Le spine e le rose

Costume

Le spine e le rose

Ora la vigna è stenta ed il torrente

s’avviva alla temperie dei piovaschi.

Danno ricetto sterpi ovunque e rovi

all’aspide furtiva cui lampeggia

nell’orrida pupilla la ferocia

vitrea dei mostri frutto dell’incuria.

Ciascuno si difende come può.

Altro veleno ha l’uomo, piú letale:

stende reticolati, scioglie cani

e scava fino al cuore la montagna,

o peggio mette al bando la memoria

che pone fastidiosi paragoni:

il tempo suo presente delle spine

con quello che vivemmo delle rose.

Ricordo, era un mattino di settembre,

quando sui tralci l’uva si screziava

di vividi riflessi alabastrini

e il fico dava stille d’idromele

a chi batteva a piedi la collina.

Era settembre, un mese di languori.

Il vecchio aveva molto navigato

in gioventú, veduto Gibilterra,

il termine del mondo suo di allora.

Sapeva le malizie dei mercanti

e conosceva gente d’angiporto,

ma aveva un cuore puro, nonostante

le insidie dei marosi e l’avventura.

Quel giorno si protese dal poggetto

che limitava l’orto a meridione.

«Guardate ‒ disse ‒ volano dal mare…»

e con la mano scarna puntò il cielo

invaso da festosi palloncini.

«Segnalano la pace, non temete!»

aggiunse poi, vedendoci turbati.

E noi bambini ci stringemmo a lui,

incerti tra la favola e l’orrore.

E questo venne dopo qualche istante:

apparvero tre uomini in divisa

al bivio del sentiero poderale.

Uno malfermo, con un braccio rotto,

o forse aveva solo un moncherino

sotto la stoffa zuppa della manica,

perdeva sangue, e s’appoggiava agli altri,

pallido, ansante, quasi moribondo.

Venne addossato al muro ed un soldato

corse da noi, facendo il gesto antico

dell’uomo che piatisce carità

d’un sorso d’acqua, d’un boccone: «Wasser»

scandí l’idioma del tedesco in fuga.

Ma piú eloquenti furono i suoi occhi,

d’un animale senza alcun rifugio,

braccato sulla via della montagna.

Il vecchio colse un grappolo, poi un altro,

staccò dei fichi, un serto di limoni,

ne fece un fagottello e glielo porse.

I tre s’inerpicarono tra i sassi,

uno marcava il suolo di vermiglio

finché restava sangue da versare.

Lasciò nell’aria 1’ansito struggente

dell’uomo che morendo si dispera.

Guardammo il vecchio, e lui voltò la faccia,

ma noi vedemmo tutti che piangeva.

Passarono piú tardi i vincitori

nell’usta dei fuggiaschi. Scolorava

quel magico settembre nel crepuscolo,

presagio dell’estate che finiva.

Mentre nel mondo l’uomo si uccideva,

le nostre rose stavano sfiorendo.

Dopo la guerra fecero la pace.

Suonarono a distesa le campane,

feriti e morti vennero contati.

Il vecchio ritornò con buona lena

ai solchi della vigna, dissodando,

potando rami, praticando innesti.

Pure qualcosa non tornava uguale:

nel viridario di minuti eventi

che era la nostra vita senza gloria,

volitava nell’aria indissolubile

lo spettro del terrore, l’amarezza

d’aver perduto, insieme all’innocenza,

l’oro dei saggi: la fraternità.

E noi bambini, edotti sull’inganno

che pone l’uomo alla mercé dell’odio,

chiedemmo al vecchio: «Dicci perché mai

ti ostini a lavorare questa terra

offesa per il sangue che ha bevuto».

E lui rispose: «Non dimenticate,

la terra è santa, e tutto riconsacra.

Qualcuno deve arare e seminare,

trebbiare, macinare ed infornare

pane per chi lavora o chi va in guerra.

Perché, badate, ancora passeranno

da quel sentiero vinti e vincitori,

con altri nomi, ma la stessa luce

di morte nello sguardo, e di furore.

La mano tenderanno alla pietà.

Qualcuno dovrà dare, a chi mendíca,

insieme al cibo un po’ di umanità,

per impedire al mondo di morire

nella spirale dell’inciviltà».

Cosí rispose il vecchio alla domanda.

E noi che sapevamo degli eroi

bardati con la spada ed il cimiero,

capimmo allora per la prima volta

di che materia è fatto un uomo vero.

Fu da quel giorno che scoprimmo come,

nell’alternarsi delle umane cose,

c’è chi coltiva spine, e chi le rose.

 

 

Il cronista