Le Feste cristiane e la respirazione della Terra

Spiritualità

Feste cristiane e respirazione della Terra

 

Per situare in una prospettiva ancora piú larga le considerazioni che ho fatto ieri (vedi prec. articolo del maggio 2014: https://www.larchetipo.com/2014/mag14/spiritualita.pdf) a proposito della relazione che nei tempi antichi, e sotto l’influenza dei Misteri, si era sviluppata fra l’essere umano e il corso dell’anno, vi voglio parlare oggi di quello che, in quel lontano passato, si è creduto in merito a quello che l’uomo riceveva dal cosmo come conseguenza dello svolgimento dell’anno.

 

La conferenza di ieri vi ha fatto apprendere – forse vi siete anche ricordati di molte cose che ho sviluppato su questo tema lo scorso Natale in quel Goetheanum che ci è stato rapito – la conferenza di ieri, dicevo, vi ha insegnato che il corso dell’anno, con i suoi diversi fenomeni, poteva essere sentito, forse ancora può esserlo tutt’oggi, come lo svolgimento di una vita, come qualcosa che, in rapporto a ciò che si svolge nel mondo esteriore, esprime la presenza, nel retroscena, di un essere vivente, proprio come le manifestazioni del­l’organismo umano rivelano la presenza di un essere: l’anima umana.

 

Pensiamo a come gli uomini, sotto l’influenza degli antichi Misteri, sentivano nel pieno dell’estate, in quel momento dell’anno che è per noi San Giovanni, una certa relazione con il loro Io, un rapporto con un Io di cui non rivendicavano ancora il possesso esclusivo, ma che era visto in seno al mondo divino-spirituale. Quegli uomini credevano, con tutti i riti che ho descritto, di avvicinarsi, nel pieno dell’estate, a quel loro Io che durante tutto il resto dell’anno era nascosto agli uomini. Naturalmente, si rappresentavano il loro intero essere in seno al divino-spirituale. Ma pensavano che durante gli altri tre terzi dell’anno nulla si manifestasse a loro del loro proprio Io, ma che solo in quel quarto periodo, che raggiunge il suo apogeo a San Giovanni, si rivelasse loro, come attraverso una finestra aperta sul mondo divino, l’essenza del proprio Io.

 

Ma questa entità dell’Io individuale all’interno del mondo divino-spirituale, nel quale si rivelava, non era afferrata in maniera cosí neutra, indifferente e, si può ben dirlo, con tanto distacco come lo si vive oggi. Quando oggi si parla dell’Io, lo si pensa come se fosse una qualsiasi relazione reale di questo Io con il mondo di qua o con quello di là. Ci si rappresenta l’Io come un punto da cui irraggia tutto ciò che si fa, e nel quale vengono a confluire i raggi di tutte il sapere che si acquisisce. Ma il sentimento che l’uomo di oggi prova per il suo Io è piuttosto distaccato. Non si può neanche dire che sperimenti realmente tale Io, ma che invece sperimenti il suo ego; perché, a voler essere onesti, non si può dire che egli ami il suo Io in modo particolare. Egli ama il suo corpo, ama i suoi istinti, ama l’una o l’altra cosa che ha vissuto. Ma l’Io non è altro che una breve parola sentita come un punto: un punto nel quale si riassume, piú o meno, quello che ho indicato.

 

Ora, all’epoca in cui questo avvicinamento all’Io si compiva con solennità, in cui ci si preparava lungamente al fine di incontrare in un certo modo il proprio Io nell’universo, all’epoca in cui si sentiva poi che questo Io si ritirava a poco a poco, lasciando l’uomo solo con il suo corpo e la sua anima – quello che oggi chiameremmo il suo essere fisico, eterico e astrale – in quel tempo si sentiva veramente che l’Io era in relazione con tutto il cosmo, con tutto l’universo.

 

Ma ciò che si sentiva in primo luogo, riguardo a questo Io nella sua relazione con il mondo, non aveva nulla in comune con il naturalismo, per usare un termine attuale, non era niente che fosse concepito soltanto come un fenomeno esteriore; era qualcosa che si concepiva come punto centrale dell’antica concezione morale del mondo. Non si partiva dall’idea che nel pieno dell’estate si rivelavano all’uomo i grandi misteri della natura. In quei tempi, l’uomo non faceva attenzione principalmente a quei segreti della natura che abbiamo citato ieri; egli aveva al contrario il sentimento che in questa stagione dall’estate, quando il calore e la luce raggiungono la massima intensità, prima di tutto si rivelavano a lui gli impulsi morali, che egli doveva fare suoi. Era la stagione che l’uomo sentiva quale illuminazione morale divina. E quello che con la musica, la poesia, la coreografia coltivava in quei tempi, si voleva soprattutto ricevere dai cieli come risposta: quello che si attendeva era che si manifestasse, dall’alto dei cieli, con tutta la gravità voluta, quello che i cieli esigevano dalla condotta morale degli uomini.

Zeus armato di saette

Zeus armato di saette

 

Quando si celebravano i riti che ho descritto ieri, quando nella pesantezza del calore estivo si celebravano quelle feste e che un violento temporale scoppiava con tuoni e fulmini, si sentiva che tuoni e fulmini erano un’esortazione morale indirizzata dai cieli all’umanità terrestre. Di quegli antichi tempi è rimasta questa idea che Zeus è il dio del tuono, il dio armato di saette. Un’idea analoga è collegata al dio germanico Donar. C’era questo da una parte, dall’altra quanto vi dirò ora.

 

Direi che lí si sentiva la natura nella sua opulenza, il suo calore, il suo splendore, si sentiva durante il giorno e fino alla notte lo splendore e il calore della natura, con la sola differenza che ci si diceva: durante la giornata, l’aria è colma dell’elemento calore, dell’elemento luce. In questi elementi vivono e sono all’opera i messaggi spirituali con i quali le alte entità divine vogliono manifestarsi agli uomini, dotarli di impulsi morali. Ma di notte, quando le alte entità spirituali si ritirano, i messaggi restano e si manifestano a modo loro. Ed è cosí che nel pieno dell’estate si sentiva la natura all’opera: nelle notti d’estate, nelle sere d’estate. E ciò che allora si viveva era come un sogno d’estate che si sarebbe poi vissuto nella realtà, un sogno d’estate in cui si era particolarmente vicini al mondo divino-spirituale: un sogno d’estate nel quale si era convinti che tutti quelli che si presentavano di fatto come fenomeni naturali, erano allo stesso tempo il linguaggio morale degli Dei, ma che vi erano attive anche diverse specie di esseri elementari, che a modo loro si manifestavano agli uomini.

 

Tutto ciò che rendeva bello questo sogno di una notte d’estate, questo sogno della notte di San Giovanni, è quello che in seguito si è conservato delle meravigliose forme create dalla immaginazione umana per rappresentare tutte le potenze dello Spirito e dell’anima che impregnavano il tempo del colmo dell’estate; tutto questo era ritenuto una rivelazione cosmica di ordine spirituale e morale rivolta dagli Dei agli uomini. E cosí possiamo dire che alla base di tutto ciò c’era la seguente rappresentazione: all’apogeo dell’estate, il mondo divino-spirituale si rivelava con degli impulsi morali che erano inculcati agli uomini dall’Illuminazione (vedi disegno).

 

Stagioni

 

Quello che allora si sentiva in modo particolare, quello che agiva sugli uomini, lo si sperimentava come qualcosa di sovrumano che interveniva nell’ordine umano. L’essere umano che con la sua sensibilità partecipava a quelle solennità, sapeva che in quel momento era sollevato al di sopra di se stesso fino a un livello sovrumano: in un certo senso la divinità prendeva la mano che in quel momento l’uomo le tendeva. Tutto quello che si sentiva di avere in sé di divino-spirituale veniva attribuito alle rivelazioni del tempo di san Giovanni.

 

Quando arrivava la fine dell’estate e sopraggiungeva l’autunno, quando le foglie appassivano e maturavano i raccolti, quando la vita esuberante dell’estate impallidiva e gli alberi si spogliavano, si sentiva allora, visto che le conoscenze dei Misteri s’introducevano in quello che allora si provava, si sentiva che il mondo divino-spirituale si ritirava dagli uomini. L’essere umano sentiva che era lasciato a se stesso; usciva, per cosí dire, dallo spirituale per entrare nella natura. Con l’autunno, la vita umana usciva dallo spirituale, entrava nella natura. Le foglie degli alberi si mineralizzavano, le sementi seccavano e si mineralizzavano. Tutto tendeva in qualche modo verso la morte annuale della natura.

 

In quest’unione intima con il processo di mineralizzazione di quanto era sulla Terra e attorno alla Terra, l’uomo sentiva che si univa intimamente alla natura. In quello che viveva interiormente, l’essere umano era ancor piú vicino a quanto accadeva nel mondo esteriore. La maniera con cui viveva quest’unione con la natura era anche oggetto dei suoi pensieri, delle sue riflessioni. Tutta la sua attività pensante rivestiva questo carattere. Se volessimo esprimere nel nostro linguaggio odierno quello che l’essere umano sentiva all’avvicinarsi dell’autunno, dovremmo dire quanto segue. Ma vogliate ben capire che parlo con le parole di oggi e che, all’epoca, non si sarebbe stati in grado di esprimersi cosí. Perché, allora, tutto era interamente nella sensibilità, non si caratterizzavano le cose con il pensiero.

 

L’essere umano provava questo passaggio dall’estate all’autunno in modo tale che con la direzione dei suoi pensieri, con la sua maniera di sentire, egli trovava il passaggio dalla conoscenza dello Spirito alla conoscenza della natura (vedi disegno). L’uomo sentiva che con l’avvicinarsi dell’autunno non era piú al livello della conoscenza dello spirito, ma che l’autunno esigeva da lui che si donasse alla conoscenza della natura. L’essere umano cominciava a riflettere sulla natura.

San Michele

 

Ed era ancora cosí al tempo in cui ci si basava sul fatto che l’essere umano era una creatura, un essere all’interno del cosmo. Allora, si sarebbe considerato insensato di dare in estate agli uomini delle conoscenze sulla natura secondo la forma usuale in quel tempo. L’estate metteva gli uomini in relazione con le realtà spirituali dell’universo. Quando cominciava l’epoca che noi chiamiamo di Michele, quello era il tempo in cui si diceva: tutto ciò che l’uomo prova intorno a sé nelle foreste, negli alberi, nelle piante, tutto questo è in lui incitazione a darsi alla conoscenza della natura. Era piú generalmente il tempo in cui gli uomini dovevano avere come occupazione la conoscenza, la riflessione. Era infatti il tempo in cui le condizioni esteriori della vita lo rendevano possibile. La sua vita faceva dunque passare l’uomo dalla Illuminazione alla Conoscenza. Era il tempo della Conoscenza, di una conoscenza che doveva intensamente crescere.

 

Quando i discepoli dei Misteri ottenevano il loro insegnamento dalla bocca dei loro Maestri, questi davano loro delle massime che ritroviamo fra quelle dei Saggi greci. Ma quelle sette massime dei sette Saggi della Grecia non sono quelle dei Misteri delle origini. In questi ultimi, per il pieno dell’estate, c’era la massima seguente: “Ricevi la luce”, e con “luce” si designava, in realtà, la saggezza spirituale. Si designava cosí la saggezza all’interno della quale l’Io di ciascuno irraggiava.

 

Per l’autunno, per esortare le anime a quella che doveva essere la loro attività, i Misteri avevano forgiato la massima seguente: “Guarda intorno a te”. L’anno nel suo svolgimento, e con esso quello che l’uomo sentiva del proprio essere come legato a tale avvenimento, andava verso la stagione dell’inverno.

 

Entriamo ora nel cuore dell’inverno, in cui si trova il nostro tempo di Natale. Come all’apogeo dell’estate l’essere umano si sentiva sollevato al disopra di se stesso, fino alla sfera spirituale divina del cosmo, allo stesso modo, nel cuore dell’inverno, egli si sentiva come inondato dal flusso delle forze della terra, come trasportato dalle forze della terra, come se la natura della sua volontà, quella dei suoi istinti e pulsioni, fosse penetrata e percorsa dalla gravità, da una forza di distruzione e da altre forze che hanno la loro sede nella terra. In quegli antichi tempi, l’uomo non percepiva l’inverno come accade a noi – noi ci sentiamo invasi dal freddo e ci infiliamo, per esempio, degli stivali per non avere freddo – egli sentiva quello che saliva dalla terra come qualcosa che si univa allora al proprio essere. Sentiva cioè la luce e il calore pesante, in contrasto con il freddo che saliva dalla terra. Noi sentiamo ancor oggi il freddo glaciale perché riguarda il nostro corpo, ma l’uomo di una volta sentiva nella sua anima il freddo glaciale associato all’oscurità, alle tenebre. Aveva come il sentimento che, ovunque andasse, le tenebre uscenti dalla terra lo rinchiudessero come in una nuvola: soltanto fino a metà del corpo, è vero, ma questo era il suo sentimento. E poi si diceva – posso caratterizzarlo solo con i termini del nostro linguaggio – egli si diceva: al tempo della piena estate, è l’illuminazione che è davanti a me; il celestiale, il sovraterrestre affluisce in questo mondo terrestre; adesso sono i flussi dell’elemento terrestre a salire verso di me.

 

Ma già dai giorni dell’equinozio d’autunno, l’essere umano sentiva vivere in lui, percepiva qualcosa di questo elemento terrestre. Questa esperienza, questa impressione che egli aveva della natura terrestre, era ancora in un certo modo conforme alla sua natura, aveva ancora a che fare con la propria natura. Potremmo dire in proposito qualcosa come: all’equinozio d’autunno, egli sentiva nel suo animo, nel mondo dei suoi sentimenti, l’elemento natura; ma adesso era come se la terra lo reclamasse, come se le forze della terra prendessero nelle loro reti la forza della sua volontà. Provava questo come il contrario dell’ordine morale del mondo. Contemporaneamente a questa nefandezza nera, che l’avvolgeva come una nuvola, egli sentiva le forze avverse alla moralità avvolgerlo nelle loro reti. Sentiva le tenebre salire dalla terra come dei serpenti che gli si avvolgevano attorno. Ma sentiva ancora qualcosa d’altro. Già durante l’autunno aveva sentito animarsi quello che oggi noi chiamiamo intelletto. Mentre in estate l’intelletto esala come un vapore, dall’esterno arriva l’alta saggezza tutta impregnata di moralità, e durante l’autunno l’intelletto si consolida, nel cuore dell’inverno si sentiva letteralmente manifestarsi il serpente, ma allo stesso tempo consolidarsi, rinforzarsi l’intelligenza, la facoltà di riflessione – consolidazione e rinforzo di quello che rendeva l’uomo furbo e astuto, di quello che l’incitava a coltivare l’utilitarismo nella sua vita. Si sentiva tutto ciò in questa maniera. E come in autunno la conoscenza della natura si annunciava progressivamente, cosí nel cuore dell’inverno si avvicinava all’uomo la tentazione degli esseri infernali, la tentazione del male. In questo modo si sentiva allora. E cosí come scriviamo (vedi disegno) Impulso morale e Conoscenza della natura, vicino a Cuore dell’inverno scriveremo: “L’uomo tentato dal male”.

Il Pollaiolo «La Prudenza»

Il Pollaiolo  «La Prudenza»

 

Era il tempo in cui l’uomo doveva sviluppare quello che in ogni modo e naturalmente si associava nella sua persona: il pensiero intellettuale, l’astuzia, la furberia, il senso dell’utile. L’uomo doveva domare tutto questo con la Prudenza. Era il tempo in cui doveva sviluppare qualcosa d’altro dell’apertura dell’anima alla saggezza, quella apertura che, nello spirito dell’antica saggezza dei Misteri, si esigeva da lui al tempo della Illuminazione. Era precisamente il momento in cui il male si manifestava nel modo indicato, e l’essere umano poteva provare nel giusto modo la resistenza al male: con la Prudenza. Avendo fatto un grande cambiamento, passando dalla Illuminazione alla conoscenza, dalla conoscenza dello Spirito a quella della natura, adesso bisognava, prima di tutto, che passasse dalla conoscenza della natura alla percezione del male. Cosí si vedevano le cose. E agli allievi dei Misteri si volevano dare degli insegnamenti che fossero per loro dei precetti. Ad essi, nel pieno dell’estate, era stato detto: “Ricevi la luce”, e in autunno: “Guarda intorno a te”, gli allievi dei Misteri ricevevano nel cuore dell’inverno questa sentenza: “Guardati dal male”.

 

Si contava che, osservando cosí la Prudenza, guardandosi dal male, gli esseri umani sarebbero arrivati ad una specie di conoscenza di se stessi che li avrebbe condotti a capire come, nel corso dell’anno, si fossero distaccati dagli impulsi morali. L’essersi discostato dagli impulsi morali con la percezione del male, quest’ultimo affrontato con la Prudenza: di questo gli uomini dovevano prendere coscienza nel tempo che seguiva il cuore dell’inverno.

 

È per questo che s’incorporavano a questa saggezza ogni sorta d’insegnamenti che incitavano l’uomo a fare penitenza per tutto quanto lo aveva fatto derogare – egli adesso lo capiva – dagli impulsi morali che aveva ricevuto con l’Illuminazione.

La Penitenza

La Penitenza

 

Ci avviciniamo alla primavera, all’equinozio di primavera. E come abbiamo passato (vedi disegno: piena estate, autunno, cuore dell’inverno), l’Illuminazione, la Conoscenza e la Prudenza, abbiamo per l’equinozio di primavera quanto si sentiva come opera di Penitenza. E al posto della conoscenza o della tentazione da parte del male, si presentava adesso quello che si potrebbe chiamare il rovesciamento, la conversione, il ritorno alla natura superiore dell’uomo grazie alla Penitenza. Se abbiamo prima scritto: Illuminazione, Conoscenza e Prudenza, bisogna ora scrivere: “Ritorno alla natura umana”.

 

Se ritornate ancora una volta sulla tentazione del male presente nel cuore dell’in­verno, non potrete che dire: l’essere umano aveva allora il sentimento di essere immerso nelle crepe della terra. Si sentiva preso nelle reti delle tenebre terrestri. Nel pieno dell’estate, era come strappato fuori di sé, la sua anima era sollevata al di sopra di lui; adesso era il tempo in cui, sul piano della sua vita interiore, l’anima si liberava per non essere imprigionata nelle reti del male nel cuore dell’inverno. La potrei definire una contro-immagine della situazione dell’estate.

 

All’apogeo dell’estate, i fenomeni della natura parlavano del Mondo spirituale. In particolare, si cercava nel lampo e nel tuono il linguaggio dei cieli. Si guardavano i fenomeni naturali, ma vi si cercava il linguaggio dello Spirito. Al tempo di San Giovanni si cercava anche nelle piccole cose il linguaggio spirituale degli Esseri Elementari, ma lo si cercava nel mondo esteriore. Era per cosí dire un sogno che si aveva al di fuori di se stessi.

 

Nel cuore dell’inverno, invece, si scendeva profondamente in sé, era un sogno interiore. Strappandosi all’influenza della Terra, era allora l’essere interiore che sognava, quando si poteva strappare la propria anima alla tentazione. Ne è rimasto ciò che è inerente alle visioni delle tredici notti sante che seguono il solstizio d’inverno. Sotto tutti i cieli si sono conservati dei ricordi di quegli antichi tempi. Potete considerare la Ballata di Olaf Åsteson (http://www.ecoantroposophia.it/2013/12/scienza-spirito/savitri/il-canto-del-sogno-di-olaf-asteson/) come un’ulteriore elaborazione di quello che era largamente diffuso in quegli antichi tempi.

 

Poi si avvicinava la stagione della primavera. Oggi la primavera si è un po’ spostata, in quei tempi era piú vicina all’inverno. Si divideva in genere l’anno in tre periodi. Le stagioni erano connesse di piú le une nelle altre, ma l’insegnamento era tuttavia impartito come ve lo comunico qui. Come all’apogeo dell’estate si diceva: “Ricevi la luce”, in autunno, a San Michele: “Guarda intorno a te”, e come nel cuore dell’inverno, al tempo del nostro Natale, si diceva: “Guardati dal male”, per quel momento di trasformazione si aveva una massima, che all’epoca era ritenuta efficace solo per quel tempo dell’anno. Quella massima era: “Conosci te stesso”, messa precisamente in polarità con la conoscenza della natura.

 

“Guardati dal male”, potrebbe anche essere detto cosí: guardati dal male, girati indietro nei confronti dell’oscurità terrestre. Ma non è questo che si diceva allora. Mentre nel pieno dell’estate si prendeva il fenomeno naturale esteriore della luce per della saggezza, che ci esprimeva in un certo modo riferendosi ad un fenomeno naturale, non si sarebbe potuto, in inverno, coniare la massima valida per l’inverno nella frase: guardati dalle tenebre; si esprimeva invece l’interpretazione morale di questa massima dicendo: “Guardati dal male”.

 

L’eco di queste feste è stato conservato ovunque nella misura in cui queste feste sono state comprese. Naturalmente tutto cambiò quando si produsse il grande avvenimento del Golgota. La nascita del Cristo ebbe luogo nel momento in cui è offerta all’uomo la maggiore tentazione, nella stagione invernale. Ebbe luogo nel momento in cui l’uomo era preso nella morsa delle potenze terrestri, in cui egli era per cosí dire immerso nei crepacci della terra. Fra le leggende che si ricollegano alla nascita di Gesú, ne troverete una secondo cui Gesú è venuto al mondo in una grotta, il che indica qualche cosa che nei piú antichi Misteri era sentita come saggezza, vale a dire: l’essere umano può trovare quello che deve cercare, anche se è stretto tra le tenebre terrestri, dove si trovano anche le ragioni per le quali l’uomo può cadere in potere del male. E noi abbiamo un’eco di tutto questo nel fatto che la festa della Penitenza è posta all’avvicinarsi della primavera.

San Michele

 

È naturale che il senso della festa di piena estate si sia perduto ancora di piú di quello dell’altro aspetto dello svolgimento dell’anno. Perché piú il materialismo si è diffuso nell’umanità, meno ci si è sentiti attratti verso l’Illuminazione o esperienze dello stesso tipo. Quello che per l’umanità di oggi presenta una particolarissima importanza è precisamente questo tempo dell’anno che conduce dall’Illuminazione, di cui gli uomini non sono ancora coscienti, verso la stagione dell’autunno. È in quel momento che l’uomo, che deve essere introdotto alla conoscenza della natura, dovrà capire che la conoscenza della natura è l’immagine della conoscenza dello Spirito divino. E per questo, non esiste una festa del ricordo migliore di quella di San Michele. Se questa è celebrata come conviene, è da lei che deve procedere la domanda, nella formulazione valida per tutti gli uomini: nella conoscenza della natura che oggi fiorisce, come trovare la conoscenza dello Spirito? Come fare la metamorfosi della conoscenza della natura in modo tale che da questa conoscenza della natura emerga per l’essere umano la conoscenza dello Spirito? In altri termini: come vincere quello che, essendo limitato a se stesso, imprigionerebbe inevitabilmente l’essere umano nelle reti del subumano?

 

Bisogna che intervenga una svolta. Bisogna che la festa di Michele rivesta un preciso senso. Si troverà questo senso se si è capaci di provare quello che segue. La scienza ha condotto l’essere umano alla conoscenza di un aspetto dell’evoluzione; egli sa, per esempio, che nel corso dei tempi, a partire da organismi animali inferiori, si sono sviluppati degli organismi piú perfetti, fino all’essere umano; sa anche che l’essere umano, durante l’evoluzione embrionale, riproduce successivamente le forme animali. Ma questo è un solo aspetto. L’altro è ciò che appare alla nostra anima quando ci diciamo: bisogna che l’uomo si sviluppi a partire da un primo abbozzo umano e divino.

Abbozzo umano

 

Se questo rappresenta l’abbozzo originale (tratteggi chiari), è cosí che l’uomo è dovuto evolvere per giungere al suo attuale sviluppo. Si è dovuto, poco a poco, sbarazzare degli ani­mali inferiori, poi, progressivamente, delle for­me animali che conosciamo. Ha superato tutto questo, l’ha eliminato, rigettato (tratteggi scuri) Con questo, è giunto alla sua prima mèta. Cosí è per lo sviluppo embrionale. L’uomo elimina poco a poco quello che non deve essere. Ma dicendo questo, siamo lontani dallo spirito dell’attuale conoscenza della natura. Qual è questo spirito? Esso si riassume in questa frase: in ciò che ti mostra l’attuale conoscenza della natura, vedi quello che deve essere escluso dalla conoscenza dell’uomo.

 

Cosa significa? Significa che l’essere umano deve oggi studiare le scienze naturali. Perché? Quando guarda al microscopio, quello che vi vede non è lo Spirito. Quando guarda nelle lontananze dello spazio cosmico con il telescopio, quello che gli si rivela non è lo Spirito. Quando fa esperimenti nei laboratori di fisica e di chimica, quello che gli appare, non è lo Spirito. Tutto quello che non è Spirito si manifesta a lui solo nella sua forma.

 

Quando, nei tempi antichi, gli uomini contemplavano quello che è per noi la natura, vedevano ancora lo Spirito trasparire attraverso lei. Oggi, dobbiamo acquistare la conoscenza della natura proprio per poter dire: “Tutto questo non è Spirito, è una conoscenza invernale. Tutto quello che è conoscenza estiva deve rivestire un’altra forma”. Affinché l’uomo possa avere la spinta, l’impulso che lo può portare verso lo Spirito, bisogna che impari a conoscere il non-Spirito, l’anti-Spirito.

guardare al microscopio

 

Sono cose che bisogna comprendere e che nessuno oggi ancora accetta. Oggi, per esempio, tutti dicono: «Ebbene, quando ho un essere vivente di piccole dimensioni, che non vedo ad occhio nudo, lo metto sotto il microscopio; allora s’ingrandisce e lo vedo». Certo, ma bisognerà che si capisca che quest’ingrandimento è menzognero; ingrandisco le dimensioni di quell’essere vivente, ma non è piú lui che ottengo, è un fantasma. Lí non vedo piú una realtà, ho messo una menzogna al posto della verità! Beninteso, quello che sto dicendo è pura follia per l’attuale maniera di vedere, ma questa follia è la verità. Quando si capirà che è necessaria una vera scienza della natura affinché questa contro-immagine della verità dia l’impulso che porta verso la verità, si avrà allora sviluppata la forza che può essere indicata simbolicamente nell’immagine di Michele che uccide il drago.

 

Ma per questo è necessario quello che a dire il vero esiste già, direi – sul modo spirituale negli annali – ma ciò ci si trova in una forma tale che, quando fu perso il vero sentimento di quello che vive nel corso dell’anno, si mise in relazione la cosa con l’essere umano. A quanto conduce alla Illuminazione, si contrappose la nozione di saggezza; a quanto conduce alla conoscenza, quella del coraggio; si mantenne la prudenza (vedi disegno) e a quanto corrispondeva alla penitenza, si contrappose la nozione di giustizia. Avete qui le quattro virtú platoniche: saggezza, coraggio, prudenza, giustizia. Si trasferí nell’uomo quello che precedentemente riceveva dalla vita dell’anno nel suo svolgimento. Ma quello che, all’occasione della festa di Michele, importerà particolarmente, è che bisognerà che sia una festa in onore del coraggio micheliano. Infatti, cos’è che trattiene oggi l’uomo di darsi alla conoscenza spirituale? La mancanza di coraggio nell’anima, per non dire la vigliaccheria dell’anima. L’uomo vuole ricevere tutto passivamente, vuole sedersi davanti al mondo come davanti ad uno schermo cinematografico e vuole che tutto gli sia detto dal microscopio e dal telescopio. Non vuole essere attivo e per questo temprare la spada del suo proprio Spirito, della sua propria anima. Non vuole avanzare sulle tracce di Michele. Per questo, ci vuole il coraggio interiore. Questo coraggio bisogna trovarlo nella festa di Michele. Allora irraggerà dalla festa del coraggio, dalla festa dell’anima profonda e coraggiosa quello che darà un vero contenuto alle altre feste.

 

Sí, noi dobbiamo continuare questo cammino: dobbiamo far entrare nella natura umana quello che una volta era all’esterno. Oggi l’uomo non è piú nella situazione nella quale gli basta di sviluppare in autunno la conoscenza della natura ecc. Egli è adesso nella situazione nella quale tutto viene a porsi al centro di lui stesso, perché è soltanto cosí che può esercitare la sua libertà. Ma è esatto che la celebrazione delle feste ridiviene necessaria in una forma trasformata. Se le feste di una volta erano dei doni divini fatti agli esseri terrestri, se l’uomo di una volta riceveva direttamente, all’occasione delle feste, i doni delle potenze divine, oggi, che l’uomo ha interiorizzato queste facoltà, la metamorfosi delle feste consiste nel fatto che sono feste del ricordo. Cosí che l’uomo iscrive nella sua anima quello che deve compiere in se stesso.

 

La piú efficace delle commemorazioni sarà la festa che inaugura l’autunno, la festa di Michele, perché la natura tutta intera parla allora un linguaggio cosmico, ricco di senso. Gli alberi si denudano, le foglie appassiscono, le farfalle che svolazzano nell’aria e gli insetti ronzanti si ritirano. Molti fra gli animali entrano nel loro sonno invernale. Ogni vita è paralizzata; la natura, che con la propria attività, ha aiutato l’uomo durante la primavera e l’estate, la natura, che ha agito nell’uomo durante la primavera e l’estate, si ritira. L’uomo è ridotto alle sue sole forze. Quello che adesso, quando l’uomo è abbandonato dalla natura, deve risvegliarsi, è il coraggio dell’anima. Ci è mostrato di nuovo che la festa, che possiamo concepire come la festa di Michele, deve essere una festa del coraggio, della forza, dell’attività dell’anima.

«Fate questo in memoria di me»

«Fate questo in memoria di me»

 

È questo che darà alla festa, poco a poco, un carattere di commemorazione; questo carattere di commemorazione, una parola immensa l’ha già annunciato, una parola che attira l’attenzione sulle feste di una volta, festa di doni, che in avvenire diverranno o dovranno divenire feste del ricordo. Questa monumentale parola che deve essere il fondamento di tutte le feste, perciò anche di quelle che dovranno nascere, è: «Fate questo in memoria di me». Essa orienta il pensiero delle feste verso il polo del ricordo. Come quello che esiste nell’impulso cristico deve continuare ad essere fonte di vita e agire, deve prendere forma e non restare soltanto un prodotto morto verso il quale si volga lo sguardo retrospettivo, cosí questo pensiero deve continuare ad agire, facendo nascere sentimenti e pensieri; e bisogna capire che le feste devono sussistere, anche se l’uomo cambia, e che per questa ragione devono cambiare anche loro, devono passare attraverso delle metamorfosi.

 

 

Rudolf Steiner


Conferenza tenuta a Dornach l’8 aprile 1923 – O.O. N° 223 – Traduzione di Angiola Lagarde.