Per secoli Regina poi Traviata

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Per secoli Regina poi Traviata

Alle terme di Caracalla«Alle Terme di Caracalla, i Romani giocavano a palla, dopo il bagno, verso le tre, tira tira a me, che la tiro a te, o con le mani o coi piè» (http://bit.do/Alle-Terme-di-Caracalla). La buffa canzoncina ronza nel cervello e tenta di banalizzare le istruzioni date da Galeno, medico personale di Marco Aurelio, ai frequentatori delle molte terme che i Romani, sull’esempio degli Egizi e dei Greci, avevano costruito per praticare il culto del­l’acqua, religioso, come nei serapei egizi, o eminentemente curativo, come presso i cugini ellenici, che lo definivano balanion, ‘che toglie le angosce’.

Di scuola ippocratica, Galeno aveva diffuso il culto dell’idroterapia e fissato le successioni del bagno in vasca: dopo essersi spogliati nell’apo­dyterium, si entrava in un ambiente a temperatura moderatamente calda, il tepidarium, questo per rilassare la muscolatura. Si passava quindi in uno o piú ambienti caldo-umidi a temperatura piú elevata, il calidarium, per immergersi in una delle vasche colme di acqua calda, ciò per idratare la pelle col vapore dilatando i pori. Si entrava poi nel frigidarium e ci si immergeva in uno dei bacini con acqua fredda, oppure si riceveva la semplice aspersione di acqua fredda. Questa operazione richiudeva i pori, rinvigorendo le membra. A questo punto, si poteva decidere di tornare nell’apodyterium, asciugarsi, rivestirsi e lasciare le terme, oppure passare in un locale surriscaldato per il bagno di sudore, il laconicum o sudatorium (tipo la sauna svedese), oppure ripassare nell’ambiente moderatamente riscaldato, il tepidarium, e farsi praticare un massaggio con oli vegetali aromati per espellere le tossine e depurare a fondo la pelle.

Terme di Caracalla

Le Terme di Caracalla

In quest’epoca ci si reca ancora alle terme di Caracalla, ma per assistere a rappresentazioni operistiche e di balletto di grande impatto scenico, come quest’anno “La Traviata”.

La Traviata a Caracalla

“La Traviata” a Caracalla

La celeberrima opera di Giuseppe Verdi è stata la punta di diamante della stagione lirico-teatrale che ogni anno si tiene nell’altrettanto celebre complesso termale che l’omonimo imperatore inaugu­rò nel 212 d.C., dopo essersi liberato del co-reggente al trono, Geta, e aver promulgato la Constitutio Antoniniana, una legge ideata da Antonino, che concedeva la cittadinanza romana ai sudditi delle province.

Costruire terme pubbliche era un vezzo del potere assoluto a Roma, ma la coincidenza della loro costruzione con alcuni eventi lascia cogliere, in chi la compie, intenti di damnatio memoriae o di eliminazione dei nemici del trono e dell’Urbe, reali o solo immaginari.

Vespasiano soffocò la memoria di Nerone costruendo il Colosseo proprio nel bacino della Velia dove sarebbe dovuto venire il lago esotico a corredo della Domus Aurea, e suo figlio Tito, a completare la damnatio del “Cesare aedo”, nell’80 d.C., costruí al Colle Oppio le sue terme sulla Domus Aurea. Oggi, Via delle Terme di Tito ricorda lo scempio.

Jean-Léon Gérôme «Persecuzione dei cristiani»

Jean-Léon Gérôme «Persecuzione dei cristiani»

Non fu da meno Diocleziano, che costruí le sue terme, dopo aver messo fuori legge i Manichei con un editto, nel 297 d.C., e dato inizio, due anni dopo, alla prima grande persecuzione contro i cristiani.

Marco Vipsanio Agrippa, generale e ammiraglio dell’impero, nonché genero di Augusto, avendone sposato l’irrequieta figlia Giulia, aveva il pallino della strategia militare (sua la tipologia e i movimenti della flotta nel vittorioso scontro di Azio che mise fine al sogno secessionista di Antonio e Cleopatra) e dell’edilizia pubblica.

Il Pantheon

Il Pantheon

Suo il progetto del Pantheon, la cui facciata riporta ancora il suo nome, scampato alle asportazioni del bronzo dagli antichi edifici, essendo le lettere del suo nome scavate nel marmo e non fuse nella lega rame-stagno di molte delle epigrafi celebrative di quasi tutti i monumenti e sacelli romani antichi. I troppi buchi che butterano il Colosseo si devono infatti alla spoliazione, nel corso dei secoli, degli elementi metallici connettivi e decorativi dei grossi blocchi di travertino formanti la struttura.

Agrippa, uomo onesto e di indole magnanima, costruí, nel 19 a.C., le sue terme, i cui resti sono visibili nell’interrato di Piazza del Nazareno, di fronte all’ingresso dell’omonimo collegio, fucina di cultura umanistica di pregio, prima che la politica, dividendone la promiscuità edilizia, lo vituperasse con i suoi giochi di ammucchiate e inciuci. Ebbene, Agrippa, per dotare le sue terme dei necessari apporti idrici, vi fece arrivare, dalle montagne tiburtine, l’acquedotto dell’Aqua Virgo.

Gli acquedotti dell'antica Roma

Gli acquedotti dell’antica Roma

Non ci sono terme del tipo e della grandiosità di quelle romane senza il relativo acquedotto che ce la porti in quantità e qualità giuste, in ogni stagione. Misurato e dignitoso Agrippa, funzionali quanto disadorne le terme da lui costruite per la fruizione da parte del popolo romano, quale che fosse il censo e il sesso di chi accedeva ai bagni, essendo uomini e donne liberi di bagnarsi in promiscuità (lavacra mixta). Tanti bagni pubblici, tanti acquedotti per rifornirli, essendo il fiume, i pozzi civici e le sorgenti entro le mura non sufficienti a fornire la qualità, e soprattutto la quantità d’acqua per colmare le grandi piscine natatorie a temperatura naturale, tiepida o calda, per gli impianti sanitari, serviti da scarichi canalizzati.

Agrippa, giudizioso e abile, fedele al trono e al costume romano, ispirato da Mecenate ideò e costruí il Pantheon in ossequio alla politica di Augusto, intesa al recupero dei valori morali e religiosi dei Romani, insidiati da un lassismo sempre piú marcato, dai nuovi culti, dai divorzi e dagli aborti, dalla perdita di quella humanitas e gravitas che avevano contraddistinto da sempre la società quirite. Il Pantheon rappresentava il nido dorato allestito dall’uccellatore per attirarvi, passando l’oculus della maestosa cupola, tutte le divinità, non solo quelle del culto romano, ma di tutte le fedi osservate dai popoli asserviti con le conquiste imperiali, dalla Spagna al Caucaso e all’India, passando per Grecia, Egitto, Palestina e Siria. Il sincretismo religioso dei culti si accompagnava al cosmopolitismo etnico. A Roma convenivano ebrei e zoroastriani, manichei, orfici e animisti, cosí come i Romani scoprivano, viaggiando per il vasto impero conquistato, le divinità, i templi e i santuari dei popoli sottomessi.

Mentre oggi si fa distinzione tra religione e politica, tra decalogo e costituzione, ai tempi di cui si tratta, le norme di fede e le dottrine spesso fissavano, o ispiravano, anche i valori morali e le regole del vivere quotidiano presso le varie comunità e nazioni. I governi assoluti nacquero da siffatti ibridi. Non stupí pertanto i Romani che un oriundo ebreo africano, Settimio Severo, educato a Roma e di Roma costumato, succedesse a Commodo, figlio degenere, si vociferava anche illegittimo, di Marco Aurelio, autore delle Meditazioni, libro giudicato da Indro Montanelli: «Il piú alto codice morale che ci abbia lasciato il mondo classico».

Scatenate l'inferno

«Al mio comando, scatenate l’inferno!»

Codice cui era evidentemente allergico Commodo, per il quale solo l’arena e i suoi duelli a morte rendevano la vita degna di essere vissuta, che doveva essere perduta per gli inetti e gli incapaci. Per chiarire il personaggio: era il Russell Crowe de “Il Gladiatore”, quello che incitando i suoi legionari all’attacco dei Teutoni grida: «Al mio comando, scatenate l’inferno!».

Settimio Severo si era aggiudicato il trono vincendo una specie di asta pubblica promossa dal Senato. Chi offriva piú sesterzi all’erario in rosso, si aggiudicava l’impero. Il banchiere miliardario Didio Giuliano, concorrente temibile e facoltoso, ebbe un’idea brillante: offrí ai pretoriani, padroni de facto della piazza, tre milioni di sesterzi a testa e vinse la gara.

Settimio Severo

Settimio Severo

Ma Settimio Severo, sollecitato dal Senato, mosso da un senso di vergogna per il vile mercato di cui era stata fatta oggetto la suprema carica dello Stato, accorso con le legioni dalla Siria, promise ai pretoriani il doppio dei sesterzi, e vinse. L’occupante del trono vinto all’asta si affrettò a eliminare gli oppositori, trasformando il principato elettivo in una monarchia ereditaria di stampo militare, e per evitare che mancassero i soldati, istituí il servizio militare obbligatorio, la naja, un metodo che, quietando le coscienze, legalizzava la guerra.

Ma cosa c’entra Settimio Severo con le Terme di Caracalla?

                                            C’entra, perché mentre guerreggiava in Siria, Settimio rimase vedovo. Era un uomo tutto d’un pezzo, serio. di buona cultura. Aveva studiato filosofia ad Atene e diritto a Roma, anche se parlava il latino con un marcato accento fenicio. Nella situazione di quasi interregno e anarchia in cui versava l’Urbe in quegli anni, gli storici sono concordi nel dire che Settimio, pur non essendo un Antonino, un Marco Aurelio o un Adriano, era l’uomo di cui Roma aveva bisogno in quel momento. Era sí di morale flessibile, prossima al cinismo, ma era diritto e onesto, e nella situazione aveva un chiaro senso della realtà.

La famiglia di Settimio Severo

Settimio Severo, la moglie Domna, il figlio Caracalla e, cancellato per damnatio memoriae, il figlio Geta

Benché, nonostante tanta avvedutezza, fosse un patito dell’astrologia e interpretasse tutto quello che gli capitava in termini astrologici. Per cui alla morte della moglie interrogò gli astri, e venne a sapere che in quella data, la morte della moglie, un meteorite era caduto a Emesa, l’odierna Homs. Settimio vi si recò e scoprí che il meteorite, diventato sacra reliquia solare, era venerato nel tempio costruito per custodirlo. Un sacerdote e sua figlia officiavano il rito che aveva il Sole come divinità rivelata. Settimio s’invaghí della sacerdotessa, Giulia Domna, la sposò e la condusse con sé a Roma. Dal loro matrimonio nacquero Geta e Caracalla, eredi al trono.

Mai carica fu piú agognata o esecrata come il trono di Roma dopo la morte di Augusto. Si rischiavano la vita e i beni per arrivarci, e con fatale rapidità si perdevano l’una e gli altri. A leggere la storia, è una cronologia di agguati, congiure, avvelenamenti e decapitazioni. Troppo alta la posta in gioco. Caracalla ingaggiò la sua letale gara con Geta e la vinse. Non valse il solito auspicio ai lottatori: «Che vinca il migliore!». Di Geta si sa poco, di Caracalla sappiamo che alla sveglia mattutina lottava con un orso per sciogliere i muscoli, a pranzo aveva per commensale una tigre, la notte dormiva con un leone per cuscino. Leggende urbane? Forse. Certo è che varcando la barriera d’ingresso alle terme, dove è ricavato il botteghino, l’aggettivo ‘titanico’ si sovrappone a qualunque altro concetto di valutazione del personaggio.

Le attuali Terme di Caracalla

Le attuali Terme di Caracalla

Nonostante le terme siano ormai ridotte alla scarnificazione della mae­stosità delle strutture edilizie originali, pure un senso di soggezione esal­tata, di vertigine inebriante, cattura visibilmente il romano disincantato e ciarliero, il giapponese ligio e dotato di guida auricolare, allocchisce di imponenza muraria il pampero argentino e il cowboy texano, da sempre vaganti in un territorio nudo sotto il vasto cielo sconfinato, spinge il costruttore spagnolo a tastare con mano esperta i pilastri, dove i cotti sono incastrati a filo, messi uno sull’altro, migliaia, perfettamente combacianti e stagni, come in un meticoloso lego, o un puzzle. Si respira, insieme alla mentuccia che esala nella incipiente guazza notturna umori da sortilegio, un vago senso di immensità, di eternità, di potenza dell’umano sottratto ai deliri della prevaricazione, ai guasti del tempo. Quei ruderi, vieppiú misteriosi nel declinare del giorno estivo, durano e testimoniano la capacità della vita di fervere e perpetuarsi, una vittoria sulla fatale “reductio in pulvis” vaticinata dai mentori dei processi creazionali, quale esito ineluttabile della materia, uomo compreso.

C’è un fiore tipico dei ruderi antichi di Roma, oltre alla menta e alla borragine: è la violetta dei muri. Da marzo in poi, sbuca dai cretti muschiosi dei Fori, del Colosseo, festeggia la primavera con malva e tarassaco, annullando il livido rigore invernale con la variopinta freschezza aromata delle corolle. Non certo la Violetta della storia che viene rappresentata sul palco di Caracalla, a chiusura della stagione. Una provvida sottolineatura presente nei poster, opuscoli, persino nel video di supporto alle scene chiarisce, traducendo per gli spettatori stranieri, che si tratta di una “lost woman”.

La Traviata

L’ambientazione felliniana della Traviata

La storia di Alfredo e Violetta è nota. Ma questa particolare messa in scena trasporta i protagonisti da una Parigi ottocentesca a una Roma felliniana degli anni Cinquanta, con tanto di paparazzi stile Dolce vita e scatenate danze rock ’n roll. Il pubblico, numeroso e variegato, accetta di buon grado di seguire la vicenda in questa ri­visitazione, e si diverte a certe licenze di sceneggiatura, come l’ar­rivo in scooter degli invitati al «Brindiamo, brindiamo nei lieti calici», o l’assai buffo uscire di scena dei recitanti non per le quinte laterali, come di norma, ma con tuffi repentini e gagliarde spaccate attraverso il fondale di scena.

La gente comunque si è divertita e commossa alla vicenda della bella “traviata” distrutta dalla tisi. Molti di loro, sciamando dalle gradinate, parlottano.

Aida Trionfo

Il Trionfo dell’Aida

Gli anziani ricordano di aver assistito in passato, nello stesso scenario, alle rappresentazioni estive segnate dal trionfo dell’Aida, piú congruo alla maestosità del setting, con gli Egizi in armi scintillanti e flabelli di piume variopinte. In anni ancora piú lontani c’erano anche i ca­valli, e persino qualche ele­fante. Non mancavano gli imprevisti, ma faceva parte del kit emozionale offerto dagli organizzatori.

Nella versione odierna della Traviata, molto apprezzati dagli stranieri i sottotitoli in inglese dello schermo laterale, su cui scorrevano i dialoghi del cantato, con l’italiano originale e la traduzione di ogni frase, come il «Libiamo» tradotto: «Let’s have a drink!». Qualcuno, rimuginando, si chiede ora se la storia messa in scena con qualche vezzo di estemporaneità, riportata all’ordine dalla musica di Giuseppe Verdi, in realtà non abbia inscenato la triste vicenda di Roma, passata dai fasti e dai trionfi di una storia millenaria alle buche e all’abete Spelacchio. Le auto parcheggiate lungo la passeggiata archeologica si fanno strada a colpi di trombe e stridor di freni. Una specie di trionfo dell’Aida questo sfilare di suv, jeep, utilitarie e moto, nello sciabolare di fari e improperi. Ma forse questa scena sarebbe uguale all’uscita da un concerto all’Arena di Verona, da uno stadio di calcio, da un comizio politico in cui uno dei tanti profeti di ventura promette il Paradiso delle Urí contro lacrime e sangue.

La Fonte delle Camene

La Fonte delle Camene

Forse traviata è la nostra patria. A esorcizzare il suo fato ci vorrebbero le vergini Camene. Stavano qui, nella Valle che porta il loro nome. Guarivano, profetavano col canto e non bevevano champagne. Era il beato tempo di Numa, senza guerre e senza inganni, l’età dell’oro incalcolabile. Caracalla, megalomane e amorale, soffocò quel canto sacrale sotto il complesso termale piú grande dell’impero. Damnatio memoriae, o semplice ignoranza del potere dell’acqua che sgorgando nelle grotticelle dei ninfei dava ai Romani la salute del corpo, la santità e la pace dell’anima. O forse quello di Caracalla era semplice abuso di potere unito a totale insensibilità per i misteri su cui l’Urbe si era fondata e di cui viveva. Forse questa è l’eterna storia della follia umana. Solo che i matti grandiosi che erigevano terme, acquedotti e strade dormivano coi leoni. Oggi, dormono con i serpenti e tramano inganni.

Uscendo a fine show nel viale con cipressi e pini, dal troncone di un rudere ecco un alito di violette e di menta. Roma degli incantesimi non muore.

 

Ovidio Tufelli