La posta dei lettori

Redazione

La posta dei lettori

letterinaHo una sorella piú piccola che copia tutto quello che faccio io. Ha voluto seguire lo stesso indirizzo di studi, cerca di vestirsi come me, i miei amici diventano i suoi amici, e dato che ho iniziato a seguire l’antroposofia, ora vuole farlo anche lei. Conoscendola bene, so che non è proprio una cosa adatta a lei. Come faccio per dissuaderla?

 

Arianna L.

 

Il fatto di essere presa a modello dovrebbe essere di stimolo a fare sempre meglio e a dare il buon esempio alla sorellina, che trae ispirazione dalla sorella maggiore vedendola come realizzatrice di iniziative positive. E dato che vuole intraprendere un percorso di studio e conoscenza dell’Antroposofia – strada adatta a tutte le persone “di buona volontà” – non è il caso di giudicarla inadeguata. Resta piuttosto l’interrogativo se la strada è effettivamente adatta a chi cerca di dissuaderla.

 




 

letterinaHo letto che Rudolf Steiner fa derivare dalla devozione le qualità dell’umiltà e della mitezza. Vorrei sapere in che modo questo si ottiene, dato che non vedo umiltà e mitezza in quelli che seguono la Scienza dello Spirito.

 

Letizia M.

 

Non dobbiamo giudicare gli altri con severità. La severità dobbiamo riservarla a noi stessi, e con gli altri dobbiamo essere compassionevoli e fraterni. Ci aiuta in questo l’esercizio della positività, fatto in maniera convinta e applicato nel quotidiano. Riguardo alle qualità dell’umiltà e della mitezza, esse sono una conquista che dobbiamo perseguire, e derivano in modo particolare proprio dalla devozione, oltre che dalla dedizione alla Via spirituale e dalla volontà di seguirla con determinazione e continuità. Naturalmente non sono qualità che possiamo esibire in modo esteriore, devono invece essere il risultato di un lavoro interiore. Le otteniamo quando riusciamo ad avere una reale esperienza meditativa, un’esperienza superiore di pensiero, di una forma spirituale sopramentale. Altrimenti è una sovrapposizione fittizia che riusciamo a recitare per qualche tempo, ma per una qualunque ragione accade che poi viene fuori il nostro temperamento, e mostra la nostra vera natura. L’esperienza interiore meditativa può aprire a una zona di pensiero piú alta, a un sentire piú vasto, a una volontà piú sicura, e questo porta alla percezione di una sfera sopramentale che fa accedere a una zona in cui si comprende la correlazione con l’altro, con tutti gli altri. Ne deriva allora uno stato di assoluta devozione. Basterebbe avere questa esperienza anche una sola volta nella vita per comprendere che quella devozione è un punto di partenza, e fa appello al sentimento di cui già disponiamo. Possiamo attingere alla devozione che abbiamo sperimentato, in forma ingenua e infantile, già da bambini. Quello però è un tesoro che poi si estingue. Possiamo ricollegarci in qualche modo con quella forma di devozione, ma dobbiamo andare molto oltre per farla diventare una nostra conquista: attinge al passato e fiorisce volgendosi verso l’avvenire. Da quella devozione sorgono in noi una mitezza e una umiltà effettive, non recitate. Dobbiamo stare attenti, approfondendo lo studio dell’antroposofia, a non divenire dogmatici, categorici. Acquistando la coscienza di noi stessi, arriviamo a capire se si è in regola o no con il Mondo spirituale. Se lo si è, se si lavora con dedizione e con continuità, accade che si risvegliano in noi le qualità della mitezza e dell’umiltà come espressione della presenza dell’Io, perché è l’Io che trasforma la nostra anima.

 




 

letterinaVorrei sapere con chiarezza come giudicava Massimo Scaligero il matrimonio dei preti. Sui preti operai ricordo chiaramente, ma sul primo argomento meno.

 

Graziella D.

 

Il sacerdozio, se è inteso nel senso piú profondo del termine e non come una carriera, esige una completa dedizione al Divino e alle sue liturgie. Questo era il pensiero di Massimo Scaligero, il quale però ben comprendeva quale livello interiore questo richiedesse e quanto fosse difficile realizzarlo. Se si resta su un piano di cronaca esteriore e non ci si eleva attraverso la preghiera e la forte disciplina, non si pratica il sacerdozio ma l’assistenza sociale. Anche quella è lodevole, ma è un’altra cosa. La vita familiare, la cura della moglie e dei figli, distoglie dal­l’apostolato, che richiede una completa abnegazione e donazione di sé agli altri, a tutti gli altri, non ai parenti prossimi, che finiscono inevitabilmente per prendere il primo posto negli interessi della persona. Per questo esistono i diaconi, che sono una figura complementare a quella del sacerdote, e che possono sposarsi. Essi hanno compiti religiosi di aiuto o di anche di sostituzione del celebrante, senza però avere accesso ai carismi fondamentali, primo fra tutti la consacrazione dell’Eucarestia, che spetta solo a vescovi e preti, mentre dai diaconi può essere distribuita l’ostia ai fedeli. Nella “Lumen Gentium” di papa Paolo VI è scritto che ai diaconi «sono imposte le mani non per il sacerdozio ma per il servizio». Parliamo naturalmente della religione cattolica, che si attiene a diverse indicazioni che figurano nei Vangeli. Tra queste, ad esempio, in Matteo 19,12 è riportata una frase del Cristo molto significativa: «Vi sono infatti eunuchi che sono nati cosí dal ventre della madre, ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il Regno dei cieli. Chi può capire, capisca».

 




 

letterinaMia madre, molto avanti con gli anni, dopo il lungo periodo degli “ancora” (ancora faccio bene la pasta a mano, ancora stiro con precisione, ancora i miei rammendi sono invisibili, ancora cammino ogni mattina per fare la spesa, ancora ancora…) adesso è passata al periodo del “non piú” (non riesco piú a svitare il tappo dell’acqua minerale, non leggo piú l’oro­logio che sta in alto anche se ho gli occhiali, non esco più volentieri perché non salgo piú le scale con facilità, non riesco piú a capire bne i programmi della televisione, non riesco piú a infilare l’ago, non faccio piú questo, non faccio piú quello…). Come farle capire che è inevitabile alla sua età avere delle difficoltà, ma che è inutile sottolinearlo di continuo e che è fastidioso ascoltarlo?

 

Severina R.

 

L’età ha i suoi passaggi da un livello all’altro, e tutti, chi prima chi dopo, arriviamo agli stessi punti dell’“ancora” e del “non piú”. A chi è vicino, la pazienza di sopportare, meglio se con un sorriso rassicurante. Altrimenti accade che dopo la morte della persona cara, che ora ci infastidisce, rimpiangiamo di non essere stati sufficientemente pazienti e amorevoli. Sono molte le persone che raccontano di sentirsi a disagio nel ricordare l’irritazione provata e anche manifestata, quando avrebbero potuto essere più comprensive e compassionevoli.  Si accorgono solo ora di essersi dimostrate insensibili, frettolose, distratte. Ma è tardi per rimediare. Cerchiamo di fare oggi quello che domani vorremmo aver fatto.