Ti conosco, mascherina...

Considerazioni

Ti conosco, mascherina...

 

Le circostanze correnti mi portano a parlare di mascherine. O, se vogliamo, di mascherate; tanto, non andrei fuori tema. Da un po’ di tempo, quando esco di casa (non spesso, ma come tutti ho da sbrigare le esigenze di ordinaria amministrazione) sono costretto a camuffarmi da outlaw man del Far-Ovest e questo è già di per sé un fatto insolito, anche se mitigato dalle vigenti disposizioni. Mi ritrovo cosí in buona compa­gnia; pure quei pochi che incontro, sono bardati a puntino. Resta semmai il dubbio di chi siano gli sceriffi o chi invece siano i fuori-legge che vanno in giro a combinar marachelle. A pen­sarci bene, in fondo non è questo il problema: “Marachelle & Co” si svolgevano in passato anche senza la cornice del contagio, prima ancora che da Cinecittà uscisse “Guardie e Ladri”. Il distinguo tra briganti di carriera e banditi occasionali era però, a quei tempi, meno arduo, bisogna dirlo.

 

Ti conosco mascherinaLe mascherine che – ci insegnano – essere d’uso protettivo ad personam, conferiscono a queste giornate un tocco particolare vagamente inquietante; soprattutto contraddicente la domanda di verità cui l’anima umana (inquieta o no) si dice che aspiri. Passerà questo alla storia come “il periodo delle mascherine”, e sui testi di scuola anche i piú piccoli vedranno Jess il Bandito, Joe Dillinger e Johnny Stecchino con la pezzuola al naso, assimilati ai vip dell’attuale classe politica.

 

Non chiedetemi se in tutto questo sia ravvisabile la mano della Nemesi, perché ho abbandonato le mie ricerche sulla predestinazione da oltre vent’anni, e – in precedenza – non avevo previsto che un giorno l’avrei fatto; quindi…

 

È interessante guardare all’uomo di oggi come ad una persona che, dimentica del proprio passato, non riesce ancora a focalizzare il presente e tuttavia si ostina a scrutare nel futuro, facendo pro­nostici, avanzando strategie e ipotecando progetti su scala mondiale. Sembrerebbe che le speranze di esprimersi in grande non lo abbandonino mai, il che è anche giusto dal punto di vista dell’im­pulso autoeducativo, ma lo è di meno se si valutano i filtri attraverso i quali tali speranze o impulsi idealistici si son fatti largo nella sua interiorità.

 

Qui entriamo in un’area di argomentazione piuttosto pericolosa, perché in sostanza ci stiamo chiedendo se le basi di partenza da cui puntiamo i nostri “missili” concettuali siano davvero solide come crediamo e reggano all’urto. Una cosa è affermare di voler riforestare il Sahara o di gettare un mirabolante Ponte sullo Stretto, un’altra è voler fare le cose per bene entro i tempi e i costi prestabiliti. Si presentano entrambe come espressioni di volontà, ma la loro similitudine si riduce a consonanza fonetica.

 

Prima mascherina

 

Consideriamo per un momento il problema delle comunicazioni. Partiamo dalle piú semplici, da quelle che in teoria non dovrebbero dar luogo a equivoci, incomprensioni, sviste o interpretazioni funamboliche. Cose spicciole, cose di tutti i giorni, sulle quali o con le quali, però, costruiamo tutto il resto. Che succede se l’idea da cui abbiamo preso le mosse ci frana fra le mani e si dissolve come il fumo di una candela appena spenta?

 

Un amico piuttosto ottimista diceva di sentirsi “intelligente quanto basta”. Era un concetto sul quale si poteva discutere, e l’abbiamo fatto quanto bastava a capire che non ne saremmo venuti a capo. Ho ricordato il caso perché da tre mesi le comunicazioni dei media mi ragguagliano piú volte al giorno sui dati dell’epidemia in corso, riferiti alla situazione nazionale e mondiale. Col risultato che ad oggi, io non ho ancora capito se i numeri della mortalità ex Covid-19 siano maggiori, minori, o pressappoco uguali, a quelli della mortalità ordinaria degli anni passati.

 

«Omen non quero tantum quid» ripeteva spesso un umanista sui generis col quale ebbi a che fare tempo addietro; eppure continuiamo a presagire senza mai arrivare all’essenza immediata delle questioni. In effetti, girarci attorno per alcuni è meno faticoso, per altri piú utile.

 

Se l’annunciatrice della TV riferisce sull’epidemia «…purtroppo ancora molti morti rispetto a ieri: 363 in tutto», come dovrei capire il risultato? Che tra ieri e oggi ci sono stati 363 lutti da aggiungere al totale parziale del giorno prima, o che la cifra di 363 è omnicomprensiva di questi e di quelli?

 

pacco 50 mascherineUna volta risolto il problema dei quantitativi e dei rifornimenti, il prezzo delle DPP (è bello sbizzarrirsi nel giochino degli acronimi), ovvero mascherine, è stato calmierato per decisione del governo ad euro 0,61 cadauna IVA compresa (Errata corrige: oggi l’IVA è stata tolta, ma il risparmio che ne deriva non credo inciderà sul debito pubblico). Sono però introvabili; o meglio, sono sí trovabili, ma vengono vendute soltanto a pacchi di 50 pezzi. «Sa, ci spiace, siamo addolorati – mi dice un farmacista – ma ci arrivano cosí, e non possiamo ogni volta sballare l’impacca­tura per una singola richiesta». È un ragionamento antigover­nativo o un modo pretestuoso per farti capire che quando tira aria di carestia, piú che ’l dolor poté il digiuno? Non ci si deve scandalizzare; però chi ha un’idea e non trova poi la forza di realizzarla… poteva anche fare a meno di averla.

 

Fin dal principio, le nostre fonti d’informazione funzionano male, sono superficiali, sbadate, non vengono rivedute a dovere; molto spesso si dice tanto-per-dire e si fa tanto-per-fare; agli ascoltatori, anche di fronte la gravità delle notizie che richie­derebbero una particolare attenzione, non viene data la certezza di comprendere il comunicato; ne segue che ciascuno interpreta per conto proprio; un vero e proprio invito a nozze per le popolazioni d’origine latina.

 

Non appena un insigne professionista della Sanità mi rappresenta l’orrore numerico della mortalità pari a una specie di sterminio di massa, ecco arrivare l’emerito scienziato il quale, con disincantato cipiglio, dimostra che non solo l’illustre collega si sta sbagliando di grosso, ma che anche questa epidemia, come tutte le precedenti, rientra in un quadro clinico perfettamente adeguato alla fisicità dell’epoca presente, e che – di conseguenza – il non riuscire dapprima ad emettere un numero di anticorpi sufficiente a rintuzzare l’attacco virale, richiede l’unica strada bio-logica da percorrere: aspettare fino ad arrivare al punto di emetterli sul serio.

 

Ma nell’attesa che questi anticorpi prendano il sopravvento sul morbo, quanti lutti dovremo aspettarci? La risposta della scienza qui si dialettizza, cercando di dire un poco senza dire troppo, ma in sostanza riportandosi al vecchio adagio di mia nonna, in cui, per l’appunto, si afferma l’im­possibilità di fare le frittate senza rompere un certo numero di uova.

 

Se i decessi nel mondo causati dal virus si contano a centinaia di migliaia, quelli provocati da incidenti stradali, da overdose o da suicidi si contano a milioni. E questo accade per ogni anno di calendario. C’è una ragione per cui gli organi d’informazione non ritengono opportuno presentarci uno studio comparativo sul fenomeno delle departures?

 

Questi tristi conteggi, tirati un po’ qua e un po’ là, secondo come soffia il vento, mi ricordano un vecchio film (una parodia western) nel quale un forestiero di città, è costretto a cimentarsi nel gioco dei dadi in un saloon texano, contro un omaccione scalmanato, prepotente e per giunta pistolero ad oltranza.

 

Il cattivone imponeva di giocare con i suoi dadi personali, e quando il timoroso avversario gli faceva sommessamente notare che le facce di quei dadi erano talmente consumate da non lasciar leggere i relativi punteggi, l’energumeno si adombrava, affermando di essere uomo d’onore e di ricordare perfettamente i valori dei dadi in qualunque modo fossero sortiti durante la partita, per cui non c’era motivo di protestare; e sbatteva pure, a garanzia dell’impegno morale, il revolver sul tavolo da gioco con una certa foga.

 

È evidente che tutto questo non c’entra per nulla con il modo d’informare ascoltatori, teleutenti e lettori di cronaca, ma – chissà perché – mi è venuto l’estro di fare questo accostamento. A volte la fantasia fa degli scherzi, ci mostra cose che non esistono, e noi, un po’ ingenui e un po’ bellimbusti, le diamo credito, archiviando fedelmente lucciole e lanterne, fischi e fiaschi, virilismi e virulenze.

 

Chi ha il potere, pretende di essere creduto e obbedito; chi non lo ha, finge di credere e si arrangia come può. «Mangi ‘sta la minestra o salti dalla finestra?». «Ok capo; mi ha convinto: mangio la minestra» (ma domani, giuro che vado ai sindacati).

 

Seconda mascherina

 

Di tanto in tanto ascolto i notiziari regionali. Ero stupito nel sentire che alcuni servizi esterni provenivano da un inviato, chiamato dal conduttore del radiogiornale “l’arabo Kassín”. Mi pareva un modo piuttosto maleducato di indicare un corrispondente, e dal momento che la radio non offre immagini, cercavo di ricostruire idealmente chi poteva essere l’operatore in questione. Come mai non veniva indicato con tanto di nome e cognome come si fa per prassi con i reporter dediti ai servizi esterni?

 

Ad aumentare la mia perplessità stava poi il fatto che nell’ascoltare il pezzo di cronaca raccontato dall’addetto in questione, coglievo nella sua parlata una dizione perfetta, priva di qualsiasi accento esotico, in un italiano sciolto, fluente, e – cosa ancora piú incredibile – notevolmente dolce ed effeminata a udirsi, anche se educata e contenuta nella normale tonalità di chi deve dire e concludere nei brevi spazi concessi dalla radiocronaca.

 

Arabo KassínPer cui mi sono ritrovato a ricamare figurativamente un giovane giornalista levantino, di nome Kassín, chissà, forse siriano o libanese, magari adottato in tenera età da genitori italiani, fatto studiare fino alla laurea e quindi introdotto nel difficile mondo dei free lancer, un pochino corrottosi poi attraverso la moderna cultura occidentale, cosí aperta nel voler presentarsi diversa anche negli aspetti piú intimistici della vita di relazione, riuscito tuttavia, con la sua bravura e tenacia, a ritagliarsi un posto di lavoro significativo presso un’emittente radiofonica di tutto rispetto, ed ora un roseo futuro gli si apriva davanti ecc.ecc…

 

Senza volerlo mi ero ricostruito a modo mio la vita e la carriera di un giovane immigrato, moderno, colto e disinibito. Restava da capire perché la sua redazione continuasse a targarlo con quello squallido epiteto “l’arabo Kassín”. Non mi sembrava giusto ferirlo cosí; prevedevo il suo risentimento quando, al di fuori dal lavoro, doveva fare i conti con se stesso e tentava di capire il maltrattamento subíto, e che se voleva continuare a lavorare in occidente, questo era il prezzo da pagare.

 

Poi un giorno accade che, anziché ascoltare il notiziario regionale alla radio, come al solito facevo, lo guardai alla tv, e il mio piccolo mondo costruito sulla figura dell’arabo Kassín franò rovinosamente. In cambio conobbi la giornalista Lara Bocassín, una giovane signora molto spigliata, nata in Italia, simpatica, acculturata e tranquillamente femminile, per cosí dire, sotto molteplici aspetti.

 

Di tanto in tanto dimentico che il diavolo fa solo le pentole. Al minestrone ci pensiamo noi; con sette miliardi di ricette per la testa, abbiamo l’eternità intera da sperimentare; per intanto sogniamo ad occhi aperti, e non appena, puntualissima, la realtà suona la sveglia, ci ritroviamo tutti col fiam­mifero in mano. Un po’ stralunati, ci guardiamo negli occhi, e la prima cosa che ci viene da dire, è questa: “Ma… allora… sei stato tu?».

 

Visto però che, per ora. ce lo diciamo in molte lingue, possiamo sempre sostenere di non aver capito perché “gli altri” hanno sempre la pessima abitudine di parlare in modo incomprensibile.

 

A Gerusalemme contro il coronavirusTerza mascherina

 

Nel giorno 22 del mese di Aprile dell’anno 2020, a Gerusalemme, sulla terrazza dell’Hotel King David, è avvenuto un fatidico incontro. I rap­presentanti delle tre religioni monoteiste si sono riuniti e hanno invocato il soccorso divino per sollevare l’umanità dal flagello pandemico. Lo hanno fatto a turno, recitando la medesima pre­ghiera (Salmo 121) e mantenendo tra loro la distanza di sicurezza prevista dalle regole.

 

Avverto il bisogno di opinare. Non desidero contestare l’encomiabile iniziativa, né voglio cri­ticare le volontà che l’hanno decisa e resa fat­tibile. Ma proprio con il senso pratico dell’uomo della strada, refrattario alla mistica d’esibizione e relativi protocolli, non posso fare a meno di evidenziare alcuni elementi di disturbo, qui intesi in senso transitivo e intransitivo.

 

La tardività: con tutto quel che è accaduto nell’ultimo secolo e in quello precedente (prendiamo soltanto questi due, come testimonianze storiche piú vicine) ci voleva la paura della malattia, e quindi della morte, per invocare il Divino? Nei vari culti si celebrano quotidianamente messe, riti, preghiere e suffragi; durante le situazioni gravi, specie se collettive, essi s’intensificano secondo il concetto (mai dichiarato) che il Dio predilige la quantità delle orazioni alla qualità degli oranti; fatto già di per sé preoccupante. L’anima che veramente aspiri alla luce non dovrebbe farlo solo nei momenti in cui il buio fa piú paura.

 

La motivazione: abbiamo qualche problema nell’incontrare la morte? Non ci hanno insegnato fin da bambini, o comunque lo abbiamo capito da soli, che tutti dobbiamo morire e che la nostra vita è una strada che porta inevitabilmente alla fine dell’esistenza fisica? Religioni e Chiese con i loro insegna­menti e liturgie non hanno forse predisposto, dalla notte dei tempi, un apparato incredibilmente preciso di ritualità e di cerimonie al proposito? Perché dunque “scomodare” il Divino per un fatto che è perfettamente naturale, assiomatico e congenito ad ogni organismo vivente? Anelare all’eternità sub specie corporitatis val quanto indossare una maschera allegra per nascondere quella triste.

 

La punizione: è un oscuro senso di colpa quello che ci fa chiedere “liberaci dal male”? Viene da sup­porlo. Si sa di dover morire, ma non ci va bene morire di “coronavirus” o quel che è. Perché? Cos’ha questo coronavirus che non va? Fin poco tempo fa, ad un condannato non si dava licenza di scegliersi un boia di suo gradimento. Si moriva e basta; e tutti i modi andavano bene all’occorrenza, tant’è vero che nessuno ha mai fallito. Gli anglosassoni insegnano: “however work” e sono convinti – grosso modo – di stare ad un principio etico.

 

Non occorre aver studiato psicologia dal prof. Andreoli, per capire che le cose non sono cosí come si vorrebbe dare ad intendere. C’è nell’essere umano un qualcosa chiamato “coscienza di sé” che, per quanto afflitta, bistrattata e crepata, continua ancora a funzionare; questa coscienza sa benis­simo che tutto ciò che viene comunemente chiamato “male” ce lo siamo creato, o comunque lo abbiamo fatto noi con le nostre mani. Se veramente provenisse dall’Alto, non sarebbe piú un male, non creerebbe sofferenza, né dolore, né morte.

 

Nella Fonte da cui sgorga la Vita è racchiuso il segreto della caducità, di cui la morte fisica è la disvelazione. Garantisco su ciò che ho di piú caro, di non essere l’unico a sostenerlo. Su tal punto, vi sono precedenti illustri.

 

Cataclismi, pestilenze e carestie non hanno matrici diverse da quelle che hanno prodotto guerre, inquinamento e corruzione. Questo le coscienze umane l’hanno capito bene ma, ove lo facciano, si pre­ferisce crederla una recitazione autolesionistica di soggetti problematici, patologicamente affetti da un cupio dissolvi, e quindi si continua imperterriti a tirare il Divino per la giacca onde finalmente ascolti la vibrante richiesta dei prodi fedeli; ché tutto sommato, stando agli annali, nella maggior parte dei casi non risultano poi esser tanto fedeli né altrettanto prodi, ma, fin troppo spesso, infingardi e opportunisti.

 

Racconta la stampa e narrano i media, che nel dí 22 del mese di Aprile dell’anno 2020, convenute in Gerusalemme, le tre grandi religioni monoteiste hanno invocato l’unico Dio. Cioè hanno invocato l’unico Dio che conoscevano: quello nel cui nome hanno sovente sconquassato l’umanità e il mondo, infliggendo pene, sofferenze e turpitudini a destra e a manca, passando per il centro.

 

Ora, ricongiunte le millenarie responsabilità, hanno voluto elevare una preghiera corale rivolta al Cielo, onde ottenere, se non una Grazia, almeno un’indulgenza, una dispensa, un alleggerimento di pena; o quel che, con voce forense, gli avvocati d’ufficio, chiamano “le attenuanti generiche”.

 

Ci si deve consolare. Ai convinti che opinano in senso opposto, resta comunque la positività del gesto; un tentativo povero e grezzo, che, fatto vivere e sviluppare nella sua energicità intrinseca, potrebbe anche segnare l’inizio di un cambiamento futuro. Per altri ancora, ai quali tutto questo sembra non riguardare in alcun modo, rimangono il giorno, il mese, l’anno, la religione e l’epidemia a far da cinquina per la prossima estrazione. In tal caso, si appellerebbero, senza saperlo, alla divinità infera, ma si sa, chi vive con l’anima costantemente sottosopra, finisce per bussare all’uscio sbagliato.

 

Queste considerazioni non inducono empatia; fissate troppo a lungo, possono condurre all’“em-pazzia”. Meglio, con pindarico volo, cambiare registro, augurandomi che il tempo degli sfoghi si sia consumato. Publio Virgilio Marone scrisse: «Basta con le piccinerie, ragazzo! Cantiamo di cose piú elevate!». Coglierei volentieri l’esortazione, se sapessi come fare. A me, chi mi eleva? È facile dire «Ad majora!» ma ai piccoli si addicono cose piccole e ai pesanti le cose piú gravi.

 

La vita, però, che la sa piú lunga di noi, viene incontro a tutti; basta saperla cogliere nei suoi fantasmagorici aspetti. Meglio sarebbe intuire la forza che sta dietro tutte le fantasmagoricità e le rende possibili, ma anche prenderne una sola, magari la piú rilevante, è sempre meglio che niente.

 

Ezio BossoDi fronte al proliferare di questa magia, pure la Rai, Radio Televisione Italiana, è apparsa impotente, e forse, senza avvedersene piú di tanto, ha ritrasmesso in questi giorni un pezzo dedicato al maestro Ezio Bosso, nel tentativo di onorarne la recente scomparsa. Sentire quel Maestro d’arte e di vita, ascoltare le sue parole, vederlo dirigere l’orchestra nella sua maniera cosí incredibilmente personale, eppure per questo altrettanto se non ancor piú genuina; assaporare i temi composti da lui stesso, o eseguiti sugli spartiti di sinfonie immortali: beh, ridesterebbe chiunque dal torpore malsano del borghese medio, a digiuno di speranza e di positività.

 

Cosí fu anche per me; non appena in grado di ristabilire la calma interiore smarrita (grazie, Maestro Bosso!) il mio sguardo si posò sulla pagina dell’Archetipo del mese di Aprile 2020, pre­cisamente al fondo dell’articolo intitolato “Psicologia Spirituale e Osservazione del Mondo”; in pratica, una parte della Conferenza tenuta da Rudolf Steiner a Berlino, il 28 aprile 1904 (O.O. N° 52). Colsi la frase: «L’uomo non è né libero né non libero; è coinvolto in un processo di evoluzione». 

 

Devo dire che rimasi folgorato; il contenuto non mi suonava assolutamente nuovo, eppure suonava, eccome, e in una tonalità che fino ad allora non mi era mai accaduto di sentire.

 

Vi sono dei momenti in cui ci si sente lieti e soddisfatti di aver appreso un qualche cosa; c’è poi la gioia di quando la tal cosa viene anche capita a fondo; ma nulla è piú determinativo dell’attimo in cui, mediante una sintesi chiara e pulita, l’assunto del concetto si presenta alla nostra anima in tutta la sua ampiezza; è una forma di Weltanschauung organica, vivente di una potenzialità che supera in lungo e in largo le forze della natura conosciute, e che, fino a poco fa, avevo solamente immaginato dopo lunghi sforzi intellettivi e riflessioni parziali, inseguendo una rappresentazione di sostegno, capace di rispondere alla vita tanto in senso biologico quanto in quello metafisico.

 

Evidentemente ogni cosa ha un suo periodo di maturazione e finché non è giunto a termine conti­nuiamo a fissare il dito che indica l’alto e a chiederci cosa possa esservi in quel dito di cosí interes­sante. Parlare delle mascherine, ragionarci sopra, sputando di tanto in tanto un po’ di vapore sulfureo misto a veleno, è stata cosa utile. Ha creato una piccola catarsi e mi ha svelato la grandezza di un pensiero di Rudolf Steiner che, in altri tempi, avrei rispettosamente bypassato, convintissimo di averlo letto, compreso e confermato piú di una volta. Sarebbe tuttavia uno spreco di energia mettersi ora qui a fare le chiose su tutto quello cui la frase rimanda, e rinnova come saggezza di un passato umano, e come messaggio di un amore proveniente dal futuro. L’equilibrio di quel pensiero steineriano non può essere sfiorato senza comprometterne la dinamica che lo regge e lo rinsalda attraverso i tempi.

 

La sua prima parte mette a tacere una buona metà dei nostri problemi individuali ed extra; la seconda, si presenta come una realtà ancora non del tutto proferibile, in quanto priva di una identità filosofica capace di porsi a disposizione di tutti.

 

Qui l’arrogante modestia della Ricerca Scientifica e la modesta arroganza dell’Ideologismo, laico o di fede, devono togliersi la mascherina e rivelare coram populo, quanto hanno celato e omesso, a se stessi e all’umanità, per essersi troppo a lungo rimirate nello Specchio delle Brame.

 

Visto che la stesura dell’articolo lo concederebbe, potrei indicarla come la “Quarta Mascherina”, ma è talmente vasta, e dietro di sé occulta un numero considerevole di volti, che finirei per rendere inopportuno questo scritto, appesantendolo in modo quasi subdolo, come accade quando null’altro avendo da dire, si tira in ballo in modo palese o criptico (dipende dalle correnti umorali) la vecchia teoria del “complotto internazionale”.

 

Eliminare la mascherinaIn effetti il complotto c’è, ed è piú vecchio di ogni altra teoria, perché le ha precedute tutte, imba­stendole, disfacendole e intrecciandole a piacimento. Ma non è internazionale. Avendo lo strumento adatto, si dovrebbe misurare il problema su scala epigenetico-cosmologica. Non vorrei tuttavia che queste mie parole inducessero qualcuno, piú confuso degli altri, a rivisitare le puntate di Star Treck.

 

Anche se le dimensioni dell’intrigo sono sovraumane ed extraterrestri, la fattività del suo svolgersi sta tutta nell’ambito degli uomini. Non è cominciata con l’uccisione di Abele da parte di Caino: è co­minciata con il formarsi della decisione di Caino di uccidere Abele. Su questa premessa, non ci pos­siamo fare niente, tranne che maturare una ben precisa consapevolezza in merito a quel che – non sempre, ma a volte – siamo capaci di essere; che – guarda caso – è proprio quella consapevolezza che l’andamento evolutivo si aspetta che realizziamo. Una guarigione, una conversione al vero, tale da permetterci di eliminare le usate mascherine.

 

Può anche non sembrare un granché; sapersi o non sapersi spiriti incarnati, vincolati alla sostanza materiale, ci trattiene sempre nella zona grigia del dubbio: “liberi o non liberi?”. Come stare rinchiusi in un enorme campo di pri­gionia, nel quale si vive, si lavora, ci si può amare/odiare, metter su famiglia, o abbandonarla, andare in vacanza ai monti o al mare, chiudersi in un convento o picchiarsi di santa ragione l’un l’altro (sempre all’interno di detto campo) e quant’altro; nulla fa sospettare che le cose potrebbero anche non essere ineluttabili e che l’esistenza terrestre si attende da noi quel che aprirebbe un varco su uno scenario inedito.

 

Portare a galla dal profondo di sé, l’idea (ripeto, l’idea; non l’ipotesi) di essere un organismo cosciente coinvolto in un processo di evoluzione, e lavorarci sopra vivendola in continuo riscontro con la realtà d’ogni giorno, forse non spiegherà i misteri della Piramide di Cheope, né quello di Stonehenge, ma senza dubbio saprà dirci qualcosa di piú circa il segreto della nostra origine, e di conseguenza aprirà pure una panoramica significativa sull’essere venuti qui, al mondo, su questo pianeta Terra, nella tal epoca e in tali popolo e famiglia.

 

Provo a riassumere a grandi linee, un excursus di questa specie, partendo da una posizione precisa: quella attuale in cui mi identifico. Il processo evolutivo mi condiziona. Devo darmi da fare (non per schivarlo, raggirarlo o modificarlo) ma per superarlo, come si fa in una prova d’esame. Superato il test, torno nuovamente a sentirmi libero (senza i condizionamenti di prima, e scambiando, ingenuamente, l’istante guadagnato per uno status di libertà). Perciò il processo evolutivo, che mi vuole continuare a promuovere, puntualmente disilluderà le mie aspettative e di condizionamenti me ne manderà subito altri, piú forti e piú grandi, secondo la misura del rafforzamento acquisito; quindi, pur partendo da una posizione rinnovata, dovrò di nuovo ripetere le emozioni, i timori, le speranze e i relativi disagi, incontrando il compito umano che mi viene posto davanti.

 

Man mano che progredisco, la spinta evolutiva aggiornerà su di me i suoi correttivi. Tocca a me, alla mia maturata capacità di valutazione, scoprirli giusti e meritori.

 

Il processo si protrarrà – evidentemente – a lungo, per molte ulteriori avventure terrene, in varie spoglie e diversi aspetti mortali.

 

Alla fine, ritorna comunque l’eterna amletica domanda: sono o non sono libero? Il sapersi coinvolti in un processo evolutivo dà l’avvio ad una spiegazione in verità complessa e diversamente logica; ma si può cominciare rispondendo in modo chiaro e semplice a quella parte di noi che veramente la vuole. La risposta è: «SÍ e NO», dipende. Valendo i condizionamenti (o prove, o avvenimenti, di qualunque ordine siano), ed esercitandomi a sostenerli: no, non sono libero. Valendo la mia facoltà di superarli (ovvero accoglierli e viverli in serenità, con la fiducia che essi sono perfettamente calibrati ai fini della mia crescita) sí: comincio a sentirmi libero.

 

Nave in radaÈ un continuo bilanciamento di forze e controforze, ma del resto, quanti amano l’esercizio fisico, il cimento con se stessi e le attività sportive in genere, lo sanno bene, ne hanno esperienza. Nessuno si sottopone a sforzi prolungati, sbuffando e sudando, se non si prefigge un determinato traguardo.

 

Non saprei dire se siamo liberi quando ci impegniamo per la corporeità, né quando ci sacrifichiamo per curare l’interiorità. Ma di sicuro lo siamo al punto cruciale, quando, contro tutte le opposizioni e le resistenze intessute di umana ragionevolezza, ci dedichiamo alla ricerca del senso del nostro esistere, dirigendola a quell’Io di cui soltanto Rudolf Steiner, Massimo Scaligero e pochi altri hanno saputo parlare.

 

Conosco parecchie persone che a questo punto mi fa­rebbero osservare: «Senti un po’, caro amico: tu parli di evoluzione, libertà, sacrifici e compagnia bella. Ma io ti dico che dalla vita mi aspetto soltanto pace, serenità e tranquillità. Non desidero altro. Chiedo troppo?».

 

Rispondo con un pensiero udito proprio in questi giorni e che mi sembra esplicativo: «Per una nave, pic­cola o grande che sia, il posto piú sicuro e tranquillo è lo starsene al riparo ormeggiata in un porto fidato e cono­sciuto. C’è tuttavia un “ma”: le navi non sono state fatte per questo».

 

Angelo Lombroni