Cercansi rabdomanti

Socialità

Cercansi rabdomanti

Nell’antica Grecia, quando la città, la poleis, non riusciva piú a contenere la popolazione, si cercava altrove una località da colonizzare. Questa spedizione era chiamata apoikia, ed era guidata da un fondatore, che rappresentava la legge per tutti gli emigranti. Quando il nuovo insediamento era stabilito, non si trattava di una dipendenza dalla madrepatria, ma era una città del tutto autonoma.

Carmenta

Carmenta

Sessant’anni prima della guerra di Troia (l’ipotesi storica la colloca intorno al 1243 a.C.), due navi partirono dall’Arcadia per la Terra del Vino, o Enotria, l’Italia di oggi. A capo della spedizione c’era il saggio re Evandro, ritenuto figlio di Mercurio e della ninfa Carmenta, una thespiodos, una profetessa. Quando la ninfa vaticinava, non lo faceva articolando sillabe gutturali come la Sibilla Cumana – fonemi spesso incomprensibili, tanto che era necessario riportarli su foglie, a uso dei richiedenti il vaticinio – o come la Pitonessa di Delfi che, alloppiata dai fumi del crepaccio tellurico del monte Parnaso, oracolava i detti di Apollo in versi criptici che solo i sacerdoti potevano interpretare. Carmenta invece, quando era posseduta da un’entità superna, i suoi responsi li cantava, rendendoli espliciti.

Fu lei, Carmenta, che suggerí a Evandro, ispirata dagli Dei, di fondare un villaggio rustico sul colle che emergeva dalla palude che il fiume Tebro formava esondando dal suo letto e colmando la Valle dei Mirti, la Murcia, dedicata a Venere. Secoli piú tardi, al posto dei sacri mirti della Dea dell’Amore, la valle echeggiò degli stridori dei carri sfrenati nei giri di corsa, dei nitriti dei cavalli, delle urla degli spettatori che incitavano gli aurighi alla vittoria: il Circo Massimo. E secoli ancora piú tardi, nella Valle sacra a Venere, si attendarono i partecipanti a raduni rock, comizi politici e adunate protestatarie.

Il Tebro, in forma umana, aveva esortato Enea ad approdare in quel sito fatale per la sorte di Roma. E ciò fece l’eroe, esule da Troia, con suo figlio Ascanio, accolti in amicizia da Evandro.

Immaginiamo all’epoca come si doveva presentare il Colle del Palatino, che prendeva il nome da Pallante, eroe arcadico: un’isola emergente dalla maremma del sacro fiume, come accadeva anche al Celio e all’Oppio. Questa facoltà accordata al divino fiume di esondare e parlare con gli umani – magari in qualche occasione persino bacchettarli con trabocchi le cui estensioni ed altezze sono tuttora segnalate da tacche numeriche sui palazzi di Ripetta – durò fino all’Unità. Due regali in apparenza, ma correttivi nella sostanza, portarono alla Roma spapalizzata i liberatori sabaudi: l’Altare della Patria, a sovrastare e impedire la vista del Campidoglio, e i muraglioni con cui l’architetto Canevari impose al Tevere di starsene buono buono nel suo letto, tanto era vetusto e fuori dalla storia. Le libere uscite dagli argini non si addicevano ormai piú al decoro e alla disciplina da caserma, venata di calvinismo, che lo Stato Unitario imponeva. Si stavano forgiando gli italiani allineati e composti: dalla padella clericale alla brace risorgimentale. Quando l’inganno fu palese, vennero i reazionari, nelle varie colorazioni ideologiche, di casta, di campanile, di cosca e di paranza. E fu l’Italia mamelica, anzi babelica, un gran berciare scomposto e inconcludente in cui, prima o poi, chi ha le spalle piú larghe, il pugno di ferro, la voce piú grossa, impone il silenzio e l’ordine. Cosí, vengono i cosiddetti “uomini della Provvidenza”, che la Provvidenza manda nel modo e nella misura dell’emergenza, la cui responsabilità è da addebitare, tutta e sempre, agli stessi che l’hanno prodotta.

Giorni fa è venuto giú un pezzo di muratura dell’acquedotto che Traiano fece costruire nel 109 d.C. e il papa Paolo V restaurò nel Seicento. È il decimo degli acquedotti che portavano, e alcuni tuttora portano, acqua alla città di Roma. Il crollo ha riguardato il tratto dell’opera che costeggia Villa Pamphilj, con le mai spente memorie di Donna Olimpia Maidalchini, la favorita di Innocenzo X. L’acqua proviene dal lontano Lago di Bracciano, e rifornisce il celebre Fontanone del Gianicolo. Davanti il Belvedere, sosta obbligata per milioni di turisti e di romani che cercano il fresco d’estate, e in ogni parte dell’anno quegli umori e sentori che alita l’Urbe distesa da Trastevere ai Colli Albani, sempre piú dimentica della sua magia e del suo mistero.

Villa Doria PamphilijDegrado e vandalismi oltraggiano l’immenso parco dei Pamphilj, con le sue fontane monumentali, le statue e le scenografie della mitologia panica greco­romana. Sciupando la pace agreste, assediano quasi il Bel Respiro, la sontuosa residenza ‘fuori porta’ che la Papessa fece costruire per ricevervi e stupire la bella gente della corte papale e i forestieri d’alto bordo in visita a Roma, una città pecoreccia e cialtrona di cui lei, la regina de facto, complici Bernini e Borromini, progettava di fare una metropoli al passo coi tempi, da superare persino Parigi e Londra,

Un progetto il suo che solo in parte funzionò, per quella vena di genetica abulia e accidia di cui era ed è affetto il popolo italiano in generale e romano in particolare, tara dovuta, secondo il principe di Salina, Fabrizio Tomasi di Lampedusa, alla stanchezza, allo svuotamento, al logorío fisico e morale della troppa storia vissuta e pagata col protagonismo, con la sottomissione o la prevaricazione.

Abulía e disinteresse sono stati chiamati in causa anche per le macerie causate dal cedimento dell’acquedotto imperialpapalino, allertando le associazioni ecologiste che hanno stigmatizzato, veementi ma impotenti, l’accaduto, non unico e non ultimo nello scenario da liquidazione della città.

Naturalmente il crollo dell’acquedotto di Traiano ha dato il la a varie interpretazioni e soprattutto strumentalizzazioni. La prima, quella politica, ha chiamato al banco degli imputati la sindaca, il cui nomen si porta addosso un omen drammatico. Corre l’anno 446 a.C. Virginia, procace e candida fanciulla in fiore è concupita da uno stalker ante litteram, Appio Claudio, potentissimo e vizioso aristocratico, uno dei decemviri che quattro anni prima, nel 450 a.C., avevano stilato le Dodici Tavole, la prima costituzione di una società occidentale di cui si ha notizia. I tempi non cambiano: integerrimo sulla carta costrituzionale, Appio Claudio poco o nulla lo era nella vita sociale. Un molestatore e un prevaricatore coi fiocchi, e Virginia una facile vittima: era figlia di Virginio, un plebeo, tra l’altro spesso assente da Roma perché serviva nell’esercito, impegnato a battagliare con i popoli viciniori: Latini, Volsci, Equi, Etruschi, Falisci. Insomma, un soldato di carriera, e Virginia troppo bella e indifesa. Date le premesse, la storia non poteva avere un svolta diversa. Il lupo Appio, per divorare la pecora Virginia, la sequestra. Il popolo si ribella: è in gioco l’onore plebeo, già troppo prevaricato dai patrizi. Qualcuno corre a informare il padre della giovane impegnato con l’esercito a ‘sistemare’ gli Aurunci.

Virginio si precipita a Roma, abbraccia la figlia in custodia coatta del tribunale, addomesticato da Appio. Il popolo tumultua, reclama il rilascio della fanciulla, negato senza appello. Allora Virginio, la figlia tra le braccia, afferra il gladio di un milite lí accanto e la trafigge piú volte, con queste parole: «Libera e casta, o figlia, ti mando agli antenati sotto terra. Da viva non ti sarebbe stato lecito conservare queste qualità a causa del tiranno». Il quale, in disgrazia per l’accaduto, venne destituito.

Se una morale può ricavarsi dall’episodio assai triste e crudele di Virginia, è che bisogna rispettare le leggi dello Stato ma non necessariamente imitare chi le compila, spesso in balía di un cattivo genio.

E da questa cupa morale ne deriva un’altra: non tutti i femminicidi eliminano le donne, pugnalandole. Basta indurle, con la lusinga del potere, a governare una maliosa seppur intrigante città come Roma, che gioca tuttavia la carta dei suoi incantesimi quando meno te lo aspetti, cosí riscattando il presente e il futuro con i misteri del passato.

Ipogeo di via LivenzaUno di questi atout è venuto alla luce lo scorso dicembre, al numero 4 di via Livenza: un ipogeo con piscina risalente al IV secolo. L’acqua lustrale si è ritirata lasciando a secco un bacino profondo due metri e mezzo. Il sottovuoto dell’ambiente ha permesso la conservazione integra nei toni e nel figurato degli affreschi con richiami a un culto sincretistico tra il declinante paganesimo e il cristianesimo in fieri. Un capolavoro che gli esperti ritengono unico nella resa pittorica e musiva, e piú ancora nel simbolismo misterico riferito al culto dell’acqua praticato dalla setta dei Baptai, che adoravano la dea tracia Cotys e che con il battesimo rituale entravano in una trance estatica, con esiti, secondo gli archeologi, taumaturgici.

La scoperta di via Livenza segue quella altrettanto straordinaria della serie di laghetti nel ventre del Celio, a dieci metri di profondità, sotto la chiesa dei Santi Giovanni e Paolo, con il Colosseo a pochi passi e muro a muro con le ciclopiche fondamenta del Tempio dell’imperatore Claudio, metà del I secolo. Le misure della platea del santuario imperiale, 200 per 180 metri, poteva contenere tutto il Colosseo misurante 180 per 156 metri. L’acqua dei laghetti, che grazie a una percolazione costante ha dato vita a stalattiti e stalagmiti di forme e cromíe fantasmagoriche, si mantiene a una temperatura costante intorno ai 12 gradi, ed è risultata, alle analisi condotte dagli esperti, “limpida e batteriologicamente purissima”.

Maestri nello sfruttamento e nell’impiego terapeutico delle fonti idriche erano stati per i Romani gli Etruschi. I Romani consideravano l’Etruria la madre di tutte le superstizioni e magie. Con il termine magía si intende ogni pratica mirante, con formule rituali e con idonei strumenti, a interpretare i fenomeni della natura e degli uomini, per capire quali forze stiano dietro di essi, e se occorre evocarle in caso di necessità per convogliare tali energie cosmiche o telluriche e ottenerne aiuti, consigli e ammaestramenti. Energie invisibili che le liturgie magiche rendono palesi e benevole per chi le evoca.

La magia piú diffusa nel mondo antico in generale e particolarmente in Etruria fu quella delle acque: sorgenti, fiumi, laghi e stagni, che si ritenevano abitati da ninfe, dee e fate costituivano il veicolo di quelle energie benefiche in grado di curare chi vi ricorreva. L’impiego sacrale di quelle acque, che si ritenevano ricettacolo di entità soprannaturali o magiche, era in uso presso gli Etruschi, specialmente da fonti sgorganti in grotte e ipogei, e rappresentava un presidio terapeutico e rigenerativo espletato con abluzioni, immersioni e liturgie lustrali di purificazione.

Molti sono i tempietti delle acque sparsi nella campagna intorno a Viterbo e nella bassa Toscana. In alcuni sono visibili ancora le vasche per le abluzioni e i bagni lustrali, e i cunicoli di cui si ipotizzano gli usi e le destinazioni è molto plausibile che fossero condotte idriche convoglianti in superficie, da flussi d’acqua ingrottati in profondità, le polle sacre e curative.

Lo stesso uso può attribuirsi ai profondi pozzi rinvenuti in molti siti archeologici, anche se vari esperti ritengono che sia i cunicoli che i pozzi potessero avere una funzione diversa dall’uso meramente idraulico, e cioè che le acque sacre, piú che curare, venissero impiegate per la celebrazioni di culti magici evocanti entità telluriche, quando non prettamente infere.

Il labirinto di Porsenna

Il labirinto di Porsenna

L’interazione degli Etruschi con il sovrannaturale e il magico seguiva spesso procedure spregiudicate, di cui danno prova sia i monumenti funebri che i templi. Da qui l’impenetrabilità dei loro usi e rituali. Una caratteristica comune infatti a molte delle loro pratiche magiche è la predilezione ossessiva per i percorsi sotterranei labirintici, i cunicoli a meandri rivolventi, privi di ogni scopo, pozzi senza fondo e intricate gallerie declinanti nel nulla. Chiaramente simboli di un passaggio in una dimensione oltre, di cui non si hanno chiare determinazioni. Ma da cui sacerdoti, auguri e geomanti, ricavavano energie ctonie per i loro responsi, forze nascoste nel grembo della Grande Madre, che grazie alle loro capacità evocative, sussidiate da strumenti e formule idonee, si palesavano.

Da qui è possibile concludere che gli Etruschi, piú di qualunque altro popolo dell’antichità, abbiano inteso la Terra come un’entità vivente e parlante, in grado di connettersi con la creatura umana e interagire con essa, in un rapporto simbiotico e osmotico allo stesso tempo. Ecco quindi il sepolcro, il tempio, l’ipogeo, il tumulo, essere segnati da porte accennate, da involuti meandri, da condotti scivolanti senza scopo giustificabile nel sottosuolo, alludendo a una spasmodica ricerca di una dimensione avente caratteristiche spazio-temporali aliene e avulse dalle nostre. Energie magnetiche catturate con queste trappole architettoniche e adoperate per svelare il mistero della vita oltre la vita.

Ricostruzione del progetto della Domus Aurea di Nerone realizzata dalla Soprintendenza Beni Archeologici e Culturali

Ricostruzione del progetto della Domus Aurea di Nerone realizzata dalla Soprintendenza ai Beni Archeologici e Culturali

Magnetismo e magia erano alla base delle formule che i popoli italici, latini compresi, recitavano nei rituali riguardanti il tollere, togliere, o egere, far sgorgare, l’acqua dal suolo. Un carmen malum fu recitato da un consesso di “gizie”, maghe sabine e marsicane, convocate da Vespasiano nel 72 d.C. per seccare in aeternum le sorgenti che alimentavano la Valle Velia, là dove Nerone aveva sognato di ricavare il lago artificiale a corredo naturalistico della Domus Aurea in progetto.

Non sono giunte fino a noi le formule in dialetto osco-sabino recitate e mimate dalle maghe interpellate in varie occasioni, dai tempi piú remoti fino agli anni Venti, quando si ricorse a loro per domare le esondazioni del Fucino e di altri invasi abruzzo-laziali. Le nenie di quelle maghe canore dovettero però cedere il passo alle moderne opere di prosciugamento, perché si erano ormai perduti lo spirito autentico del rito e le tecniche per praticarlo. L’espressione orale che vuole essere affidata alla memoria deve obbedire a determinate leggi, scoprire il ritmo della lingua, sottomettersi a ripetizioni di parole o anche semplicemente di sonorità. La prima prosa latina, ai suoi inizi, è vicinissima alla poesia spontanea, quella che i Romani chiamavano carmen, e che è talvolta come un ballo della lingua, talvolta un gesto rituale d’offerta, in grado di trasfigurare la realtà.

È il canto evocatore dei rabdomanti dello Spirito, necessario per ritrovare l’acqua di purificazione celata nel sottosuolo e farla sgorgare, affinché sia risanato il male dilagante e si attui il prodigio di una resurrezione dell’attuale civiltà.

 

Ovidio Tufelli