Dante

Letteratura

Dante

 

L’aspirazione politica di Dante

 

 

 

Era ferma convinzione di Dante che l’organizzazione politica imperiale soltanto avrebbe potuto salvare l’Italia: perciò, nell’apprendere la notizia dell’incoronamento di Enrico di Lussemburgo, egli cominciò a sperare che le sorti della penisola sarebbero state infine risollevate, e che tra l’altro a lui sarebbe stato concesso di fare ritorno in Patria.

 

 

Scrisse in tale occasione ai principi d’Italia e al Senato romano pre­gandoli che facessero cortese accoglienza ad Enrico il quale si accingeva a venire nel nostro paese con l’intento di ristabilirvi la pace e di ricevere in Roma la corona imperiale. In pari tempo si recò a far visita a quel monarca allo scopo di illuminarlo su le vere condizioni della penisola e di indurlo a venire presto in Italia e a rivolgere infine l’attenzione alla città di Firenze per ristabilirvi la pace e la giustizia su nuove basi.

 

Della Monarchia

 

“De Monarchia” Per dimostrare il valore e la necessità dei diritti dell’Impero, in occasione dell’avvento di Enrico di Lussemburgo, Dante dettava in latino il trattato De Monarchia, nel quale, svolgendo alcuni concetti già accennati nel Convivio, il Poeta afferma che soltanto la monarchia universale può essere garanzia della pace nel mondo, giudicando designato da Dio il popolo romano ad affermarla universalmente: la tradizione e la storia confermano questo. La venuta di Enea, l’impero del mondo conquistato e lungamente esercitato dai Romani, la nascita di Cristo sotto l’Impero di Roma sono altrettanti motivi di una simile certezza.

 

L’Italia è dunque la sede e il centro della monarchia; dall’Italia il monarca può governare gli altri popoli, ciascuno dei quali è retto pertanto con ordinamenti propri, cosí da costituire una federazione universale di nazioni cristiane. Né l’autorità dell’Impero è subordinata a quella della Chiesa, perché questa fu posteriore alla prima e anche perché l’elezione dell’im­peratore è voluta da Dio e gli elettori chiamati a designarlo sono anch’essi strumenti del Divino. Tuttavia, poiché ambedue le autorità sono necessarie all’intera società umana, esse debbono agire di comune accordo, cosí che Cesare abbia per Pietro la stessa venerazione che ha un figlio per il padre e accolga da lui l’insegnamento che gli è necessario per meglio governare.

 

Questo trattato che suscitò ammirazione tra i migliori uomini d’Italia di quel tempo, recò un contributo di chiarificazione politica in molte menti e in molti spiriti, ma fu impugnato dai partigiani del­l’autorità pontificia che videro in esso soltanto un argomento atto a difendere l’ideologia ghibellina e i diritti dell’autorità imperiale. Fu bruciato pubblicamente in Romagna dopo la morte del Poeta, dal cardinale legato Bertrando del Poggetto, ma ebbe piú tardi larga diffusione, dopo la volgarizzazione compiuta nel secolo XV da Marsilio Ficino.

 

 

La concezione dell’ImperoUn significato essenziale del pensiero politico di Dante si può ritrovare nella lettera che egli, nella imminenza della venuta di Enrico VII in Italia, indirizzò ai re, ai senatori di Roma, ai duchi, ai marchesi, ai conti e a tutte le genti allo scopo di affermare e diffondere l’idea della unità, fattore necessario e fondamentale per il bene dell’Italia e dell’Europa tutta.

 

Egli parla della venuta dell’Imperatore, invocando l’avvento di un nuovo regime di pace, ma non esita ad ammonire quei signori d’Italia che intenderanno creare ostacoli al programma di ricostruzione dell’ordine politico. La minaccia è rivolta specialmente ai tiranni che sfruttano le diverse popolazioni d’Italia: ma essi saranno annientati dall’Imperatore romano, che dovrà dominare da Roma il «giardino dell’Imperio», iniziando per l’Italia e per il mondo un nuovo ciclo di civiltà. La visione di Dante ha in effetto un valore profetico: perché, se la sua potente aspirazione non verrà realizzata da Enrico VII, si può dire che da quell’epoca tutti gli eventi della penisola, dal Rinascimento al Risorgimento e alla nostra storia contemporanea, tenderanno verso l’attuazione dell’ideale romano e imperiale evocato dal Poeta.

 

L’Imperatore tedesco viene chiamato da Dante “re d’Itali”»: infatti, entro tutta la penisola si riscontravano i benefici effetti del governo di Enrico, grazie alle leggi dei liberi cittadini italiani. Ma poiché questo re d’Italia è per Dante anche imperatore virtualmente romano, la sua giurisdizione, che si estende nella penisola come monarchia, si espande oltre, superando anche i limiti geografici, in quanto deriva da un imperatore romano il cui compito è di ristabilire dall’Italia un ordine occidentale.

 

«Deponi – dice Dante – sangue dei Longobardi, l’accumulata barbarie; e se alcuna reliquia ancora sopravanza del seme dei Troiani e dei Latini, cedile il posto: affinché l’aquila sublime, quando soprav­verrà discendendo a guisa di folgore, non veda i suoi nati scacciati di nido il luogo della propria prole occupato dalla genitura dei corvi. Orsú, schiatta della Scandinavia, fate di bramare la presenza di colui del quale ora meritamente paventate la venuta. E non vi seduca con allucinante miraggio la cupidigia, paralizzando con non so quale dolcezza, a guisa delle sirene, il vegliante raziocinio. Preoccupate il suo assetto nella confessione di sottomissione e giubilate nel salterio del pentimento, considerando che chi resiste alla podestà costituita resiste all’andamento di Dio. Chi è ribelle alla legge divina recalcitra contro una volontà uguale all’onnipotenza».

 

Dall’aspirazione imperiale di Dante scaturisce l’idea della missione di Roma come centro spirituale e politico dell’Impero: qui debbono aver parimenti il loro seggio l’Imperatore e il Pontefice. «Roma – scrive il Poeta nella lettera inviata ai cardinali italiani adunati per il conclave a Carpentras – è la città cui, dopo le pompe di tanti trionfi, Cristo con le opere e con le parole confermò l’Impero del mondo, e Pietro ancora e Paolo, l’apostolo delle genti, consacrarono quale sede apostolica, col proprio sangue».

 

La discesa in Italia di Enrico VII di Lussemburgo

La discesa in Italia di Enrico VII di Lussemburgo

 

Enrico VII in Italia Nell’anno 1310 Enrico di Lussemburgo partí dalla Germania diretto in Italia. Passò per Losanna, allo scopo di incontrarsi con le ambascerie di Toscana e di Roma inviategli da Clemente V allo scopo di ostacolare i disegni della Fran­cia che lo teneva quasi prigioniero, vigilandolo incessantemente, in Avignone.

 

Sul principio di Ottobre, l’Imperatore, passando per Susa, giungeva a Torino, quindi visitava Asti e si recava a Milano, dove veniva incoronato a Sant’Am­brogio dall’arcivescovo della città: egli riceveva la corona di ferro alla presenza degli ambasciatori di tutte le signorie italiche, eccettuate quelle di Firenze e della sua lega. Era il 6 gennaio del 1311.

 

Durante il suo soggiorno a Milano l’Imperatore ristabilí la pace nella città, riportando ad onore Maffeo Visconti e il suo partito, l’arcivescovo e tutti coloro che erano stati allontanati. In tutte le città della Lom­bardia Enrico riscosse la fiducia dei signori e delle popolazioni: in pari tempo, con la forza delle armi, ristabilí l’ordine a Lodi, Crema, Cremona e Brescia fatte insorgere dai Fiorentini al fine di ostacolare la sua venuta nelle terre toscane.

 

La venuta dell’Imperatore sembra che debba segnare l’inizio di una nuova storia per l’Italia: sembra che la vicenda sanguinosa delle fazioni debba aver termine, perché Enrico VII è un giusto, un instauratore della pace, mirante, di là da ogni limitazione di partito, all’armonia dei popoli.

 

Guelfi Bianchi contro Guelfi Neri

Guelfi Bianchi contro Guelfi Neri

 

Ma il male è troppo profondo e la durata dell’azione di Enrico sarà fatalmente breve. Occorre sanare avversioni che ormai le genti recano nel sangue. Nella serrata lotta dei Neri contro i Bianchi si riaccende con furore sempre piú forte la contesa dei Guelfi e dei Ghibellini che per secoli ha travagliato la penisola. I Guelfi si ostinano a difendere la sovranità politica del Papa contro quella dell’Imperatore straniero; i Ghibellini, invece, lottano per questo imperatore, perché sono convinti che soltanto colui che può guardare da un punto di vista superiore la contesa, di là da ogni setta o fazione, può recare l’armonia nella pe­nisola. Ma i Ghibellini sanno altresí che mai potrà venire la pace da coloro che pretendono di operare nel nome del Cristo, avendone dimenticato lo spirito.

 

Pure essendo Guelfi come i Bianchi, i Neri sono divisi anch’essi in Guelfi e Ghibellini, mentre fra i Bianchi si contano anche coloro che combattono contro il potere temporale dei Papi, per la libertà di Firenze. In effetto i Neri agiscono soltanto per la loro particolare causa e per la loro contingente politica.

 

 

Dante e l’Imperatore Il profondo significato di questa sanguinosa lotta è compreso, e forse vaticinato, soltanto da Dante Alighieri. «Per cinque anni, dal 1296 al 1301, un cittadino di Firenze lotta, inerme e quasi sconosciuto, contro il piú potente sovrano d’Europa: Dante contro il Papa Bonifacio VIII». Cosí diceva Merezkowsky. «Il recente passato è con Enrico, il futuro è con Dante, il prossimo presente è con Firenze». Infatti molti secoli passeranno prima che i popoli capiscano il senso realistico della grande aspirazione di Dante.

 

Nel perseguire con tenacia questo suo ideale, il 31 marzo del 1311 il Poeta invia un messaggio ai suoi concittadini; «Dante Alighieri, fiorentino, bandito senza colpa, ai fiorentini scelleratissimi, viventi in patria. Come fate a non temere la dannazione eterna, trasgredendo tutte le leggi divine e umane? O forse confidate ancora nelle vostre misere mura e nei fossi? Ma a che vi gioveranno quando sarà piombata su di voi la terribile aquila che vola su tutti i mari e le terre?…».

 

È quasi attendibile che Dante vedesse l’Imperatore a Milano nel 1311, qualche mese dopo l’incoro­nazione. Il poeta, genuflesso sui gradini del trono, abbracciò il «Santissimo Augusto». Per la seconda volta, egli, il fiero e l’irriducibile, baciava i piedi a un uomo: la prima volta a Bonifacio VIII, quando egli credeva ancora nella sua opera pacificatrice, la seconda all’Imperatore. E sembra che, alludendo a questo avvenimento. Dante nella sua lettera ad Enrico VII, commenti: «Ti vidi e ti udii, misericordiosissimo, e abbracciai i tuoi piedi e le mie labbra compirono il loro volere. Ed esultò il mio spirito e dissi a me stesso: ecco l’agnello di Dio che ha preso su di sé i peccati del mondo».

 

È evidente che, in questa esaltazione della figura dell’Imperatore, Dante ancora una volta sublimi il simbolo del potere divino che essa incarna, di là dai peculiari valori inerenti alla persona.

 

 

Massimo Scaligero (4. continua)

 


 

Tratto da: Dante, Domenico Conte Editore, Collana “Vite”, Napoli 1939.