Nel segno della vita

Socialità

Nel segno della vita

Moneta AurelianoDurante l’anarchia del terzo secolo, con un serrato avvicendarsi di imperatori, tra cui Settimio Severo, Aureliano e Diocleziano, il movimento tendente a divinizzare l’imperatore vivente si era accelerato. I principi di quel periodo facevano coniare monete con la loro effigie coronata da aureole raggiate, per affermare la loro natura di divinità solari. Aureliano si era fatto addirittura costruire un grande tempio dedicato al dio Sole, nell’area dell’odierna piazza San Silvestro. Era un santuario che per ampiezza e splendore superava quelli dedicati alle divinità solari, come il tempio di Apollo, massima deità solare, fatto erigere da Augusto sul Palatino, e quello dedicato al culto apollineo di Emesa, che Eliogabalo fece costruire sul pendío dello stesso colle, prospiciente i Fori.

Il culto del Sole, massima divinità sincretica del periodo, si identifica infatti con la persona del­l’imperatore, che con questa identificazione si propone come Pantocrator, il creatore e signore del cosmo. Nasce e si diffonde una teologia solare che parte dall’induismo, millenni addietro con la Danza Cosmica di Shiva e nella figura di Surya, il disco solare che attraversa il cielo, auriga su un carro trainato da sette cavalli bianchi, diventa poi il dio Aton dell’eresia di Tell-el-Amarna in Egitto, propugnata dal faraone Akhenaton, nella cui vicenda è accennato per la prima volta un tentativo di monoteismo. Nut, Geb e SoleTutte le divinità delle varie religioni e dottrine, dall’Oriente Estremo, passando per la Terra dei Fiumi, toccano i Misteri greci ed egizi, che hanno dato, questi ultimi, un’ennesima, fulgida testimonianza nel sarcofago venuto alla luce di recente a Saqqara, nel nomo del Delta su cui è dipinta la dea Nut. Questa dea, simbolo della volta celeste, dal connubio con Geb, dio della Terra, partorisce ogni notte Ra, il Sole. Mistero esteso al Walhalla dei Celti, per finire alle Cinque Ere Solari dei Maya e degli Aztechi, espresse in sintesi nella Pietra del Sole, con divinità come il grande dio Kukulcan dei Maya, Quetzalcoatl degli Aztechi, il Serpente Piumato, il Viracocha delle civiltà andine, miti che condensano e unificano in un solo dio il riscatto dell’umanità dalla caducità della materia, dal dolore e dalla consunzione: il Sole Invitto, il Sole della resurrezione che suggella, con la Luce del Cristo Eterico, la vittoria definitiva dell’uomo sulla morte.

Non casualmente quindi appare l’evento che certifica tale nascita sotto il principato di Ottaviano, poi Augusto, che volle, accanto alla sua dimora sul Palatino, il tempio di Apollo Aziaco, in cui brillava una face perenne, a significare la luce che crea e perpetua la vita. Una scintilla solare che, staccatasi dall’astro sovrano del cosmo, scende dal Cielo in una dimora terrena, dove sta nascendo l’uomo-dio. Mistero dei Misteri che, non casualmente, un poeta legato all’Imperatore “solare”, Virgilio intuisce. Nella IV Egloga, una delle sue poesie iniziatiche, “lo Duca e Maestro” di Dante, profetizza l’avvento del Puer, il divino fanciullo, la cui nascita attiverà la purificazione della materia creata con l’azione del Fuoco, l’ecpyrosis cosmica, che riporterà il mondo, l’umanità tutta, alla purezza del Primo Giorno: «Il fanciullo che io canto avrà in dono una vita divina e vedrà gli eroi mescolarsi agli Dei ed egli stesso sarà visto tra loro; e governerà il globo pacificato dalle virtú di suo padre».

Metacosmesis, il rinnovamento del mondo, apocatastasis, il ritorno degli astri nella loro ubicazione originaria sulla volta celeste, quella del Primo Giorno della creazione, erano termini riferiti all’avvento del Grande Anno, preconizzato dalla dottrina, o filosofia, neopitagorica, allora in auge.

C’erano poi le profezie, di cui la piú in tono era quella attribuita alla Sibilla Cumana, ad alimentare il millenarismo della IV Egloga virgiliana:«L’ultima Era della Profezia Cumana è finalmente giunta».

Gesù BambinoLa venuta del divino fanciullo era una delle aspettative messianiche di molte religioni e popoli del tempo di Augusto. Virgilio non ha fatto altro che assegnare la profezia all’ambito misterico romano, in tal modo riconoscendo all’imperatore un’investitura karmica, fatale, che lo rendeva degno del favor dei: a un sovrano posto all’apice dei grandi destini di Roma, un puer avrebbe chiuso la parabola delle parusie divine pagane per aprire, con l’incarnazione in corpo umano del Figlio di Dio, l’Età dell’Oro. Con Augusto si compie l’alto destino di Roma; con il Bambino di Betlemme, la palingenesi del mondo.

Solo in Roma, caput mundi, il Verbo del Cristo cosmico, Pantocratore, doveva trovare il naturale sbocco nella vicenda storica del Cristianesimo, che non è, in sintesi, la religione dei seguaci di Gesú di Nazareth, equivocato dai suoi e da tutti coloro che lo riducono alla figura di un arruffapopoli con abilità manipolatorie . Nella mangiatoia di Betlemme assumeva fattezze e organi umani la Luce della Vita, il Sole eterno, che la caducità della materia prendeva in sé per trasumanare e assumere connotazione divina, esaudendo cosí l’anelito primigenio dell’umano: la Vita immune dal dolore e dalla morte, promessa alla creatura da ogni divinità, in ogni epoca e dottrina.

Quello dello Spirito che si incarna nell’umano è un evento contemplato da varie dottrine misteriche. Gli Egizi celebravano la nascita di Osiride nella sua natura solare. Ciò avveniva nella “camera del parto”, detta “mammisi”, presente in tutti i santuari, per lo piú allocata in una cappella o nicchia a ridosso dei piloni di entrata. Qui, nelle congiunture astrali piú significative, specie ai solstizi, i rituali prevedevano che, dopo la recitazione di formule magiche appropriate per sollecitare il dio, questi si degnasse di scendere dall’empireo, il Campo dei Giunchi, e prendere corpo e fattezze umane, quasi sempre quelle del faraone in carica, avvalorandone in tal modo l’origine divina e il diritto al potere. Nei Misteri egizi, proprio perché sancivano, attraverso l’ipostasi della divinità, la natura divina del faraone e la sua omologazione politica e il diritto al trono, la cerimonia di divinizzazione avveniva in un tempio importante, con il fasto che il personaggio coinvolto richiedeva, pena la sua destinazione senza ritorno nell’Amenti, l’infernale Terra d’Occidente, il Regno delle Ombre.

È ipotizzato dai piú che in Egitto, come a Creta, si siano rifugiati i sopravvissuti di Atlantide e che vi abbiano portato le piú importanti conoscenze, da quelle tecniche e scientifiche a quelle dei Misteri. Conoscenze e saperi altissimi, eppure contaminati in negativo dalla memoria della deriva morale che aveva causato la rovina di una splendida civiltà. Il Disco di Festo riporta in simboli le vicissitudini cui andarono incontro gli scampati alla catastrofe che affondò il continente tra l’America, l’Africa e parte dell’Europa. Solone racconta che i sacerdoti egizi conservavano molte di quelle conoscenze e i motivi che avevano scatenato le forze telluriche responsabili del graduale inabissamento di Atlantide.

Anacoreta nella tebaideI Misteri egizi, reminiscenti delle cause morali, piú che geologiche, della catastrofe, si caricavano del segno della punizione divina, per cui il portato delle funzioni misteriche si riduceva a rito espiatorio. Ecco allora l’ipogeo, la cripta, il sotterraneo, la camera sepolcrale, divenire, negli umori autopunitivi, i topos del rapporto uomo-divinità, e dagli Egizi passare ai Greci, per cui la Sibilla di Delfi vaticinava ispirata dai vapori tellurici, ctoni, non dal fulgore sonoro di Apollo, suo possente nume solare.

Ecco allora i Padri del Deserto, i primi anacoreti, isolarsi nel deserto della Tebaide e qui macerarsi nella penitenza ascetica, nella negazione del mondo, indossando cilici autoflagellanti, seguendo diete radicali, osservando l’infrangibile regola del silenzio. Offrendo in emulazione la loro penitenza al Cristo a sconto dei propri e degli altrui peccati.

Che Lui ne fosse appagato e riconoscente, non è dato sapere. Certo è che se gli eremiti avessero continuato a emularlo con l’astinenza esasperata e il solipsismo da fachiri, poco avrebbero giovato alla causa del nascente Cristianesimo, che pure si era diffuso con la promiscuità sociale, tra le folle giubilanti ai prodigi operati da Gesú, ascoltandone la Parola che prometteva Beatitudini, moltiplicava il cibo per gli affamati, mischiandosi alle folle, non disdegnando il contatto fisico e animico con gli ultimi e i toccati da mali inesorabili. Il Cristo amava le moltitudini, i loro entusiasmi chiassosi, le ingenue meraviglie per vedere all’opera il carisma divino. Ci vollero Benedetto, Caterina, Chiara e Francesco per riportare Cristo dall’eremo solitario, e tutto sommato infecondo, al bagno delle folle di uomini e donne reclamanti un rapporto quasi carnale con il divino, affinché i mali di cui soffrivano si risolvessero grazie all’empatia miracolosa. Che questa fosse la via materiale, e la terapia morale, per ripristinare il rapporto misterico tra la divinità e l’uomo, lo aveva capito il Poverello d’Assisi, il Serafico. Nel Cantico delle Creature e nelle Laudi, Francesco aveva descritto la perfetta armonia che impronta il mistero della vita e il disegno divino nel volere la creatura, pianta, animale o uomo che sia, fruitore della stessa, ma in letizia, “laudando il Creatore”. Trovandosi al convento dei Minori di Greccio la notte di Natale dell’anno 1223, Francesco ebbe l’ispirazione di allestire il Mistero dei Misteri, la venuta del Cristo in terra, secondo il Vangelo di Luca, per divenire uomo carnale.

Presepio4Fece un “mammisi” cristiano, la “stanza del parto”, ricavandola da una nicchia nella roccia del monte. Pochi legni, della paglia, e nel variegato e variopinto cast animante il presepe, la gente del paese a far da contorno alle figure che formavano il nucleo dell’Arcano: insieme al Santo Bambino, Maria, l’Ancella che avrebbe dato vita alla Luce del mondo, e Giuseppe, della stirpe di Davide, il padre di tanto Spirito incarnato, campioni di un’umanità estatica e allo stesso tempo confusa per l’arduo compito di impersonare i protagonisti di un evento che, partendo da una grotta, avrebbe cambiato il destino dell’intero Creato.

Ogni anno, credenti e non, allestiscono un presepe, reale i primi, immaginario i secondi. Entrambe le figurazioni, che siano di coccio, di plastica o di fantasia, pronosticano l’avvento di un mondo e di una società che possegga i requisiti per fare della Vita una realtà degna di essere vissuta.

E per far sí che lo fosse, i Romani antichi, da razionalisti praticoni quali erano, autentici precursori nella materia, avevano applicato nel sociale la formula universale: “Libertà, eguaglianza, fraternità”, che pur diversa nel lessico dal postulato illuminista di secoli dopo, ne anticipava i contenuti morali. Durante i Saturnali che si celebravano a dicembre, nel periodo piú o meno corrispondente alle nostre festività di Natale e Capodanno, Roma era tutta un Sant’Egidio di tavolate imbandite, dove poteva capitare di trovare seduti uno accanto all’altro il servo e il padrone, il povero in canna con il ricco sfondato. I signori non disdegnavano di servire gli schiavi portando il pileum, il berretto che veniva imposto ai liberti affrancati, poi adottato dai sanculotti francesi. E nella baldoria, tutti amabilmente chiosavano di quanto era bella la vita e quanto si stava bene a Roma, e che forse gli Dei si erano finalmente decisi a ristabilire il Regno di Saturno, l’Età dell’Oro. Poi, per scaramanzia, lasciata la tavolata, andavano a gettare nel Tevere gli argei, i pupazzi di vimini che si portavano via al mare i guai dell’anno che finiva, mentre i sigilla, statuine di cera o di pasta, venivano scambiati come doni augurali per sigillare, chiudere l’anno. Intanto, tra un boccale e l’altro, tra un dolce di farro e una focaccia al miele, l’ideale che secoli dopo si attribuirono i giacobini e i socialisti cisalpini, era stato in qualche modo accennato, formulato, concepito e concupito: sedere tutti alla stessa tavolata ignorando essere e non essere, avere e non avere. Ma durava poco l’incantesimo dei Saturnali romani; seguivano inesorabilmente la guerra di conquista, quella per il potere interno, le crudeltà del Circo, le passioni per il dominio su persone e cose. Insomma, la legge di predazione riportava la Vita alla sua inflessibile necessità della forza maggiore, del potere assoluto. Non prevedeva l’indulgenza e il perdono. Tra le Leggi delle XII Tavole non c’era la Legge dell’Amore.

Quella Legge, scritta nel cuore e non sulle Tavole, veniva a portarla il Bambino quella notte, nella stalla di Betlemme, perché l’uomo amasse il proprio simile come se stesso, e finanche piú di se stesso, come hanno dimostrato nel tempo uomini e donne martiri per una fede, un ideale. Per l’umano desiderio di rendere la Vita degna di essere vissuta, l’umanità, a qualunque popolo e religione appartenga, vagheggia un mondo perfetto. Rudolf Steiner individua nella venuta del Cristo gli impulsi di cui l’umanità si è servita nel tempo per la realizzazione di quel mondo perfetto, attraverso la spiritualizzazione della materia, un progetto tuttora in divenire e di cui l’uomo sarebbe, al compimento finale, il beneficiario di elezione: «Quale impulso ha ricevuto l’umanità da quel suo grande modello, dall’entità che è discesa dalle altezze e si è congiunta in un corpo umano con le impronte microcosmiche degli elementi, dell’entità del Cristo? Guardiamo indietro ancora una volta ai messaggi dei popoli antichi. Tutti i popoli antichi, fin dagli indistinti primordi dell’epoca post-atlantica, erano ben consapevoli di come si svolge l’evoluzione umana. Dappertutto, in tutte le scuole dei Misteri, veniva annunziato quello che oggi di nuovo è, annunziato dalla Scienza dello Spirito, ossia che l’uomo consta di quattro elementi ‒ il corpo fisico, il corpo eterico, il corpo astrale e l’Io ‒ ma che può ascendere a gradi superiore di esistenza solo se con il suo Io egli trasforma per propria attività il corpo astrale nel Sé spirituale (Manas), il corpo eterico nello Spirito vitale (Buddhi), e se spiritualizza il corpo fisico fino a trasformarlo nell’Uomo spirituale (Atma). Questo corpo fisico deve venire a poco a poco spiritualizzato in tutti i suoi elementi; deve venire spiritualizzato cosí profondamente, nella nostra vita terrena, che quello che ha reso uomo l’uomo, il soffio dell’alito divino, ne venga anch’esso spiritualizzato. E poiché la spiritualizzazione del corpo fisico comincia con la spiritualizzazione del respiro, per questo il corpo fisico trasformato e spiritualizzato è chiamato Atma (Alito, nella lingua tedesca Atem). L’annunzio dell’Antico Testamento ci dice che l’uomo, all’inizio della sua vita terrena, ha ricevuto da Dio l’alito della vita; e tutte le saggezze primordiali vedono nell’alito della vita qualcosa che l’uomo deve a poco a poco trasformare. Tutte le concezioni antiche aspiravano ad un grande ideale, aspiravano all’Atma, a quello che rende cosí spirituale il respiro, da pervadere l’uomo di un alito spirituale” (R. Steiner, conferenza del 6 settembre 1924, O.O. N° 346).

Angeli cantori*A Roma, per il tempo natalizio, ogni chiesa ha un presepe, minimo ed essenziale nelle parrocchie di periferia, poi sempre piú digitalizzato e sontuoso, in crescendo, nelle basiliche del centro storico. Lo sfarzo non ha poi tanta importanza, e neppure l’impiego di tecnologie high-tech per rendere gli effetti notte-giorno, sereno-pioggia. Non ci sono automobili nella scenografia, e quindi nessuno viene investito e portato in codice rosso, non strillano le sirene spiegate, tutto è calmo e serafico. Gli Angeli cantano e suonano come previsto dal canovaccio originale, ma i loro strumenti e le loro voci non strepitano, anche se sgranano a tutta orbita i loro occhioni azzurri e le bocche si aprono ‘ore rotundo’ per un inno che potrebbe essere l’“Adeste fideles”, ma che per qualche divina ordinanza di rispetto liturgico avviene in una dimensione altra, concedendo solo una mimica. Alla Grotta del Mistero si attende Lui, il protagonista, ancora assente per ragioni cronologiche. Ma l’asino e il bue sono già lí, a media-luz, dietro la mangiatoia, fanno straordinario di presenza con i suonatori abruzzesi di zampogna, ciaramella e flauto. Si affollano villanelle con cesti di frutta e vivande varie, pastori oranti e greggi belanti nella devozione che nessun ateo sillogismo può vietare. E noi, affaticati viandanti, ci prostriamo, partecipi ormai, per magica simbiosi, della sceneggiatura.

Poi, alla mezzanotte fatidica, Lui viene, inerme, indifeso nella sua tenerezza di pupo umano, uno dei tanti figli della specie dei mangiatori di pane, donne e uomini che instancabilmente, con eroica ostinazione, filano, tramano, tessono la tela della vita, giorno dopo giorno, estate e inverno, al freddo e al caldo, in pace e in guerra, nella speranza che nel domani soltanto Amore e Vita prevarranno.

Lo promette la Stella che, dopo orbite inconoscibili, sta lí, sospesa a un filo di ferro sopra la capanna. E noi sappiamo che il Bambino della Grotta mantiene le Sue promesse, concede Beatitudini. Sempre.

 

Ovidio Tufelli