia toccare facilmente: quello della loro strumentalizzazione. Non sempre la volontà di mantenerne vivi alcuni, oppure, per con­tro, volerli confinati in qualche dimenticatoio, è motivata da dignitoso interesse. Questo interesse, a volte, non solo è privo di fondamento giuridico e/o storico, ma fa parte di un disegno tortuoso mirato a scopi tanto iniqui quanto inconfessati.

Quando la storia ci rivela e diffonde la notizia che, in tempi e luoghi qualsiasi, alcuni uomini, da singoli o in associazione, hanno deliberatamente abbandonato ogni dignità accettando anche la degradazione piú vile, per soddisfare la loro sete di potere, allora, credo, che a quanti vengano a trovarsi dall’altra parte della barricata, null’altro desiderio rimanga che calare un pietoso sipario sulla scena del dramma. Questo sipario è ‒ deve essere ‒ intessuto di silenzio.

Non certo un silenzio che dimentica, ma anzi, un silenzio attento e rigoroso, consapevole del dolore da cui è sorto, e che vigili affinché la miseria umana non abbia a ripetere le sue malefatte. Questo silenzio dovrebbe far salire dal profondo di ciascun uomo, in grado di scrutare con lucidità nella propria coscienza, un monito preoccupante ma parimenti salutare: “Poteva capitare anche a me”. Intuizione, questa, tanto piú tragica quando venga compresa l’irrilevanza tra lo specifico ruolo di vittima o di carnefice.

Può accadere a uno, può accadere a molti; si tratti di una persona sola, di un clan, un partito, una setta, o siano addirittura coinvolte popolazioni intere; chi manipola la forza dei ricordi per tornaconto personale, per mantenere privilegi attribuiti alla propria casta, si rende complice di un meccanismo inquinante che presto o tardi tenderà a travolgerlo nello tsunami dell’ingiustizia commessa.

Agitare ad arte, sobillare, insufflare furbescamente gli accenti grevi della memoria, in occasione di campagne elettorali, ricorrenze calendarizzate o spettacoli estemporanei simulanti nobili direttive; esulcerare gli animi predisponendoli al disordine e alle ribalderie; riesumando perfino i cadaveri dei ricordi nel meschino tentativo di strappare un’ulteriore adesione, un voticino in piú, da una massa ritenuta inerte, stordita, permissiva, che si lascia mungere con indifferente sufficienza; può diventare un’azione infame persino superiore ai fatti stessi su cui la strategia propagandistica tenta di arrampicarsi.

giorno del ricordoFintanto che gli antagonismi, le guerre, le lotte sociali, i fanatismi d’ogni genere, nazionali o plane­tari, si esauriranno con il triste epilogo delle fosse comuni, saremo sempre tutti sconfitti; l’unica diffe­renza è che alcuni hanno trovato la morte negli eventi in cui sono stati coinvolti; gli altri dovranno attendere il loro turno per quanto accadrà in seguito, non esclu­sa la causa propria. Ma è una differenza troppo sottile per produrre da sola una visione morale della vita.

Di qualunque epoca si tratti, chi aveva da pagare ha pagato; chi non lo ha fatto, o aveva già pagato in precedenza o dovrà farlo in seguito. Ce n’è per tutti, non serve spingersi l’un l’altro; basta saper aspettare.

«Che ogni uomo abbia la sua parte» è un vecchio detto irlandese: porta in sé, marchiato a fuoco, il valore bifronte di invito e di sentenza. Il potere dell’equilibrio karmico prevede la partita doppia del dare e dell’avere, ed è di carattere assolutamente compensativo; a dispetto di quanti, dopo un bagno ai sali profumati, lo vorrebbero ri-compensativo.

Oggi il giornale della città riporta un titolone che non passa inosservato: «Una pagina di storia che nessuno può dimenticare». Viene da chiedersi: se nessuno può dimenticare, a che serve il tito­lone? Come le ombre si annientano per troppa luce o per troppo buio, anche i ricordi vengono de­vitalizzati della loro verità, tanto per manomissione riduttiva quanto per inasprimento esaltativo.

Dalla mensa imbandita dei media, quel che resta del vero viene dato in pasto all’opinione pubblica: avanzi di verità, briciole di storia, reimpastate, farcite o scondite a seconda delle mire e della convenienza dei cucinieri. Le mezze verità somministrate e masticate in modo approssima­tivo, quasi rozzo, comportano l’effetto di separare ancor piú quelli che hanno ingoiato la prima mezzeria da quelli che si sono rimpinzati con la seconda; entrambi certi d’aver avuto il pasto intero, si cercano e si azzuffano fra loro fino allo scontro fisico. Ciascuno imputa all’altro la man­canza di quel che crede possedere in toto, senza capire che, per il gioco dei mezzi sommini­strati, altrettanto vale il parere opposto. Su un fatto tuttavia trovano accordo: tacciare di tradi­mento chi abbia voluto mostrar loro le cose in completezza. Sapere, capire, ricordare a metà e non rendersene conto, favorisce il rinnovo di tensioni, avversioni e di botte all’ultimo sangue. Non per nulla una frase attribuita al Mahatma Gandhi sintetizza: «Ogni guerra è lo scontro di due ignoranze». Al tema corrente, scevro da velleità integranti, potrei rispettosamente aggiungere: «Ogni memoria prevaricante l’umano è opera di due Avversari». Riconoscerlo è un moto del pensare; il primo che svincoli l’anima dalla spirale iniqua che nel tempo ci ha sospinto fino alla forma piú aggiornata del deterioramento dialettico: il livello delle fake news.

Queste riflessioni non derivano da un’analisi spassionata dell’argomento né da una mia totale estraneità alla forza dei ricordi; sono nato nel 1943, sul confine orientale, e chi conosce anche per sommi capi un po’ di storia, sa quante e quali problematiche abbiano, in quel periodo, sconvolto il fronte del Nord Est. Ebbi subito una conseguenza diretta: ancora neonato, persi mio padre in quegli anni cruenti.

Nei tempi che seguirono, mia madre mi allevò con tutto l’amore rimastole, ma ciò che mi pro­veniva da lei, non certo poco, lo avvertivo intessuto di rabbia, inquinato da forte pulsione riven­dicativa, contro l’ingiusta sorte patita.

Settant’anni dopo, mi sento capace di scrivere qualche cosa circa la memoria e il potere dei ricordi, forse in maniera non del tutto spassionata, ma sicuramente con cognizione di causa. Vantaggio, se cosí vogliamo definirlo, costato caro alla mia famiglia.

Per non arricchire con la presente scrittura la già fiorente letteratura del vittimismo, divulgata e resa organo della cultura ufficiale, ricorro ad una figura retorica che ‒ per me – acquistò nel corso del tempo sempre maggiore spessore, fino a farmi capire quel che in determinati casi va fatto e come farlo. Il che nulla c’entrava ancora con la Scienza dello Spirito, anche se, in seguito, trovai in quest’ultima il coronamento e il risvolto spirituale della mia iniziativa.

Renzo e i capponiSe non tutti, molti ricorderanno il passo manzo­niano de I Promessi Sposi, in cui il buon Renzo, de­posta l’abituale “quietezza”, s’incammina verso il pae­se dell’avvocato Azzecca-garbugli, con l’anima in tu­multo e il cuore esulcerato per il torto subíto dal malvagio don Rodrigo. Procede a grandi passi, furioso come non mai, parlando a voce alta, ora inveendo, ora minacciando all’aria, e mimando il fuoco d’artifi­cio dei propositi, con i gesti delle braccia e delle mani. Una di quelle mani non era però vuota: reggeva due paia di capponi vivi, con i quali l’Agnese aveva consi­gliato d’ingraziarsi il dotto leguleio, e che erano stati preventivamente legati ben saldi per le povere zampe.

Ecco qua: dopo lungo rielaborare, sono stato colpito dal perfetto parallelismo che si viene a creare fra un uomo straziato da pensieri e ricordi reclamanti pronta azione, se possibile ancora piú terribile dell’accaduto (situazione soggettiva) e lo stato di quei quattro volatili a testa penzoloni, che pur nella comunanza di una fine segnata, «come troppo sovente accade tra compagni di sventura, s’ingegnavano a beccarsi l’un con l’altro» (situazione oggettiva).

Riassumendo: ero quel Renzo, convinto d’essere l’uomo piú disgraziato della terra. Per lo meno nessuno poteva dirsi piú disgraziato di me. Vivevo e sentivo la negatività dell’anima schiacciata dal peso degli eventi; sapevo di non poter fare nulla e questo mi provocava una nevrastenia tale da far bollire amarezza e rancore, indirizzandoli, ovviamente, contro la parte da cui pensavo mi fosse provenuto il danno.

Ma il contesto reale nel quale mi trovavo era pure quello dei capponi; e allora il quadro cambiava radicalmente. Mi trovavo ad essere un disgraziato tra altri disgraziati; osservavo con orrore come anziché unire le forze, o le debolezze, e cercare un minimo conforto nel calore umano che dovrebbe accompagnarsi nel sostenere la comune avversità, ciascuno di noi con­tinuava invece imperterrito a credersi l’estremo depositario della verità rivelata, irretendosi in una lotta folle, sordida, fratricida, peggiore anche di quel destino che in qualche modo ci aveva voluto congiungere, sia pure con dei legacci. Se avessi continuato a imperversare sulla strada delle proteste e dell’ingiuria, indifferentemente lastricata da ragioni o da torti, sarei rimasto cappone per tutta la vita e da cappone sarei finito.

Non c’è niente di meglio del paradosso grottesco per risvegliare in me un rimasuglio di dignità umana, evidentemente assopito da anni. Certo, non mi è piaciuta l’allegoria del Manzoni, mi ha ferito a fondo, ma era un taglio di bisturi, non una pugnalata; ne ho tratto un insegnamento prezioso: i conti della vita devi farli in presenza dell’oste. E chi è per davvero l’Oste? L’ego infuriosito? L’anima esacerbata? Il cattivo di turno che ti tiranneggia? La sorte avversa? L’umanità impietosa? O l’Universo immenso che non si accorge nemmeno della tua esistenza?

La risposta giunse molto dopo, quando i primi pensieri derivanti da Massimo Scaligero mi indirizzarono all’Antroposofia. Cominciai a farmi una vaga visione di cosa sia l’entità umana, come sia composta, a quali regole esistenziali essa debba rispondere, abbandonata a se stessa, e a quali altri panorami potrebbe invece aprirsi se decidesse di non sottostare piú alla magia dei cattivi pifferai, della cui presenza fin qui praticamente non aveva mai preso atto.

Ottuplice sentieroScoprii, magari tardivamente (ma cosa significa tardivamente?), che esiste uno sbocco di vita in cui possiamo incontrare i nostri ricordi senza l’impulso di giudicarli, di misurarli con il metro del pro e del contro, senza prediligerne o disdegnarne alcuno; poterli contemplare a cuore e mente sereni e obiettivi, perché sono i passi che ci hanno conformato e condotto al momento presente. Se vogliamo che questo presente abbia un suo valore, allora dobbiamo ricono­scerne la bontà, la giustizia e anche la necessarietà che quei passi fossero compiuti, uno ad uno, cosí come furono.

“Gli anni della memoria”. Mi piace pensarli cosí: gli anni della “Buona Memoria”. Non è certo una’idea nuova. Quanti si occupano di spiritualità conoscono l’Ottuplice Sentiero del Buddha. Nella versione giunta a noi non si parla esplici­tamente di un’ “arte del ricordare”, ma sono certo che essa sia un’immediata se non intrinseca espressione del Nobile Sentiero.

La Buona Memoria è la salvezza dell’anima, perché la toglie dalle grinfie dei Suggeritori Oscuri, che attraverso la potenza dei ricordi manipolati, l’hanno rigonfiata di veleno, di astiosità: infierendo, umiliando, volgendola contro tutto e tutti, anche contro se stessa, fino a renderla incapace di ricordare le proprie origini e rispecchiare l’angolino di cielo da cui pure un tempo è discesa.

La Buona Memoria è come la neve, ammanta di candore i gravami della quotidianità esi­stenziale; ci dice che sotto la sua coltre continuano le pene, i furori e le contrapposizioni, ma ci insegna pure la fatale necessità di questi in rapporto all’intima gestazione dell’umano. L’anima ha deciso di incarnarsi e offrirsi quale terreno in cui possa svolgersi il processo del travaglio evolutivo.

La Buona Memoria restituisce anche alla coscienza rimasta ottusa la consapevolezza della nostra verità; in tale consapevolezza – si scopre – consiste il vero ricordare. Quello che, da soli o in cattiva compagnia, abbiamo cercato di nascondere a noi, agli altri, al mondo intero.

Fabrizio De André-Luca Marinelli

Fabrizio De André-Luca Marinelli

Per illustrare meglio (anche a me stesso) il concetto di Buona Memoria, mi sono trovato un po’ in difficoltà. Le parole servono poco a spiegare la forza di una situazione interiore, che non sia esaltativa ma sappia far risuonare la corda delle Arpe Eolie di cui siamo dotati, sia pure in diversa misura. Cercandole, mi sono imbattuto in un cammeo che ritengo prezioso allo scopo, piú di qualunque altra forma riflessiva.

In questo periodo va­riegato di memoranda. com (probabilmente a seguito di un ennesimo marketing commercia­le), si ripropone l’opera del cantautore genove­se Fabrizio De André. A questa mi rivolgo, mi appello alla sua inimitabile vis poetica, per trarre, dall’album intitolato “Rimini”, la storia di Teresa, figlia del droghiere: «Un errore ho commesso – dice – un errore di saggezza; abortire il figlio del bagnino e poi guardarlo con dolcezza. Ma voi che siete a Rimini, tra i gelati e le bandiere, non fate piú scommesse sulla figlia del droghiere».

Questo rappresenta per me il modo buono e giusto di guardare ai ricordi; fissare negli occhi il passato senza rimpianti e recriminazioni, ma anzi, con lo sguardo di chi finalmente sa com­prendere, accogliere e compatire; l’amore che smette di chiedere qualcosa per sé, abbraccia equamente i propri vissuti; dallo slancio di generosità e di abnegazione fino alla miseria piú squallida e abietta.

Cari Signori Benpensanti, ci dice Teresa nella voce di Fabrizio, se proprio non volete interrogare le vostre coscienze e conservare l’illusione d’averle sempre nitide e pulite, abbiate almeno la decenza di non fare scommesse sulle anime di quanti, magari zoppicando, si sforzano lungo la strada del loro destino.

Invece, a quanto pare, i Signori Benpensanti non smettono di scommettere; i botteghini spun­tano come funghi dopo la pioggia, e i bookmaker-imbonitori sollecitano al rilancio le masse di sprovveduti in febbrile ricerca di facili guadagni.

Non sarà semplice in futuro applicare l’esercizio della Buona Memoria a questa nostra epoca confusa ed esagitata, ma anche superba e cialtrona, piena di tensioni isteriche per roba di poco conto e completamente cieca e assente sui grandi problemi collettivi. Non saprei dire se tale particolarità derivi da condizione propria o da convenienze altrui; probabilmente, facendo un connubio fra cause concorrenti, ci si azzecca.

Tuttavia, gli anni della Buona Memoria arrivano per tutti; se sono stati coltivati da una sincera dedizione alla Scienza dello Spirito, apriranno le porte dell’anima ai giusti ricordi, quelli che servono a ciascun uomo prima di tutto a porsi quelle domande alle quali siamo sin qui sfuggiti e in secondo luogo a imboccare la lunga strada verso le risposte.

I problemi veri non sono, non possono essere, quelli con i quali gli artificieri della propa­ganda, i pirotecnici dei ricordi, ci stordiscono ogni giorno, senza un attimo di tregua, con spet­tacoli rimbombanti e fantasmagorici, impedendoci oltretutto di usare il pensiero in autonomia e riservatezza.

La presentazione cerimoniosa delle ricordanze assumente caratteri impositivi, dogmatici, reiterata da toni invasivi e spavaldi, è della stessa pasta delle ondate di pubblicità-spazzatura che, provenienti da fiumane inquinanti, sommergono, disgustano e creano pericolosi squilibri nell’integrità psicofisica di quanti devono subirla da impotenti, inducendoli all’ossessione e alla paranoia.

Affrontare l'infernoQuelli che chiamo gli anni della Buona Memoria non hanno nulla a che fare con il trend descritto, forse a fosche tinte (ma a volte pure queste sono utili se servono a far risaltare la luce). Non hanno nulla a che fare e non ne hanno nep­pure l’intenzione. Una delle seduzioni luciferiche piú allettanti è quella di farci sentire inopinati eroi, decisi a scontrarsi con l’Inferno, affrontan­dolo in diretta.

Gli anni della Buona Memoria preferiscono lasciare l’Inferno dove sta, anzi dove dovrebbe stare dal momento che, come si vede, tende ad espandersi, restringendo gli spazi propri al­l’umano.

La Buona Memoria si occupa d’altro; ciò che è accaduto e continua ad accadere sulla terra riguarda storiografi, politici e analisti vari. L’in­sieme dei fatti, il succedersi degli eventi, è og­getto di studi, a volte anche seri, da parte dei desiderosi che vogliono conoscere il “come”.

Coloro invece che aspirano a conoscere il “per­ché”, evitano di girovagare nei labirinti delle dice­rie, delle interpretazioni, delle rendicontazioni posticce, disseminate tra raggiri e rimaneggi che molte anime in pena, in varie epoche e località, si sono impegnate a produrre con generosa abbondanza. Devono per forza di cose avvalersi dei Buoni Ricordi, quelli che ci aiutano solo a crescere e non sorgono dalla brama di vendicare, distruggere e demolire.

Dall’Antroposofia ci provengono le prime nozioni riguardanti la fisiologia occulta. Ricorrono sovente i termini di corpo fisico, corpo eterico e corpo astrale; in molte conferenze Rudolf Steiner ha parlato di come questi tre elementi si rapportino fra loro. Un aspetto fondamentale nello scambio di valori, è dato propriamente dalla forza dei ricordi, dalla loro virtú, ovvero dalla qualità etica di cui sono intessuti.

Ogni ricordo è la rielaborazione di un pensiero sostenuto da uno o piú sentimenti, che corpo fisico e astrale trasmettono al corpo eterico, con la conseguenza che se il ricordo è “sano”, esso proietta la sua vigoría fin nell’eterico, il quale a sua volta lo rende al destinatario in forma di valetudo fisica e psichica.

Se viceversa il ricordo è spurio, vincolato a personalismi revanscistici, tanto inquieti quanto irrisolti, allora quel che trapassa nell’eterico sarà degenerativo, inciderà malevolmente il corpo vitale, dal quale poi a loro volta discenderanno conseguenze pesanti per le parti in causa.

Massimo Scaligero ci presenta la medesima fenomenologia con altre parole: «L’uomo nasce come uomo se restituisce in pensieri le sensazioni che riceve dal mondo».

Ma se le sensazioni che riceviamo dal mondo vanno a formare i pensieri e i ricordi del tipo che siamo costretti a rilevare per puro e semplice realismo constatativo, l’uomo non nascerà mai piú. La terra sarà piena di esseri che ne avranno solo le sembianze esteriori e null’altro.

Necessita curare degnamente l’uso dell’attività pensante, e in particolare la produzione dei ricordi nella quale il nostro corpo animico è coinvolto in modo inscindibile. Un fisico e un’anima in buona armonia tra di loro, riescono a imprimere nei pensieri e nei ricordi quella particolare sostanza d’amore che porta il nome di gratitudine.

Questa è la luce e la vita di cui l’universo intero è permeato dalla creazione fino alla com­parsa del primo uomo: con qualche sforzo di buona volontà, potrà illuminarsene anche lui se, avvalendosi delle proprie risorse, imparerà ad innalzare le note della gratitudine, compo­nendole sulla tastiera del retto pensare, sfiorando con mano agile e lieve i tasti della giusta memoria.

Sembra molto difficile, ma ci si può provare. In tutti i casi sarà molto meno difficile che non vivere quel tipo attuale di vita, “all’occidentale”, al quale ci siamo venduti nella ben nascosta meta di dover morire senza averne capito il perché.

Primo Buon Ricordo: mondo dello Spirito e mondo umano. Abbiamo pensato come stiano tra loro questi due livelli? In quale modo possano interagire, il primo essendo privo di limitazioni spaziotemporali mentre il secondo ne è totalmente immerso?

Secondo Buon Ricordo: qual è il senso di una entità spirituale che ad un tratto decide di per­dere ogni privilegio, sottoponendosi al giogo della caducità e della sofferenza, subendo le leggi della materia, fino a morirne?

Terzo Buon Ricordo: la conduzione delle proprie facoltà poggia sulla libera iniziativa personale; chi sceglie di consacrarsi alla conoscenza, può pensare di esaurirne i contenuti nell’arco di un’unica vita?

Potrei continuare, ma sono certo che questi tre Ricordi siano piú che sufficienti a riempire il tempo messo a nostra disposizione. Hanno soprattutto il buon gusto di non suscitare sugge­stioni quanto meno disdicevoli, se non indecorose, e permettono a coloro che ne hanno avuto l’accesso. di non venir disturbati mentre riposano nella pace dell’Eternità.

Qualcuno non perderà l’occasione di replicare che questi non sono ricordi; semmai sono pensieri astratti, teorie, supposizioni; i ricordi possono essere soltanto quelli che abbiamo pro­fondamente esperito nel nostro piú intimo vissuto.

La mia sarà una risposta breve: «Appunto questo intendevo».

 

 

Angelo Lombroni