Massimo Scaligero e le due anime del pensiero italiano

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Massimo Scaligero e le due anime del pensiero italiano

AdelchiRievocando, nella tragedia dell’Adelchi, l’episodio decisivo del conflitto tra i due popoli che nella seconda metà dell’VIII secolo si contendevano il dominio sulla penisola italiana, Manzoni non solo ridestava nella memoria dei suoi connazionali un periodo tanto oscuro quanto fecondo di destino della loro storia, ma accennava altresí, forse in modo inconsapevole, al predisporsi nella vita spirituale del loro paese di due tendenze opposte e complementari, tra le quali essa si sarebbe variamente dibattuta nei secoli a venire.

Per intendere di che cosa si tratti, occorre tenere presente che i Franchi e i Longobardi, i due popoli in questione, per via dell’indole caratteristica della loro anima e di una disposizione corrispondente del destino, avevano finito col porsi in servizievole accordo l’uno e in fiero contrasto l’altro con le intenzioni spirituali e politiche dell’autorità papale insediata a Roma.

Mentre i Franchi avevano aderito con facilità alla confessione cattolica, che trovavano consona alla componente già romanizzata del loro sentire, nonché a un’attitudine devozionale insita nelle profondità del loro essere, i Longobardi si erano invece per piú lungo tempo attenuti alla concezione del cristianesimo detta “ariana”, dal nome del sacerdote e teologo alessandrino Ario, vissuto tra il III ed il IV secolo, le cui dottrine avevano avuto ampia diffusione nell’Oriente cristiano prima, e tra le diverse popolazioni germaniche poi. Le due confessioni, identiche nel riconoscimento dell’azione salvifica del Cristo, si distinguevano nel modo di intendere la natura del Verbo: coeterno al Padre e con Lui increato nella comunione di una medesima essenza trascendente ogni creatura, secondo il cattolicesimo; posto in essere dal Padre come principio e organo della creazione del mondo, dunque immanente all’esistenza di quest’ultimo e pulsante nell’intimo delle sue energie, secondo l’arianesimo.

Il Cristo in un mosaico ravennate secondo la visione dell’arianesimo

Il Cristo in un mosaico ravennate secondo la visione dell’arianesimo

Per la mentalità ancor pregna del riverbero di una coscienza primordiale, partecipe dunque per visione spontanea dei tenui processi formativi che presiedono al divenire delle realtà sensibili, i Longobardi erano naturalmente propensi a far propria la concezione ariana, respingendo quella cattolica, che richiedeva maggior capacità di astrazione, frutto di una virtú piú cristallina, ma insieme piú statica della mente.

Se le due maniere, trascendente e sopran­naturale l’una, immanente e quasi empirica l’altra, di percepire e intendere il divino, rap­presentano da sempre tendenze polari e insopprimibili dello spirito umano – conciliate invero nel loro principio dallo stesso Verbo fattosi uomo – fu in conseguenza del rapporto con le popolazioni suddette, che il germe di queste tendenze poté essere immesso secondo una configurazione storica caratteristica nell’ancor gestante vita spirituale della futura nazione italiana. Esse ebbero allora, secondo la rievocazione manzoniana, in Carlo Magno da un lato, in Desiderio e suo figlio Adelchi dall’altro, i loro garanti stranieri, mentre in Ermengarda, tramite sacrificale tra le due parti in conflitto, pare adombrarsi la figura della stessa anima italiana, auspice in quei giorni bui di un «piú sereno dí», del quale il suo destino espiatorio sarebbe valso da seme (Secondo coro dell’Adelchi, atto IV, scena I). Non pare sia mai stato rilevato da alcuno, che un clima politico e morale simile a quello descritto nella tragedia manzoniana si ripeterà nell’Italia settentrionale degli anni 1943-1945, sconvolta e lacerata dalle conseguenza interne di un conflitto internazionale. Molti dei luoghi in cui si svolge l’azione tragica riacquisiranno in quegli anni singolare importanza.

Nel corso dei secoli successivi le due tendenze assumeranno una fisionomia sempre piú definita, erompendo dapprima nel contrasto tra le fazioni dei guelfi e dei ghibellini, per generare quindi con il tempo una vera e propria scissione dell’identica anima italiana in due diverse anime, una cattolica e l’altra laica, tanto piú in dissidio tra loro, quanto piú lontane dallo schietto principio da cui avrebbero preso le mosse. Per una sorta di fatalità dialettica, accadrà allora che le opere di Tommaso d’Aquino e di Giordano Bruno saranno, per lo zelo di parodianti seguaci, asservite alle mire di una cattolicità paga del proprio formalismo l’una, e di un anticlericalismo esasperato e sterile l’altra. Non è questa la sede per annoverare le conseguenze, a tutti piú o meno note, che un esplicarsi angustamente ideologico ha prodotto e produce tuttora, sebbene in forme piú dissimulate ed occulte, nella compagine dell’unica anima italiana.

rosmini

Rosmini

Quando questa, nel periodo del Risorgimento, si destò alla sua responsabilità storica, prendendo coscienza di una originaria vocazione spirituale, si ricordò della propria missione conciliatrice e consentí lo svolgersi al suo interno dell’opera di un pensatore come Antonio Rosmini, il quale seppe orientare il moderno anelito conoscitivo sulle vie di un’umile e fedele consacrazione religiosa. «Quel sapiente che sommo genio s’annientò nel Cristo», dirà di lui il poeta suo discepolo Clemente Rebora.

Movendo dall’esperienza della luce oggettiva del pensare, Rosmini avrebbe guidato passo passo la mente dell’uomo contemporaneo al riconoscimento del principio trascendente di quella luce, la cui azione nell’interiorità umana si dà a percepire come un tocco vivificante e ineffabile della grazia. A lui si deve, in una delle pagine piú pregnanti di Teosofia, una caratterizzazione puntuale delle due tendenze o bisogni «naturali all’uomo», da lui stesso denominate «soprannaturalismo» e «razionalismo». Tendenze che, se pur «lottano e si dividono il mondo», sono tuttavia incapaci di annientarsi reciprocamente. «Vani – precisa egli infatti – sono tutti i sistemi che soddisfano a una sola [tendenza]; vana è la loro conciliazione, se, con il pretesto di conciliarle, una se ne sacrifica».

Giovanni Gentile

Giovanni Gentile

Un secolo piú tardi Giovanni Gentile, accogliendo l’eredità spirituale di Rosmini e del coevo Gioberti, avrebbe riproposto con la filosofia dell’at­tualismo la sintesi delle due anime, scaturente da una conversione della conoscenza in atto d’amore. La sua opera fu invero un apostolato volto a ricondurre la moderna cultura laica alle sorgenti di un cattolicesimo ideale ed eterno, che non richiede apparati e formule esteriori per sopravvivere, giacché la sua scintilla arde inconsunta nel principio stesso dello Spirito umano. Significativo a tal proposito è che egli, inviso e censurato dall’autorità ecclesiastica per la presunta irreligiosità del suo immanentismo, in una conferenza dal carattere testamentario tenuta nei giorni piú tragici della recente storia italiana, dichiarava, con sorpresa e disappunto di molti, di essere cattolico, non in virtú di una tarda, subitanea conversione, ma per disposizione innata del suo Spirito, che lo aveva portato a percorrere «fin dal giorno della nascita la via di Damasco». Conversione dunque che, in quanto sacrificio, ricerca e amore, è per lui «la storia di ogni giorno, di sempre», come egli scrive in La mia religione.

Massimo Scaligero

Massimo Scaligero

Un rapporto originale con i due pensatori appena ricordati ebbe Massimo Scaligero, cultore di discipline e scienze spirituali, nato a Veroli nel 1906 e attivo a Roma come scrittore per un buon tratto di secolo. La sua stima verso Rosmini fu tale che egli propose, pur senza effetto, di intitolare a lui un circolo di cultori dello Spirito che si raccoglieva sotto la sua direzione a Roma. In occasione del primo centenario della morte del grande filosofo, nel 1955, redasse un articolo pubblicato da numerosi quotidiani e periodici italiani, dal titolo Potenza e modernità del pensiero rosminiano, ove, tra le altre cose, è detto: «La grandezza di Rosmini consiste nell’aver ritrovato le fonti spirituali del pensare e perciò nell’aver restituito all’uomo la fiducia nella libertà interiore, nella capacità di ricongiungersi mediante un retto pensare con la verità eterna» (L’articolo apparve, nel 1955, sulle seguenti testate: “Giornale di Vicenza”, 6 maggio; “Gazzetta Padana”, Ferrara, 7 maggio; “Piccolo Sera”, Trieste, 16 maggio; “Tribuna del Mezzogiorno”, Messina, 11 maggio; “L’Informatore”, Alessandria, 6 giugno; “Gazzetta dell’Emilia”, Modena, 12 giugno; “Ultimissime”, Catania, 12 giugno; “Corriere di Monza”, 26 luglio).

Qualche anno prima, egli aveva pubblicato sul primo numero – agosto 1951 – della rivista “Studi Gentiliani” diretta da Vittorio Vettori, un breve saggio che segnava in certo modo il battesimo letterario del nuovo indirizzo di conoscenza dischiusosi in lui durante il periodo della guerra, e cui avrebbe consacrato tutto il resto della propria vita. Il saggio recava il titolo significativo “Introduzione al pensiero vivente”. In esso egli additava quella via all’esperienza interiore che avrebbe poi illustrata e testimoniata con piú vaste implicazioni, senza però mai smentirla, nelle sue opere successive: «Abbandonandomi al pensare puro, ne sento l’essenza che mi si rivela come dalla piú intima scaturigine dell’essere, cosí che mi sembra di nascere con essa, di avere con essa l’inizio puro della mia coscienza» (tratto da “Introduzione al pensiero vivente”, in Studi Gentiliani, N°1, agosto 1951, Pisa). Avvento dell'uomo interioreIl saggio fu ripubblicato, con qualche lieve variazione, come Cap. XI del volume Avvento dell’uomo interiore, edito nel 1959 per i tipi della Sansoni di Firenze, di cui lo stesso Gentile era divenuto titolare nel 1932.

Cosí, in un pezzo di quel saggio, pubblicando su una rivista intitolata al filosofo dell’attualismo la primizia della propria futura produ­zione, Scaligero si riallacciava intenzionalmente alla corrente spiri­tuale che questi aveva inaugurato all’inizio del secolo, per trasmetter­vi un nuovo impulso. In seguito si sarebbe richiamato spesso, talvolta con armoniose consonanze di stile, all’opera di colui che considerava “l’ultimo filosofo europeo”, rilevandone il pregio e mostrandone d’altra parte le possibilità di sviluppo in ordine a una reintegrazione sovrasensibile del pensare.

Tecniche di concentrazione interioreSebbene sia da ricercarsi altrove la fonte ispiratrice della produzione di Scaligero posteriore al 1950 (per un primo accostamento all’opera di Massimo Scaligero, consigliamo oltre all’autobiografia citata nella nota successiva, il volume Tecniche di concentrazione interiore che ridà forse, con piú trasparenza di ogni altro, l’impulso spirituale di cui egli fu mediatore), è certo che Rosmini e Gentile, e in genere i filosofi spiritualisti del Risorgimento italiano, operarono con virtú fecondatrice sulla formazione della sua mente, contribuendo, grazie al sintesismo morale del loro pensiero e alla relativa espressione estetico-letteraria, all’indirizzo e alla forma espositiva degli scritti mediante cui egli si sarebbe fatto testimone dello spirituale nell’Italia della seconda metà del XX secolo.

Con Massimo Scaligero si perpetua dunque la vocazione conciliatrice dello spirito italiano, accolta sacrificalmente nel tessuto di una costituzione dell’anima offertagli come retaggio morale dall’organismo storico del suo popolo. Cosí, se il vigore igneo e cristallino del suo pensiero indusse taluni – come l’orientalista Giuseppe Tucci – a ravvisare in lui il maggiore pensatore italiano del XX secolo, per altro verso si ritrovano qua e là nelle sue opere osservazioni sulla pratica della preghiera e sul senso della devozione, cosa non consueta nel magistero di personalità rispondenti al tipo del “filosofo puro”. Tipo dal quale egli si discostava per la rilevanza che nella conduzione cosciente del suo destino ebbe l’azione ferma e risoluta della volontà.

Dallo Yoga alla RosacroceNell’esperienza da lui vissuta ad un punto cruciale del suo cammino, e descritta con fedeltà oggettiva nell’autobiografia, si scorge quel medesimo irradiare di una grazia soprannaturale nella vita dell’anima, di cui la storia della santità cristiana offre innumerevoli esempi. L’espe­rienza si svolse durante un periodo di detenzione in carcere dal giugno al novembre del 1944, dovuta a un equivoco di cui le autorità responsabili si sarebbero avvedute, rimediando con il rilascio e le pertinenti scuse. Come già era accaduto a Silvio Pellico, quella circostanza gli porse l’occasione di volgersi al bene essenziale che urgeva da tempo in lui. In Dallo Yoga alla Rosacroce scrive: «Potei cominciare ad attingere alle forze della solitudine e del silenzio, per ritrovarmi, come raramente mi era stato possibile prima, con il mio vero essere».

Per brevi momenti, fruendo di una condizione eccezionale, non destinata come tale a durare, e suggellante tuttavia il corso ulteriore della sua vita, gli si venne mutando in una grandiosa visione interiore la percezione dell’intera esistenza: «Ricordo che lungo il corridoio, passando davanti a ogni cella, ebbi la percezione di accogliere uno splendore dall’interno di ciascuna di esse, come se la luce dello stesso Io nel quale in quel momento vivevo con trascendente pienezza, emanasse da ciascuna di esse».

Anch’egli, dunque, percorse la sua via di Damasco e ne rimase folgorato, donde l’imperativo di farsi per il tramite del pensiero, apostolo della coscienza moderna.

 

Giancarlo Roggero


Tratto da: G. Roggero, Antonio Rosmini e la fedeltà micheliana del nostro tempo

Edizioni Estrella de Oriente – Primo volume della collana “La Filosofia italiana”.