Sfruttati e Sfruttatori

Considerazioni

Sfruttati e Sfruttatori

Non ci tenevo a farlo, non mi va di parlare in pubblico senza neanche un minimo di preparazione, ma loro hanno insistito; hanno detto: «Ma dai! Vai al microfono, di’ qualche parola cosí, alla buona! Siamo tra amici…».. Eccoli gli amici! Mi hanno messo alle strette, come dire, in condizioni di… insomma, ripeto, non volevo, ma adesso sono qui e credo che tutti si aspettino che mi metta a dissertare sull’argomento. Mi scuso pertanto fin d’ora se non sarò il brillante ed esaustivo oratore che vi aspettavate. Il tema è complesso, ampio, ed io poi, fino a poco fa, ero immerso in un tutt’altro ordine di pensieri. Comprendo dall’argomento proposto che viene richiesto qualcosa di piú sostanzioso che un semplice discorsino fra amici (che poi, mi pare che qui ci siano tante persone che non ho mai visto prima d’ora, quindi adeguo subito il mio concetto di amici, estendendolo a tutti i presenti, augurandomi d’aver fatto bene e di non sollevare obiezioni).

Il visone sulla pelleIl titolo del nostro incontro mi fa tornare alla mente il vecchio film di Delbert Mann, “The Touch of Mink” (Il Visone sulla Pelle), del 1962. Una brillante commedia con Cary Grant e Doris Day. Lui è un top manager industriale con addentellati politici (usanza yankee di quei tempi) e la Day (Miss Timberlake) una deliziosa candida ame­ricanina di periferia, dotata però di un cervellino molto pratico che funziona alla grande. Lui, ovviamente, la corteggia; si pavoneggia garbatamente rivelandole di dover volare a Filadelfia per tenere un discorso a un importante congresso di alti papaveri dell’industria e della finanza. Discorso che evidentemente impensierisce alquanto l’attempato manager. Il tema del meeting è: “Le risorse non sfruttate dei paesi sottosviluppati”.

«Lei che ne pensa, Miss Timberlake? Cosa dovrei dire?» chiede lui cercando di tirarla un po’ sul ghiaccio e vedere quel che ne salta fuori. La Day sgrana gli occhioni azzurro-hollywood da ingenuona di lungo corso, e, senza la minima esitazione, spara: «Le risorse non sfruttate dei paesi sottosviluppati? Oh, Santo Cielo ! Beh, dico che bisognerebbe sfruttarle!».

Il Big Manager, nonché conferenziere ad interim, accusa il colpo, stringe le labbra, abbassa la testa, ma recupera subito, e con morbido imbarazzo le confida: «Miss Timberlake, lei ha appena condensato in cinque secondi un discorso di tre quarti d’ora».

Signore e signori, in questo momento mi piacerebbe tanto essere Miss Timberlake, cosí a questo punto avremmo già finito e voi potreste tornarvene a casa avendo ben afferrato il nocciolo della questione. Purtroppo le cose non stanno cosí, non assomiglio per niente a miss Timberlake e quindi devo arrangiarmi con i mezzi che possiedo.

Pur tuttavia lo spezzone del film or ora richiamato non è del tutto fine a se stesso; contiene qualcosina di piú, qualcosa che non si può capire con facilità, non fa parte della trama, e non è stato con tutta probabilità neppure voluto dalla regía; è un qualchecosa di presupposto, anche se non è astratto; senza di esso l’intera la narrazione cinematografica ne soffrirebbe.

Premetto subito un principio che stabilisce una regola universale: là dove c’è uno sfruttato, c’è sempre anche uno sfruttatore. Naturalmente, piaccia o no, la regola è reversibile. Se l’ho intuito io, vuol dire che è intuibile da chiunque, basta rifletterci su un pochino. Bisogna quindi ‘uscire’, per cosí dire, dai dettagli della vicenda esaminata, che sono sempre diversi, e risalire all’elemento nel quale essa ha trovato fondamento e si sviluppa. Questo elemento è l’amore. Banale, vero? È evidente che in una commediola rosa degli anni Sessanta tutto giri sulla giostra dell’amore. Amore finalizzato ad uno scontatissimo happy end. Ma questo, dal momento che l’abbiamo individuato, ci permette adesso di costruirvi sopra ulteriori ragionamenti che dal film ci traghettano invece al nostro tema odierno.

Ci possiamo chiedere: c’entra l’amore con lo sfruttare o col farsi sfruttare? In apparenza, no; l’amore, per lo piú inteso come forza d’attrazione pervadente l’animico/corporeo, anche nelle sue forme piú nobili ed elevate, di solito non legate pedestremente alla polarità sensibile, ha una sua origine misteriosa e imper­scrutabile; viene interpretato non solo da analisti e sessuologi, ma anche da artisti, teologi e filosofi, come un’apertura senza confine, un impulso alla donazione di sé, un dedicarsi all’altro/a, che, nel caso, diventano il centro e la finalità della nostra vita affettiva, ne giustificano lo slancio e gli sforzi necessari alla realizzazione.

Eppure abbiamo sentito nominare, qualche volta, il “ricatto d’amore”. Cosa vogliamo esattamente esprimere con questa locuzione? Che tra due innamorati vi sia uno che cerchi di sopraffare e l’altro che conceda di subire?

Spiegazione quanto mai generica e banale; non dice nulla, anche se fotografa alcune situazioni. I figli, ad esempio; o i nipoti, se ci sono; non abbiamo forse cento volte subíto la loro carica di simpatia, d’affetto, d’amore. impetuosa o insinuante, a seconda dei casi, eppure sconvolgente, di fronte alla quale siamo rimasti quasi inebetiti, disarmati e disposti a qualunque concessione pur di non contrariarli, non affliggerli col nostro veto?

Non dimentichiamo però che siamo stati figli e nipoti anche noi, e pensandoci bene qualche piccola opportunità abbiamo saputo crearcela ai nostri tempi, anche se le situazioni e la qualità dei rapporti erano diverse da quelle attuali.

Violetta Valéry

Violetta Valéry

Un fatto, direi primigenio per non dire epigenetico, si evince in modo chiaro e sintomatico: il neonato, vedendo arrivare la mamma, sorride ed emette strillini di gioia. Lo so che non è una cosa bella da affermare, e che qui m’inimicherò piú di una signora, ma per almeno tre quarti, quella sua manifestazione di gioia è dovuta al fatto che nella mamma il piccolo vede arrivare la “pappatoria” e si pregusta il ristoro.

La stessa natura umana è quindi – dapprima – predisposta a collegare ogni forma di manifestazione del cuore con il soddisfacimento delle necessità corporee, ovvero quelle basilari per la crescita e lo sviluppo dell’organismo. Niente di male; anzi, è opportuno che sia cosí. Basta non eccedere; anche se pochi sono quelli che sembrano accorgersene. Le relazioni interpersonali con le quali siamo in pratica tutti collegati, formano una dimensione morale che non impone regole o comandamenti, ma crea dei tracciati precisi: chi si avventura fuori di questi, viene a trovarsi come lo sciatore della domenica che maldestramente abbia imboccato una pista nera.

Succede quando la passione raggiunge livelli divampanti e finisce per combinare disastri d’ogni genere: lo sa Menelao, lo sanno Paolo e Francesca, Otello e sicuramente, per certi versi, ne sa qualcosa pure Violetta Valéry: «Ma la passione spesso conduce a soddisfare le proprie voglie».

Non che debba essere una regola, ma anche per Fabrizio De André, molti guai nascono cosí.

Col tempo tuttavia le cose cambiano; le forme iniziali, nella loro struttura elementare, da semplici tendono a farsi complesse, sofisticate al punto che anche un tema solo in apparenza innocuo come il nostro “Sfruttati e Sfruttatori” diventa pretesto per animate discussioni dottorali, e accademiche, (aspiranti al Nobel della Chiacchiera Salottiera) e assume talvolta aspetti intrinseci cosí aggrovigliati e contorti da far cascare le braccia pure a quelli che, per studio o per diletto, avrebbero onestamente voluto interessarsene e approfondire.  

Romace ScammerCi arrendiamo all’idea che a questo mondo ognuno è libero di pensarla come vuole, che non è certo un’idea da buttar via, ma purtroppo comporta, come immediata conseguenza, l’insorgere di un caos di pareri ed opinioni contrastanti, le quali, a loro volta, creano una specie d’atmosfera di conflittualità permanente, e non approdano mai su un terreno che si possa definire solido e sicuro. In altre parole si vorrebbe trovare un principio sul quale non ci sia nulla da ridire per il motivo che l’umanità, nella sua interezza, si trovi concorde sul fatto che esso risulti giusto, incontro­vertibile e al riparo da ogni critica.

Dall’ammucchiata delle attualità quotidiane, ap­prendo oggi il verificarsi di casi chiamati con voce anglofona “romance scams”; una nuova invenzione per truffare persone indifese dal cuore tenero che per una minima dose di melassa affettiva sono disposte a sborsare quattrini. Nulla di nuovo sotto il sole; in ogni epoca si è fatto commercio del sesso, e non ci vuole un grande sforzo immaginativo per capire che lo si può fare altrettanto bene anche con i sentimenti (in tal caso ovviamente artefatti da parte di chi conduce lo scambio). In quest’ultimo caso, le modalità sarebbero soltanto piú soft, ma la musica non cambierebbe.

La nostra disponibilità all’amore è ricattabile ovunque e comunque; da grandi e piccini; con la differenza sostanziale che i piccoli hanno dalla loro la scusante dell’innocenza; la non colpevolezza degli atteggiamenti istintivi li protegge dal peso del debito morale.

Non per noi adulti. Il nostro amore sarà poi vero amore? Interrogativo difficile che tuttavia ci farebbe uscire dal seminato; diciamo cosí: piú che di amore si tratta della nostra speranza d’amore. Questa speranza viene violentata, umiliata, infangata e ricattata ripetutamente ogni giorno; come quell’asino che girando per anni attorno al pozzo, legato con la cavezza al saliscendi del secchio, una volta libero dal basto, non riuscí piú a camminare dritto, cosí pure noi uomini, gabbati per secoli nella speranza d’amore, puntualmente delusa, siamo arrivati all’epoca in cui il concedere che cosí sia e continui a perpetrarsi in danno dell’intera collettività non fa piú né freddo né caldo. Ce ne siamo immunizzati, non abbiamo piú la sensibilità; l’atrofia patologia degenerativa è accettata come fosse un rimedio; persa la speranza, sfumata lentamente nei lunghi cammini che evidentemente non avevano Santiago de Compostela come meta finale, non ritroviamo dentro di noi ulteriori disponibilità a credere nell’amore. E mi pare che questo risulti ben visibile sul volto di tutti.

Chi trova in questo sillogismo qualche cosa di tirato per i capelli, approfondisca la propria cultura nella cronaca rosa prima e in quella nera dopo, provi a cercare una linea di confronto. A volte non è facile capire se ci sia una corrispondenza precisa tra una “fuitina d’amore” con riparazione successiva e una “amazzatina” d’onore, con occultamento di cadavere, qualche anno dopo. Anche le autorità inquirenti sono imbarazzate nel dover tirare certe deduzioni.

Nell’amore perduto, nell’amore tradito, c’è sempre qualcosa che sfugge. «Amore che vieni, amore che vai…» cantava tempo fa il già citato grande Faber ed eravamo in molti ad ascoltarlo col cuore in mano aspettando che tra una strofa e l’altra il cantautore ci fornisca la ricetta dell’amore perduto per non perderlo piú. Chissà, se l’avesse saputa, forse, le cose gli sarebbero andate diversamente. A noi sono rimaste le parole, la musica, la sua voce, ma soprattutto sono rimasti gli interrogativi interiori che le sue canzoni hanno saputo suscitare. Sembra incredibile ma per procurarci un attimo d’incontro vero con noi stessi, la nostra interiorità ha bisogno di farsi prima “canzonare” per bene. Piú o meno, gli affanni d’amore sono quelli che l’uomo si porta dietro da sempre; sentirli però cantati come lui sapeva, e ascoltarseli nell’intimità, era un’altra cosa. Pur tuttavia una visione sullo sfruttamento (attivo e passivo) che restasse impigliata nelle argomentazioni dell’amore, anche se celebrative, offrirebbe una panoramica davvero limitata e tutto sommato sfiorerebbe appena il tema principale senza centrarlo.

Non c’è settore della vita in cui non siano ravvisabili i termini per indicare sfruttati e sfruttatori. Non solo amore quindi, nelle sue varie gradazioni, ma anche libertà, salute, socialità, politica, lavoro, arte, sport e perfino nel dopolavoro ricreativo. Se non ho indicato tutto, è solo perché mi sono dimenticato qualcosa, ma credo d’aver chiarito il pensiero.

Qui tuttavia, se davvero vogliamo fare una ricerca onesta, salta agli occhi un particolare interessante; finora nel parlare di sfruttati e sfruttatori abbiamo sempre creduto che il fenomeno di volta in volta si riferisse al settore preso in considerazione, che ne costituisca un fattore intrinseco, cresciuto e sviluppato all’interno del complesso d’appartenenza. Non sto nemmeno per un attimo a descrivere lo sfruttamento nell’amore, negli affetti o quant’altro, perché credo che esempi di questo tipo li abbiamo tutti sotto il naso quotidianamente. Lo sfruttare qualcuno o qualchecosa è del tutto trasversale.

La Passione di CristoOvunque ci sia un gap esageratamente cresciuto, là arriva puntualmente la strategia del ricatto, anche nei dettagli piú piccoli. S’insinua, strisciando a livelli subliminali, ma procura comunque disagi, tensioni e amarezze non facili da dimenticare. Ricordo certi consigli di mia madre, che, povera donna, me li poneva nel cuore con una serie di accenti perentori, vessativi e condizionanti che io, timoroso, e al solito obbediente, accettavo, ma che vivevo come assilli coercitivi per l’esercizio della libertà, e che non mi concedevano di gustare le cose come avrei voluto: «Non correre, ché dopo sudi e ti prendi un malanno. Non darai questo dispiacere a mamma tua, vero?». «Promettimi che non berrai acqua quando sei sudato, altrimenti, oltre a tutto quello che ho già da fare, dovrò anche curarti!». Pure i preti tuttavia, a quei tempi, non scherzavano; durante le lezioni di religione, o nelle pause della ricreazione, non perdevano occasione per ripeterci che ogni nostra marachella era una spina che faceva sanguinare la fronte a Nostro Signor Gesú Cristo e che i peccati (quelli che per ora non facevamo, ma che da grandi senza dubbio avremmo commesso) sarebbero state autentiche spade nel cuore della Vergine Maria.

Pure a livello esemplificativo, c’era una certa propensione allo spargimento emorragico nell’insegnamento del catechismo. Penso che anche l’attore-regista Mel Gibson, in occasione del suo film “La Passione”, debba aver attinto a memorie del genere.

Ma, a parte l’inciso, nel campo del lavoro gli squilibri tra chi ha il cosiddetto posto fisso e chi invece è costretto ad operare nel precariato sono tali da raggiungere, prima o dopo, effetti para­dossali che viaggiano veloci e sono all’attenzione di tutti. La sperequazione è il terreno migliore su cui coltivare il ricatto.

Il che farebbe pensare a scontri tra categorie opposte: datori di lavoro e prestatori di servizio; dipendenti pubblici e privati; metalmeccanici e liberi professionisti. Invece no, la teoria globale del ricatto è del tutto trasversale, a tal punto che è capace di compiere delle efferatezze para-mafiose pur di far valere gli interessi in gioco. Abbiamo imparato a sfruttare le nuore per ricattare le suocere, cosí puntualmente, in estate, scioperano gli addetti ai traghetti mettendo a rischio le vacanze di migliaia di turisti, scioperano i ferrotranvieri creando ulteriori difficoltà ai lavoratori pendolari, e non di rado scioperano pure gli operatori sanitari mettendo a collasso le già fatiscenti strutture ospedaliere e mandando in crisi i bisognosi d’assistenza.

Qualcuno si è chiesto cosa abbiano fatto di male i turisti, i pendolari e gli ammalati (escludendo gli ipocondriaci) per trovarsi in mezzo ad un braccio di ferro tra due opposizioni che non si scontrano tra loro in campo aperto, non si guardano negli occhi, evitano la pazienza, il buon senso e la franchezza come fossero malattie infettive. Spudoratamente invece si approfittano dei deboli, degli inermi, di quanti possono solo lamentarsi, imprecare e arrangiarsi obtorto collo alla bisogna. Eppure queste categorie in conflitto sono formate da uomini certi di finalizzare i loro obiettivi in maniera legittima e corretta.

E le nostre autorità? Le nostre istituzioni? Forse tentano in qualche modo di frenare, di arginare questo florilegio di soprusi, piccoli, medi e grandi, con qualche autorevole intervento, che non sia però il fervorino rituale per la consegna di qualche medaglia al valore, o per una borsa di studio e per un gesto altruistico da sbandierare all’insegna de: «Il Paese c’è!».

Nemmeno per sogno! Anzi, la stessa politica si appropria del comodo meccanismo ricattatorio stile Cosa Nostra. Se ne serve alla grande anche nei rapporti con le altre nazioni, che sono chiamate, se non a gestire, almeno a condividere le problematiche di casa. Per cui girano sui nostri mari gommoni e carrette stracolme di poveretti (vittime a loro volta di altre serie di ricatti subiti nei paesi d’origine) ai quali non viene concessa l’autorizzazione a sbarcare e porsi al sicuro sulla terra ferma, perché è in corso un inclassificabile braccio di ferro tra i vari Stati che non trovano, o non vogliono, un’intesa ragionevole sul come occuparsi della inevitabile assistenza da programmare prima e dopo l’accoglimento. Qualcuno spinge la propria maliziosità a vedere uno sfruttamento nel problema generale del flusso-migranti, e c’è chi sostiene la tesi, piuttosto audace, che gli sfruttatori non siano soltanto gli organizzatori dei trasporti via mare, ma che vi siano delle forze in gioco (per me sarebbe piú giusto dire “debolezze” in gioco) cui sta bene l’attuale situazione, onde ricavarne un prestigio o un profitto.

Per mettere in secondo piano e velare i veri problemi del paese (per ora irrisolvibili, dato il grado di coscienza degli amministratori e degli amministrati) il vecchio sistema del panem et circenses funziona ancora egregiamente. Tanto egregiamente che se in un impeto di follia, innovativa ma lucida e lungimirante, venisse tolto al popolo un qualche sospirato circense, che ne so, metti una partita di pallone, magari una di quelle della champion, apriti cielo! Gli strilli di protesta invaderebbero l’ordinario disordine, procurando risentimenti e mugugni per giorni tutt’altro che sereni.

Da poco circola la notizia di un aumento dei medicinali da banco assieme a una nuova restrizione della deducibilità delle spese medico-sanitarie in sede di dichiarazione dei redditi. Le anime inclini alla polemica e alla protesta si preparino, troveranno nuovi spunti per scatenare l’ennesima stizza rattenuta e vilipesa.

Contemporaneamente, la moglie-agente di un famoso calciatore di serie A nicchia a rinnovare l’accordo economico con l’attuale club del maritino, perché l’ingaggio dei quattro milioni e mezzo di euro (a stagione) previsti dal contratto in corso, appaiono insoddisfacenti rispetto alle prospettive offerte dal mercato. Senza bisogno di particolari esegesi, tradotto direttamente in vulgata, sta per: «Voglio piú soldi o i gol di mio marito ve li sognate!».

Carrozzieri e dentisti sembrano a tutta prima due categorie completamente diverse tra loro. I primi riparano le auto, i secondi riparano i denti. Eppure un legame c’è, almeno cosí ho sperimentato di persona al momento della spesa. In un eccesso di rigidità mentale e di attaccamento alle leggi, che ogni tanto m’inducono all’osservanza non passiva delle medesime, ho richiesto con il saldo una ricevuta fiscale o una parcella. Risposta: «Allora le verrà a costare un 20% in piú. Sa, c’è l’IVA». Al mio tentativo di oppormi, almeno al dentista: «Voi medici non siete soggetti all’IVA!», questa la cortese replica: «No, ma vuol mettere l’aliquota marginale sul reddito imponibile?», cosí da farmi passare per un pitocco tentatore che cerca il guadagnino, costringendo un onesto operatore di mercato al lavoro nero…

sfruttato e sfruttatoriCi sarà un rapporto diretto tra sfruttati e sfrut­tatori? Se si dà retta a quanto raccontano, le risorse finanziarie ed economiche del pianeta Terra si tro­vano nelle mani privilegiate di un quinto dell’uma­nità, mentre agli altri quattro quinti spetta il compito di convogliare l’acqua ai mulini dei primi, con la spe­ranza di ottenere prima o dopo qualcosa in cambio.

Ciò tuttavia non toglie che siamo tendenzial­mente garantisti quando, ad esempio, temiamo di rimetterci in proprio; per contro ci erigiamo a maestri di giustizialismo ove siamo certi che l’indice accusatorio non sia puntato contro di noi (parenti, amici e conoscenti compresi). Il che in un certo senso rivela un residuo d’ingenuo candore anche nel­l’oscuramento animico.

Come si può vedere adesso, possiamo anche divertirci a variare i termini della dicotomia sfruttuataria e adoperarne altri: terapeuti e ammalati, produttori e consumatori, conservatori e progressisti, automobilisti e pedoni, cavalieri e appiedati, benestanti e nullatenenti, eruditi e analfabeti, lungimiranti e miopisti, evasori ed evasivi, generosi-appassionati-idealisti e stolidi- abulici-ipocondriaci. Qualcuno potrebbe sinceramente vedersi esonerato dall’elenco? Io l’ho reso breve per necessità contingente, ma le voci sono tante, ce n’è per tutti.

Chi non ricorda un famoso leader, apprezzabile per molti tratti, il quale faceva dello sciopero della fame e della sete i suoi cavalli di battaglia a supporto dell’impegno sociale e politico? Era convinto di essere sincero, non millantava né piativa, ma purtroppo anche lui esercitava una forma, per quanto estremamente raffinata, dell’arte ricattatoria: sfruttava la pubblica opinione interessandola dapprima, e violentandola in seguito, ai suoi idealismi nobili, astratti ma spesso iperbolici. Ci riusciva cosí bene che durante una diretta televisiva, grazie ad una regía incline a compromettere il reality con il burlesque, aveva addirittura chiamato in causa il Capo dello Stato, ovviamente non in modo diretto ma costringendolo all’intervento, sempre per quel pro bono populi che sta cosí a cuore a quanti, anziché al gioco di “guardie e ladri”, si sono dedicati a quello piú redditizio di “eletti ed elettori”. Sotto l’incombente minaccia di una morte per sete, possibilmente avvenibile sotto gli occhi sgranati di milioni di teleutenti, su esplicita preghiera dell’Autorità competente (commossa quanto basta), l’anziano macilento leader rinunciò all’autolesionistica impresa, accogliendo in garanzia la bontà dell’istituzione, che ancora una volta l’omaggiava di una sensibilità tanto particolare quanto dedicata, non essendo piú spendibili riconoscimenti pubblici, medagliette ad honorem o intitolazioni accademiche, che lo Stato, a volte, si compiace di esibire, purché vi sia un pubblico nutrito in grado di apprezzare un’ostentazione di magnanimità, specie se non incide sul bilancio.

Chi fu qui lo sfruttatore? Chi lo sfruttato? Nessuno dei due protagonisti; non quello in buona fede e neppure quello di poca fede. In realtà, sfruttata fu ancora una volta la pubblica opinione, che in un eccesso di moralismo perverso, finí per ricavare da tutta questa sceneggiata, la medesima sintesi che avrebbe potuto ricavare altrettanto bene da un romanzo giallo degli anni ’50, ovvero: “Il delitto non rende”.

È tuttavia ammirevole come si ingenerino casi emblematici e coinvolgenti dove lo sfruttato è l’unico a non capire il gioco delle parti nel quale è stato irretito, a non capire d’esser stato raggirato, e ritenersi contempo­raneamente appagato dell’inghippo, che continua pedestremente a credere svolto senza esserne stato sfiorato (o sfruttato). Fiori e frutti sono infatti due categorie abbastanza omogenee da prendere a riferimento indiziario.

Se mi chiedete: «Ma tu, che dal pulpito parli e parli, dove vuoi andare a parare?», vi do atto, mi sono dilungato, ma mi sembrava opportuno, per affermare una conclusione, un piccolo condensato di verità con il pregio (o difetto, a seconda) di chiamare in causa tutti, cioè, intendo, l’umano nella sua struttura.

Ho la certezza che noi non siamo soltanto o sfruttati o sfruttatori, ma siamo contemporaneamente l’uno e l’altro, indissolubilmente riuniti in quell’unico essere nel quale viene a trovarsi ciascuno di noi. Il che vale a dire che se ci sentiamo vittime, lo siamo a causa di una metà di noi stessi, e se ci sentiamo carnefici (cosa piú rara, ma succede anche questo) è sempre per colpa di quella parte di noi che, con notevole astuzia, progetta i suoi piani e li attua, ora rivestendo il saio di vittima designata ora indossando i panni del giustiziere altero e inflessibile. Non sembra, ma per il nostro ego passare da Fantozzi a Robespierre è un gioco da ragazzi: l’importante è avere le sollecitazioni giuste. Se poi dovessero mancare, si può sempre fabbricarne delle buone, grazie all’abilità interpretativa con cui riusciamo a fare d’ogni realtà una specie di puzzle modulare interattivo.

Una volta entrati in un ordine di idee convincente, diventa piú facile ricavare, dall’osservazione dei fatti in esame, considerazioni nuove prima impossibili da ricavare. Se le categorie (dozzinali, grossolanamente abbozzate e perciò inconcludenti) dei buoni /cattivi, degli onesti/bricconi, dei veritieri/mendaci e degli sfruttati/sfruttatori, non hanno piú ragione di esistere; se tutto era dipeso da una nostra falsa prospettiva (spesso anche conveniente) di vedere soltanto il male, smargiasso e vincente, negli altri, e viceversa, il bene, violato e strapazzato, in noi; se (terzo e ultimo “se”) siffatta ingannevole montatura ci è stata insufflata ad arte attraverso forme miste di degrado culturale, di superstizione schizofrenica e, dobbiamo anche dirlo, di una naturale propensione al cupio dissolvi, allora è il caso di rivisitare le posizioni che abbiamo assunto fino ad oggi, in balía di una preoccupante dementia existentialis, rivalutarle una ad una, non fosse altro che per rispetto del giusto, vero e del sacro/santo; buttar via la conclusione amara d’esser stati corbellati, non soltanto dal mondo, ma pure da noi stessi, e cominciare ad accogliere una nuova concezione della vita, dal momento che quella usata in precedenza, ci stava portando alla morte: quella fisica non sarebbe stata poi una grande novità, ma quella interiore certamente si meritava qualcosa in piú che non la meschinità, la miopia e l’ignoranza sulle quali abbiamo preteso di costruire progresso e civiltà.

MascheraOra che abbiamo scoperto una realtà intrinseca alla natura umana, la quale è di per sé fatta in modo tale che nel giro di poche ore, o forse pochi minuti, passa dalla gioia al dolore, dalla cattiveria alla magnanimità, dall’attacco alla difesa, dall’imbambolamento piú completo al lampo d’ingegno esaltante le forze dell’anima, non abbiamo piú alcuna scusa per le frasi del tipo: mi maltrattano, non mi capiscono, non sanno chi sono io, mi hanno ferito nel mio intimo, mi sento uno straccio, ve la farò vedere io ecc. Il trucco secolare crolla; rivela la pasta scadente e disomogenea di cui era composto: un trompe l’oeil tutt’altro che verecondo per un palcoscenico sul quale ci siamo divertiti a indossare e far vivere i multiformi volti dell’ego, fino a non capire piú dove sia andato a finire quello principale, quel “Sor Mestesso” che si è preso il ruolo di regista, di attore e di spettatore; quello che ha dato inizio alla recita, senza tener conto che di volta in volta l’immedesimarsi nelle varie maschere gli avrebbe fatto perdere la consapevolezza della propria identità e quindi, inevitabilmente, il filo della conduzione.

Forse non è mai esistito? Forse ce lo siamo sognato? Può essere; ma po­trebbe essere che invece abbiamo sbagliato tutto, scambiando per “IoSono” quell’ego che, nel migliore dei casi, avrebbe dovuto fungergli da scudiero durante il cammino terrestre, e che, spintosi nell’iniqua girandola delle parti, ha creduto di conquistarsi il ruolo d’indiscusso protagonista.

Con questo passo i rivoluzionari ribaltarono un tempo le monarchie. Si dissero: un uomo è un uomo finché è in grado di difendere i propri diritti. Oggi l’epoca richiede un ulteriore ribaltamento, meno cruento ma estre­mamente piú sovversivo: un uomo è un uomo finché è in grado di assolvere ai propri doveri, e per “doveri” si intenda l’insieme dei compiti evolutivi intuiti secondo coscienza e dedizione. Il non aver saputo come reagire alla corrente degli avvenimenti, la mancata conoscenza dell’onere karmico, la cecità morale di voler giudicare le sole azioni altrui, gli hanno sin qui impedito di comprendere un fatto semplicissimo: esiste cioè una relazione diretta tra quello che l’uomo compie nella sua vita e le circostanze contingenti che da essa gli vengono incontro. Ma ne esiste pure un’altra, meno apparente, carica però di forte valenza determinativa, tra quello che l’uomo non ha compiuto e il corso degli eventi nel quale si trova a doversi destreggiare.

Non occorre spendere parole per illustrare che quel “non ha compiuto” non sta a indicare “quel che non ha potuto compiere”, ma vale per “quel che avrebbe potuto compiere, in quanto aveva tutte le possibilità di farlo, e invece ha scelto di non fare”. La questione diventa una combinazione aritmetica: ammesso pure che per ignavia, indolenza e ignoranza, ogni abitante del pianeta compia azioni buone o cattive (ma qui cadremmo in un ulteriore moralismo del tutto inutile, quindi sarà meglio dire “ azioni in favore o “a danno dell’evoluzione umana) a vanvera, ossia senza un ben determinato indirizzo di riferimento, ne consegue come risultato lo stato dell’attuale situazione collettiva.

Non lo voglio definire brutto o bello o buono o cattivo; non mi interessa. Il risultato è quello che è, lo abbiamo sotto gli occhi in qualunque circostanza: è un dato di fatto.

La domanda che mi pongo, e invito tutti i presenti a porsi, è la seguente: «Siamo veramente convinti che mettendo mano, ciascuno di noi, alla qualità delle nostre azioni, ma non solo, anche alla radice dei nostri pensieri, dei nostri sentimenti e delle nostre volizioni, quindi creando un aumento nella lucidità, nella consapevolezza, e nel contempo allargando il piú possibile la capacità di comprensione per gli altri, le cose non subirebbero immediatamente un significativo miglioramento?

Perché vedete, amici cari, qui le opzioni sono solo due: o stiamo nel convincimento che ognuno di noi può continuare a recitare se stesso come fatto finora, e pertanto il mondo intero può andare avanti cosí, senza la necessità dell’intervento di quel singolo che saremmo noi, il cui apporto risulterebbe insignificante, oppure non è cosí, e ciascuno, per la quota che gli compete, è responsabile dell’andamento generale del mondo. In altre parole, o gli eventi capitano e nessuno può farci niente, oppure no, siamo chiamati a modificare i processi del mondo, della vita, e a far emergere quelli originari voluti dalla nostra stessa struttura interiore. Siamo chiamati in quanto coscienze umane pensanti e potenziali esecutori di un progetto evolutivo del quale, forse, abbiamo smarrito la fonte, ma, cercando e ricercando, si possono ancora trovare le tracce di antiche piste e i “diari” di ricercatori che ci hanno preceduto, fornendoci precise e preziose indicazioni sul tema del “perché siamo qui”. Che non è certo quello di capire se siamo piú sfruttati che sfruttatori.

A conclusione del mio discorso, non mi è difficile immaginare che tra i presenti correranno voci di dissenso e di critica. La proposta verso cui ho fatto confluire l’intero ragionamento può suonare a molti semplicistica e astratta: «Un’altra bella pensata che dal punto di vista pratico non serve a niente».

Aereo e trenoMa il mio intento non è questo. Per meglio comprenderlo si deve prima fare attenzione al fatto che, nel destreggiarsi semiconscio tra bene e male, stiamo da una parte spingendo un ostacolo con tutta la forza di cui siamo capaci, senza accorgerci che dall’altra parte ci siamo sempre noi, a spin­gercelo contro, e con la medesima caparbia violenza. Non ci sono fazioni, partiti o avversari; siamo sempre e soltanto noi, che pensando e vivendo a casaccio abbiamo costruito un’incredibile tensione di stallo dalla quale diventa essenziale uscire prima possibile. Si può credere che questa situazione cruenta esista solo nella mia fantasia; comunque c’è un evidente progresso e un benessere che, dalla scoperta della ruota, ci ha condotto fino ai treni ad alta velocità e agli aerei supersonici. Ma io rispondo che se queste forze di progresso tecnico spingono da un lato la barriera limitante un reale sviluppo, dall’altro lato le forze dell’ignoranza e dell’immoralità vanificano ogni rendimento raggiunto e ritorcono i risultati raggiunti contro l’umanità stessa.

Un conto è l’uso della filosofia e della scienza per scoprire i segreti del mondo, un’altra cosa è saper fare di tali scoperte l’uso migliore per il bene di tutti. Su questo punto, lo affermo senza timore di venire smentito, siamo ancora molto distanti. Mi pare perciò evidente che se dessimo tutti un lieve rinforzo a quella parte di noi che sostiene la spinta evolutiva, l’altra parte, quella retriva e neghittosa, che per mille ragioni s’impegna soltanto ad avversare, dovrà perdere terreno e cedere. Se fossimo due pacchetti di mischia durante una partita di rugby, la direzione di spinta uscente dipenderebbe dalla miglior forza in campo; ma dal momento che ciascuno di noi sta giocando la sua partita indossando le casacche di tutte e due le squadre (quella pro e quella contro l’evoluzione), basterà un minimo di volontà che superi la gretta concezione egoistica del mondo, per sfondare lo stagnante equilibrio e correre alfine tutti assieme verso la giusta mèta.

Possiamo allora tornare sulla battuta da videoteca con la quale ho aperto questo incontro e vediamo come anche una semplice gag possa ora apparirci piú significante di prima. Certo, dobbiamo elevare i personaggi del film ad una dimensione diversa da quella della love story per la quale furono creati. Ma non c’è niente di male; anche noi siamo stati creati per una love story, però l’anima legata alla terrestrità fa molta difficoltà a capirlo, e tanto piú a ricordarlo: troppi sono i problemi di fondo dai quali deve ancora districarsi.

Possediamo tuttavia il Pensiero, possediamo la Coscienza, e per un momento divertiamoci a farli diventare il “Lui” e la “Lei”, rivisitando il nostro immaginario filmato.

Cosí dunque chiederebbe il Pensiero alla Coscienza: «Cara amica, cosa ne pensi delle risorse non sfruttate delle anime umane in via di sviluppo?».

Risponderebbe la Coscienza: «Oh, Santo Cielo! Penso che bisognerebbe sfruttarle!».

E questo è quanto. Semplice, perfetto, inequivocabile.

Ho cercato di chiarire la divaricazione tra sfruttati e sfruttatori, illustrandola come pretestuosa, artefatta e totalmente inumana. Essa vale soltanto per quel livello in cui le anime altro non possono che dibattersi tentando di sopravvivere, restando impigliate nella terrificante illusione di doversi massacrare a vicenda in una lotta fratricida tra falsi diritti e finti doveri.

Potrebbe trattarsi anche di un periodo lunghissimo nel quale l’uomo, nella sua libertà, si gioca il futuro dell’evoluzione verso lo Spirito.

Ma fuori da questo contesto infernale, l’opposizione tra sfruttati e sfruttatori è del tutto inesistente; vale tanto quanto quella tra seminatori e mietitori. Se c’è un Pensiero che semina e una Coscienza che raccoglie, e a farlo è sempre la medesima creatura che abbia imparato ad adoperare le due risorse, una a sostegno dell’altra, allora non si dà ulteriore ostacolo a che l’anima possa vivere, nel senso pieno, luminoso e amorevole, ogni sua umana biografia.

 

Angelo Lombroni