Cercando Seneca

Socialità

Cercando Seneca

All’inizio di maggio scorso, a Parigi, un gruppo di vegani ha compiuto un blitz punitivo ai danni di uno specista, ovvero un macellaio. Al termine del raid, il malcapitato beccaio si è ritrovato con una costola rotta, ecchimosi e tumescenze in tutto il corpo, e tanta rabbia per aver dovuto subire una prepotenza in nome della difesa degli animali. Polli a terraLa reazione del norcino d’oltralpe ha fatto tuttavia il paio con la violenza dei vegani, quando ha detto agli intervistatori dei media nazionali che gli animali da lui venduti nella macelleria vengono trattati con umanità durante l’allevamento, nel rispetto delle norme fissate dalla protezione animali mondiale. Un’uscita strategica, questa della pietà animalista, ormai in uso presso gli allevatori, soprattutto di pollame, che mostrano in leccati spot televisivi le vittime predestinate al macello beccare e razzolare in ameni scorci paesaggistici, che so Engadina, Baviera e Dolomiti, ignorando che dietro i rapinosi scorci di visioni montane, lacustri e boschive è in agguato il trincia-pollo. Vige, nel commercio delle carni, l’ipocrisia presente ormai in ogni settore della pretesa civiltà dei consumi.

Una ragazzina svedese, tarata sul modello iconico di Pippi Calzelunghe, è andata in giro per le vie e piazze delle maggiori città dei paesi occidentali, incolpandone i governi e le istituzioni, a suo dire i responsabili dei guasti del clima, e soprattutto dei rifiuti che ingombrano il pianeta. Acque e terre avvelenate e sommerse dai refusi di una civiltà incosciente che si è comportata nel tempo come l’ap­prendista stregone di un celebre cartoon, con Topolino maldestro operatore di magia. Una topica. Si sa che alla fine, in extremis, arriva il mago titolare del laboratorio spagirico a disciplinare le insubordinate forze magiche scatenate dall’imperizia dell’operatore pasticcione.

Star TreckMa nella realtà del mondo le cose non vanno cosí, e le energie negative sollecitate da un progresso a spese del rispetto ecologico non le ferma alcun mago titolare. Quelli eletti dal popolo pasticciano nei giochi di cassa e di poltrona. E allora confezionano un feticcio accattivante, e da furbi ma impotenti sciamani lo mostrano alle tribú. Le quali tribú non esiterebbero a scaraventare giú da scranni e poltrone del potere chiunque tentasse, ad esempio, di chiudere gli stadi di calcio o peggio di imporre alle case automobilistiche il limite di velocità di 100 km l’ora ai veicoli da loro costruiti, considerando che per andare che da Firenze a Bologna gli Etruschi, o chi per loro, impiegavano una settimana, salvo briganti. Metterci un’ora oggi senza assalti di fuorilegge alla carpenta con tiro a quattro e senza dover bastonare e frustare i cavalli in carne ed ossa, disponendo invece di decine di cavalli motore, e beh, ci possiamo stare senza dover gareggiare con chi ci ha impiegato di meno da casello a casello col SUV ibrido che ricorda Ufo robot. Ma i petrolieri impongono la dura lex degli ottani, e cosí persino le utilitarie sono dotate di strumentazioni da Enterprise per trasportare chiunque “là dove nessuno è mai giunto prima”.

C’è sempre, in ogni epoca e luogo, un potere assoluto, palese se pubblico, occulto se privato. Entrambi mirano però a imporre scelte collettive che, dopo giri e rigiri pretestuosi, motivati da alte ragioni etiche, climatiche, tirano fuori dal cappello dei magheggi corporativi una Greta con le treccine.

L'età dell'incertezzaEppure, a loro volta, potere pubblico e privato, relativo o assoluto, di pensiero o parola, di braccio o di mente, qualunque atto singolo o collettivo di tali entità umane, in ogni frangente della storia, tutto si piega, volente o nolente, a quella condizione ineludibile che Galbraith, in L’età dell’incertezza attribuisce alla “Tirannia delle circostanze”, un gran calderone autoassolutorio in cui gettare, occultandole, le imprese non sempre nobili, spesso ignobili, come rivoluzioni e stragi dell’umana stupidità.

È difficile assolvere un manipolo di vegani che strapazzano un ma­cellaio di Parigi confondendo la dietetica con l’etica. Piú arduo ancora è capire e giustificare un potere assoluto quando fa di una questione dietetica un problema politico. E non il potere qualunque di un paese ai margini della storia e del mondo, ma nella città di Roma, al tempo degli antichi dèi, quando l’ex villaggio di capanne di fango e paglia si era allargato in misura tale da dominare il mondo. Un impero, questo era diventato il pagus di Faustolo, Acca Larenzia, di Evandro, di Egeria, poi di Numa: palazzi, terme, teatri, e nelle sue mura, che da secoli avevano sorpassato il primitivo, esiguo pomerio, quasi memore di uno stazzo per ovini, si era sviluppata l’Urbe multietnica, di molte fedi e filosofie. Orfici, pitagorici, stoici ed esseni, non solo praticavano dottrine monoteiste, misteriche, ma osservavano regimi dietetici molto stretti e austeri, in cui spesso era vietato il consumo di carne. Tanto bastava per creare intorno a queste comunità religiose il sospetto di essere alternative non solo nel regime alimentare, ma costituivano delle sette in grado di offrire ai Romani ‘ricambi’ politici.

A Roma il pericolo era palpabile. Agli Ebrei già integrati da anni nella popolazione, dediti al commercio, si erano aggiunti i seguaci del messianismo ebraico. Questi però agguerriti e determinati a mutare l’ordine delle cose, davano per imminente la venuta di un salvatore che avrebbe sovvertito i regni del mondo per sostituirli con l’avvento finale del Regno dei Cieli. Cosí andavano dicendo a Roma, confusi alla brulicante popolazione mista, e la loro influenza aumentava di giorno in giorno. Per avvalorare le loro dicerie, sostenevano che il messia, figlio di Dio, se ucciso, sarebbe risuscitato.

La tunica di GesúE poiché tra schiavi e debitori insolventi grande era il malcontento, gli usurai formavano una specie di governo ombra che, giorno dopo giorno, faceva arrivare le onde di risentimento fino al Palazzo. Qui, sospettoso e nevrotico, l’imperatore Tiberio sentiva vacillare il trono alle bordate di quelle onde, per cui nel 19 d.C. fece bandire gli Ebrei da Roma, a causa del messianismo religioso e dell’osservanza dei rigidi precetti igienico-alimentari fissati da Mosè, presenti, in parte, nel metodo culinario kosher.

Ma il Messia degli Ebrei doveva ripresentarsi, e assai piú drammaticamente, nella vita di Tiberio. Un giorno, uno dei centurioni che avevano crocefisso il Nazareno gli portò la tunica che indossava il “re dei Giudei”, un altro dei titoli che erano stati attribuiti dal popolo a Gesú. Il milite l’aveva vinta ai dadi mentre il condannato esalava l’ultimo respiro, chiedendo a Dio suo Padre di perdonare i torturatori, perché “non sapevano quello che si facevano”. Tiberio fece bruciare la tunica e intimò al centurione di tacere su quello che aveva visto e udito in Giudea, riguardo a quell’uomo cui si attribuivano malíe. Il fatto era che le aspettative messianiche, il millenarismo neopitagorico, la catarsi cosmica con il ritorno all’armonia del Primo Giorno, facevano sí che la gente si affidasse a chiunque ne promettesse la realizzazione nell’immediato. Soprattutto la gente auspicava il recupero delle antiche virtú, cui aveva messo mano già Augusto regolando le pratiche abortive, il divorzio facile, ripristinando i costumi e limitando gli eccessi. I Romani si erano allora chiusi all’epicureismo permissivo e avevano accettato il modello di vita proposto dagli stoici: frugalità, niente lusso, misura in tutto. Il motto stoico “sustine et abstine”, sopporta e astieniti, veniva coniugato insieme a “Deum sequere”, ossia conformarsi al volere degli dèi, poiché dicevano: «In regno nati sumus; Deo parere libertas est», in un mondo di schiavitú, l’unica libertà che abbiamo è quella di conformarci al volere della Divinità.

Quindi digiuno, astinenza, sopportazione degli incerti, fiducia assoluta nel Divino erano i precetti stoici. Seneca li aveva abbracciati in toto e li praticava con la fedeltà e l’assiduità di un autentico zelota. E con lui altri illustri Romani, come gli imperatori Antonino Pio e Marc’Aurelio che secondo Montanelli: «Proprio nel momento in cui la coscienza di Roma si spegneva, essa trovava in questo imperatore il suo piú luminoso barbaglio». Acuta osservazione, fatta da un laico principe del giornalismo italiano.

stoaIl “luminoso barbaglio” era quello di un felice corto circuito della filosofia cosiddetta “del Portico”, lo stoicismo, e il nascente Cristianesimo, che Paolo andava predicando in tutta l’area mediterranea, e che a Roma stava raccogliendo i migliori frutti, essendo la Grecia resa troppo scettica del trascendente dopo secoli di razionalismo ateo, tuttavia necessario a operare quel distacco dall’asservimento al divino dei decaloghi e proporre l’uomo portatore egli stesso del divino, come l’avvento del Cristo avrebbe confermato con il sacrificio del Golgota. L’ideale della virtus romana, fatto di fides, pietas, humanitas e devotio, trovava compimento e forza propulsiva nel connubio, fatale non casuale, con la morale cristiana. Nel suo De Vita Beata, Seneca scrive: «La vera felicità, dunque, risiede nella virtú, la quale ci consiglia di giudicare come bene solo ciò che deriva da lei e come male ciò che proviene invece dal suo contrario, la malvagità. Poi, di essere imperturbabili, sia di fronte al male che di fronte al bene, in modo da riprodurre in noi, per quanto è possibile, Dio. Quale premio per questa impresa la virtú ci promette privilegi immensi, simili a quelli divini: nessuna costrizione, nessun bisogno, libertà totale, assoluta sicurezza, inviolabilità; non tenteremo nulla che non sia realizzabile, niente ci sarà impedito, né potrà accaderci alcunché che non sia conforme al nostro pensiero, niente di avverso, niente d’imprevisto o contro la nostra volontà».

La Scuola di Mileto aveva cancellato Dio dal pensiero filosofico, dall’etica sociale, dall’arte persino. Quando Paolo, nel 52 d.C. ad Atene, aveva parlato della Resurrezione del Cristo ai Saggi dell’Areopago, piú che ilarità aveva suscitato sospetto e diffidenza, e il sussiego di cinici svuotati di ogni capacità di connettere i sentimenti e soprattutto i pensieri al trascendente. I discepoli della Stoa avevano raccolto il testimone dell’antico rapporto ellenico con il divino in ogni sua forma e immanenza. Ecco come Seneca individua la presenza del divino nella natura praticando la teicoscopia dell’idealismo panteista: «Se vieni a trovarti in un bosco sacro, folto di antiche piante, straordinariamente alte tanto da impedire la vista del cielo con il protendersi dei rami che si coprono l’uno con l’altro, l’altezza di quegli alberi, la solitudine del luogo e lo stupore che provoca in noi un’ombra cosí spessa e continua, anche se all’aria libera, ti farà credere in una potenza divina». E nell’uomo: «Se vedrai un uomo impavido davanti al pericolo, inattaccabile dalle passioni, felice tra le avversità, tranquillo nel bel mezzo della tempesta, che guarda gli uomini come dall’alto e gli dèi come se fossero suoi pari, tu non sarai preso da una venerazione per lui? Non dirai: «È un essere troppo grande e sublime perché lo si possa credere simile al misero corpo in cui si trova? Lí è scesa una forza divina: quello Spirito superiore è mosso da una potenza celeste…». E ancora: «Non è necessario alzare le mani al cielo né supplicare il custode del tempio per poterci accostare all’orecchio della statua, come se la divinità potesse sentirci meglio. È vicino a te Dio, è con te, è dentro di te!».

Seneca De Vita beataI Greci si difendevano dalla morte con la bellezza, sperando, con la pratica di sublimazione della materia, di eternarsi. I Romani esorcizzavano la morte con la pratica delle virtú. Con la sua apologia De Vita Beata Seneca lo dimostra, almeno lo auspica a chi volesse cimentarsi a farne regola di vita e goderne in seguito i frutti, con la gloria personale e la buona reputazione. La pratica della virtú, senza se e senza ma, sembra dunque plasmare una specie di struttura morale conforme alla natura, umana e divina, una prassi esistenziale rimasta integra e immutata per secoli e calata per osmosi nella forma piú consona al mutare dei tempi e dei costumi propri del corredo etico della civiltà occidentale.

La stessa dottrina filosofica europea risentirà a lungo e profondamente della concezione della virtú come intesa e praticata in ambito ellenistico-romano, passando dalla sfera speculativa pura e semplice sui temi dell’ordine naturale e divino a quelli riguardanti l’organizzazione sociale e quella politica. Nasceva a partire del I secolo d.C. una concezione umanistica del mondo, l’essenza del Rinascimento.

Scrivendo il De Vita Beata, Seneca ha tentato un’impresa impossibile: provare che la virtú conviene. Ma come sempre accade, trattandosi di una verità sacrosanta, averla capita e divulgata non gli giovò. Incappò nelle angustie della tirannia delle circostanze, nello specifico la paranoia di Nerone, che lo costrinse, nel 65 d.C., al suicidio, e con lui Petronio e vari altri coinvolti nella congiura di Pisone, un pretesto per liberarsi degli avversi al trono. Un fallimento della virtú su tutta la linea, dalla filosofia all’arte del buon vivere, all’abilità militare, si direbbe.

Ma nello stesso periodo, e dallo stesso degradato potere umano, vennero mandati a morte, sempre nel 65 d.C., l’apostolo Pietro crocefisso, e il 29 giugno del 67, Paolo, decapitato sulla Via Laurentina, entrambi propalatori del Verbo, la massima Virtú da praticare per l’uomo, incamminato sulla Via del Cristo. Il quale, spirando sulla croce, pronunciò la frase: «Padre, perdona loro, ché non sanno quello che si fanno!» Non disse: «quello che Ti fanno», poiché non la legge di Dio avevano violato, uccidendone il Figlio, ma avevano mancato, rinnegandolo, l’occasione di assimilarsi, anima e corpo, al divino.

Ma Dio non serba rancore verso l’uomo, poiché lo ama, persino quando la sua creatura eccede in stupidità: quando, ad esempio, muovendo alla guerra, invoca la protezione del Cielo per uccidere la vita, o quando picchia un macellaio francese, credendo di convincerlo a ravvedersi.

Quando il nostro sustine et abstine, riciclato in keep calm and carry on dal regime materialista, avrà colmato la misura delle sopportazioni, rinunce, frustrazioni e ingiustizie, i pensieri comuni, di tutti gli umani, liberi dalle pastoie dei sensi, elaboreranno la forma di un’egregora di giustizia e amore. L’umanità intera, allora, sublimata dallo Spirito, ingaggerà la battaglia decisiva contro il Male e la vincerà.

 

Ovidio Tufelli